Rebecca libri

A casa di Bret Easton Ellis

di Michele Masneri

Ma alla fine rappresenterà ancora qualcosa per le famigerate nuove generazioni? C’è stato un momento in cui Bret Easton Ellis fu lo scrittore forse più celebre del mondo, certamente fondamentale per le nostre adolescenze represse anni Novanta. Se Arbasino ci faceva scoprire come si fa una libreria e come si ordina un guardaroba e una valigia nell’Anonimo Lombardo, BEE insegnava tanti brand tutti mischiati insieme, tipo Xanax e Oliver People’s, e le sue dissolutezze sempre in bilico tra snuff movie e foruncoli californiani su copertina bianca Einaudi forse non saranno letteratura da canone, ma come sono invecchiati bene, rileggendoli ora. È il Calvin Klein della letteratura, da scandaloso è diventato un classico passando per l’adolescenza. E nella vita? L’immobiliare, come sempre, non mente? Ecco questa casa, condominio del tipo semi-signorile, proprio sul limitare tra West Hollywood e Sunset Boulevard. Palazzone senza infamia e senza lode, un po’ Balduina losangelina, atrio spazioso, rifattone come di prammatica con labbroni e volpini, portiere di colore gay. Marmi bianchi e neri. Undicesimo piano. No terrazza. Saranno un settanta metri quadri, forse commerciali, forse biservizi. Soffitti né alti né bassi, un saloncino, una cucina. A cinquantatré anni avrà finito i soldi, coi leggendari party e la vita dissoluta? In realtà non è una casa da adulti impoveriti, ma forse da studenti abbienti come quelli dei suoi racconti.

Lui è scalzo, gentile, gonfio, però con una bella faccia, una tuta, dei piedoni bianchi bianchi, come la facciata del palazzo che guarda lontano e il top della cucina di laminato, su cui stanno: un portafoglione con due American Express gold e platinum, un portachiavi Bmw, tanti barattoli di integratori, avanzi di un take away di pasta, una macedonia di fragole lasciata lì. Giornali: London Review of BooksTime magazine. Tanti timbri con le iniziali BEE. Nel salottino, una pianola, degli accendini, uno scatolone di magliette. Un maxischermo in cui silenziato va un reality di cuochi, tante cassette di Final Fantasy. «Sono del millennial socialista», sospira lui. «Il millennial socialista è fuori, è andato al tennis». Il millennial socialista si chiama Todd, ha trent’anni, stanno insieme da sette. Non si riesce a trovargli una sistemazione; «non si sa, vedremo, lui sarebbe musicista». Sospira. «Adesso è al tennis. È facile fare i socialisti quando io pago tutto, vabbè, lasciamo perdere». Andiamo nel suo studio, un iMac, libri, moquette, sta bevendo un succo di moj o qualcosa di costoso. I piedoni sotto il tavolo. «Ma stai messaggiando?», dice deluso, mentre si prende appunti sul telefono. Ma no, ti pare.

«Il millennial socialista ha smesso completamente di guardare la tv da quando hanno eletto Trump. Ha smesso la sua amata Cnbc, è completamente sconvolto che ancora non gli abbiano fatto l’impeachment», dice Ellis. «È delusissimo che la sua amata Rachel Maddow di Msnbc abbia promesso tutto il caso russo e poi non ha portato a nulla. La sera delle elezioni praticamente ha collassato, e ha ripreso a farsi». Come farsi? «Sì, di droga. Che ridicolo». «Aveva smesso, ma ha ricominciato la sera dell’elezione. Era uscito con gli amici, io son rimasto a casa a guardare lo spoglio, poi quando ho sentito i risultati gli ho scritto, ma aveva lasciato il telefono a casa, arriva che non sapeva nulla, ha visto la tv ed è diventato pazzo, è andato in bagno e sentivo che rovistava in qualcosa. “Non me ne frega più un cazzo di niente”, ha detto. Si è preso tutte le pillole che ha trovato in casa. E poi ha cominciato a farsi prescrivere tutta una serie di antidepressivi, antidolorifici, e così tutto il periodo post-elettorale l’abbiamo passato a letto a guardare vecchi film americani, perché lui non si alzava dal letto».

È serio? Guardiamo i suoi piedoni scalzi sotto la tuta nera mentre racconta questa storia del fidanzato drogato a causa di Trump. È serio. «Quindi io vivo quotidianamente in questa isteria, capisci. Un sacco di gente qui a Beverly Hills ha votato per Trump. Pure a Hollywood. Lo adorano, gli piace quello che è, quello che rappresenta. Non lo diranno mai, naturalmente. Stanno cercando di farlo fuori in qualunque modo ma non ce la fanno. Ieri sera ero a cena con tre tipi super di sinistra, sceneggiatori di Veep, più un altro che lavorava con Clinton alla Casa Bianca, e loro erano naturalmente disgustati da Trump ma allo stesso modo dal Partito Democratico, per aver lasciato che questo sia successo, per aver riproposto Hillary».

«Si attaccano a queste stronzate del gradimento, Trump ha un gradimento del 38 per cento, non vuol dire niente… Nancy Pelosi ha il 20, il Congresso ha il 15, i media hanno il 6, mi sembra che alla fine Trump sia messo meglio degli altri se dobbiamo capire a chi credere in questo pazzo mondo. Non so, non vedo una grande marea democratica arrivare nel 2020. E credo che sia un problema dei Democratici, che dovrebbero smetterla di attaccarsi a queste stronzate tipo la Russia e cercare un candidato serio, più centrista, in grado di prendere voti». Vabbè, dai, ma alla fine ti sembra un buon presidente? «Eh, ma chi è stato un buon presidente?». Ti fidi di lui? Compreresti la famosa auto usata? «No». Pausa. Sembra arreso. «Però che vuol dire, non l’avrei comprata neanche da Bill Clinton, e poi che significa l’auto usata…». Niente, non c’è verso. «E te lo dico io, che mi considero un gay liberal di West Hollywood».

Come come, gay liberal? «Beh, sì, abito a West Hollywood, e sì, sono molto liberal, certo, non il liberal clintoniano-obamiano classico. Quel liberalismo lì che licenzia le persone e le mette in galera per le loro opinioni no, non è il mio liberalismo». Ma chi è che licenzia? «Beh, il caso Google, è allucinante». Quest’estate, l’impiegato siliconvallico licenziato perché ha detto che le donne non sono geneticamente portate per i lavori tecnologici. «È un esempio tipico di questa corporate culture in cui siamo immersi». La corporate culture è uno dei tormentoni più recenti di BEE. Ne parla molto nei suoi podcast, che produce in continuazione, e sul suo blog, che pare un diario adolescente (ancora), con scansioni di vecchie riviste anni Ottanta, sue interviste, insieme a delle offerte per magliette, (37 dollari), copie di libri autografati (75), originali prime edizioni di Less Then Zero (145 dollari), lunghe postille.

«Questa nostra cultura bambinesca-virginale per cui ogni parere negativo critico su qualunque cosa fa paura e viene rimosso»; in favore delle grandi corporation del pensiero, prima naturalmente Facebook, che «ci impone la cultura della likability, dobbiamo continuamente mettere “mi piace”, e in cambio ci brandizza, targettizza, spreme di dati». «D’accordo, forse non sono liberal, ecco, forse sono un mostro che sceglie à la carte… non sono liberal, non sono conservatore, non sono democratico, non sono repubblicano. Non sono niente». Ma sei chiaramente libertarian. «Ecco, libertarian, sì, potrei essere quello, ma anche i libertarian sono immersi in questa isteria». Dai, sei il Peter Thiel di Hollywood. Si illumina. «Eh, magari, averci i suoi soldi». (Thiel è il leggendario investitore di Paypal, bastian contrario di Silicon Valley, sostenitore isolato di Trump). Comunque non era la tua definizione di liberal che stupiva. Semmai, quella di gay. Hai sempre traccheggiato. «Beh, sì, è vero, non è un’etichetta che mi definisce. La uso per prendere una posizione ufficiale ma non mi piace». Anche i personaggi dei tuoi libri sono sempre bisex, non ci sono mai personaggi principali apertamente gay. «Ne ho parlato molto col mio fidanzato, odiamo entrambi la parola gay, è solo un’altra etichetta, bianchi, neri, donne, transgender, è parte del problema dell’identità. Siamo solo umani».

«Oggi poi ci sono molte differenze, lui che è dell’86 ha un’educazione completamente diversa. Oggi a 14 anni ti conosci su Grindr e poi prendi la bici e vai a farti fare un pompino da qualcuno, questo per me era impensabile, anche se sono cresciuto in California. A Los Angeles negli anni Settanta e Ottanta era diverso, c’era più una cosa di bisessualità, come a New York, vedi David Bowie, Prince, American GigoloGQ. Mi ricordo al liceo, avevo un paio di fidanzatini segreti, c’erano un paio di genitori di compagni palesemente gay ma che vivevano con le rispettive mogli. C’era una lunga tradizione a Hollywood di uomini gay che sposano donne. Poi sono andato al college in Vermont, era un posto molto cosmopolita, e fui molto sorpreso dalla grande sperimentazione, c’erano le matricole che si ubriacavano e limonavano tra di loro, c’erano un sacco di threesome, mi ricordo perfettamente, era il 1982/83».

«Poi dopo quella cosa lì è finita, è diventato tutto politicizzato, tutto un marciare in piazza. Per tornare a Peter Thiel: è buono che ci sia una persona che esprima una diversa visione dell’omosessualità. Non possono essere tutti Tom Daley» (il tuffatore che si è sposato, tanto carino e perbene, pare di capire). «Meno di zero, il mio primo libro, l’ho scritto quando ero ancora al liceo, avevo una fidanzata, e in quel momento quella era la mia sensibilità. Che poi è un libro così gay! C’è un sacco di prostituzione gay. Non so, e poi era una questione estetica, più che politica» (estetica è una parola che ricorre spesso in Ellis). «Se pensi al protagonista, è più un lasciare aperte tutte le porte, non ha un’idea di nulla, né una struttura, è passivo rispetto alle cose, ragazzi, ragazze, eventi». E il tuo tremendo papà sapeva che tu eri gay? (Il padre di Ellis, nella continua sovrapposizione tra fiction e biografia, ne viene sempre fuori comunque malissimo. Il ritratto più preciso c’è in uno degli ultimi libri, Lunar Park, e fa paura, un immobiliarista che fa un sacco di soldi, lascia un disastro finanziario, e dei completi sartoriali incrostati di sangue per una operazione di allungamento del pene mal riuscita (a 70 anni). Nella realtà, ha raccontato, era un alcolizzato che menava tutti).

«I genitori sanno sempre. Ci ho pensato molto nella mia vita. Ho sempre sentito una grande distanza con lui, e forse era per questo. Lui veniva da un background molto macho, football, Nevada, sport. Io ero interessato alla letteratura e all’arte, niente di compatibile. Anche se adesso invecchiando mi sento più vicino a lui. Non era una persona molto illuminata, ecco tutto. L’ho odiato così tanto, adesso sto facendo pace. Era molto intelligente, solo, come molte persone, non era in grado di gestire le delusioni della vita, i sentimenti, e poi finì a bere». «Lui si allontanò quando ero ragazzino, e poi quando io cominciai ad avere successo tentò di riavvicinarsi, ma era troppo tardi». Quanti soldi avevate esattamente? Scusa, è importante. È grazie ai soldi di tuo padre che hai cominciato a frequentare i ricchissimi, no?

«Dunque. Il padre di mio padre aveva tanti soldi sul serio, aveva casinò nel Nevada, mio padre era medio, diciamo upper middle class, e poi cominciò a fare molti soldi con l’immobiliare, vendeva immobili commerciali». Ma questo cambio di classe sociale ha prodotto qualcosa in te? «Uhm, sì, certo, hai ragione, è stato senz’altro uno stimolo. Non avrei mai scritto Less Than Zero se mio padre non avesse fatto tutti quei soldi. Così sono finito nelle scuole private, incontrato tutti i ragazzini ricchi di Hollywood, fu una scintilla. Sì, i soldi di mio padre mi hanno fatto conoscere tutto questo. Poi il college, un posto molto interessante dove la metà erano poveri molto intelligenti con borse di studio e l’altra metà erano miliardari». Anche se in realtà ho scritto tanto, fin da piccolo, fumetti, diari, racconti. Però la prima cosa vera fu Less Than Zero, ragazzini che fingono di essere adulti, party a Beverly Hills, diciottenni che vanno al ristorante, entrare nelle discoteche anche se minorenni, guidare una macchina, avere una macchina, avere i genitori fuori città, con le grandi case libere…». (BEE qui sogna, felice).

Una delle ultime cose che ha fatto è questa miniserie, The Deleted, per un oscuro canale, Fullscreen, tutta una cosa di adolescenti bonissimi/e che si aggirano per beach houses mostrando soprattutto le spalle e il culo in vetrate con Malibu all’orizzonte. Naturalmente c’è una setta e/o un mistero dietro e la solita angoscia che accompagna le membra giovani, la sua solita estetica, qui un po’ piegata ai dettami 2017; il protagonista è la Vine star Nash Grier, che recita in maniera imbarazzante. È tutto un po’ a basso costo, è tutto un «dov’è scomparso John?», «possiamo partecipare all’orgia?», «cazzo, hai preso tu la mia coca?», «stanno arrivando! Stanno arrivando». Girato un po’ così.

Sei sempre stato ossessionato dall’adolescenza. Sei il gay Nabokov d’America, il Portnoy twink. «Sì! Sì!», dice felice nella sua tuta. «La giovinezza è interessante… è così nuova. Non so perché, ma c’è qualcosa di così drammatico, così potente, nei ragazzi». «È impulso, non è voluto. Anche per The Deleted, mi hanno accusato di metterci troppi maschi nudi, (le scene di spalle), anche i miei producer mi hanno detto che ci sono troppi culi maschili, ma in realtà tante scene le avevo scritte per un nudo femminile, ma poi una delle attrici non voleva, l’altra nemmeno, l’altra ha un contratto che enumera le pose di spalle, allora l’ho fatta fare ai ragazzi che invece non fanno storie e sono tutti contenti, mostrano il davanti e il dietro. Queste sì che sono le vere pari opportunità, per quel che mi riguarda!».

In realtà anche questa serie non è andata benissimo, ha fatto scandalo ma non troppo, è stato definito soft porno adolescenziale, di questi tempi non abbastanza per superare la famigerata soglia della rilevanza. Insomma coi libri va sempre benissimo, col cinema è sempre… «un casino, lo so», ci pensa lui a toglierci dall’imbarazzo. Tra i suoi progetti di film recenti, quasi mai realizzati: film sugli squali, film sui Duran Duran. The Canyons (molto bello, ma un disastro commerciale). Flop mostruoso con The Informers («la mia Waterloo creativa»). Però lui si ostina più che mai. «Ma è un problema classico, pensa a Fitzgerald, viene qua, vuol fare film, perché pensa che i suoi script saranno letti e ascoltati. Pensava che lo ascoltassero, stessa roba, ma non è così. A Hollywood non ti ascoltano. Ti dicono cosa devi fare. Coi primi tre film non ero così coinvolto (Less Than ZeroAmerican PsychoRules of Attraction), mentre per The Informers io e i finanziatori e il regista abbiamo lavorato insieme giorno per giorno e il progetto diventò costosissimo, ventidue milioni di dollari, è stato un disastro, però ancora ci credo. Ho creduto in The Canyons, ancora ci credo nel poter fare cinema». Così come non credi più nel romanzo. Cattivo. «Sto scrivendo una serie tv per Hulu, e questo mi prende un sacco di scrittura. Naturalmente è un tipo di scrittura diversa, più veloce, più facile. Mi piacerebbe scrivere un romanzo, certo. Ho un’idea che mi gira in testa da un sacco di tempo, ma non so come metterla giù, e se non so come metterla giù forse è semplicemente perché non mi va».

«So l’inizio e so la fine, mi manca quello che c’è nel mezzo, è una specie di high school drama, collocato prima di Meno di zero, solo che ora proprio non me la sento. Il mio editore vorrebbe anche un libro di nonfiction, ma non so proprio che scrivere, questa cosa non mi va per niente. Ma per il resto scrivo tantissimo, e leggo tantissimo». Lo si provoca. Hai scritto sempre in prima persona, mai in terza. «Sì, è molto più immediato, è una esperienza così più immersiva, è parte della mia estetica, la trovo una cosa molto più potente. La prima versione di Less than Zero era scritta in terza persona, faceva schifo, era così stiff, così pomposa, poi l’ho cambiato ed è diventato molto più complesso, interessante, coinvolgente. Anche i tre punti di vista differenti delle Regole dell’attrazione erano così seducenti per me…», ha una copia, eccolo lì, si dice sia il suo preferito, anche perché quello che è andato peggio… «Eccolo lì, trent’anni quest’anno, tra poco, ancora in circolazione».

Vendi ancora tanto? «Mah, sì, direi bene, i primi tre bene, certo gli anticipi presi per gli ultimi due le case editrici non li hanno mai recuperati, però American Psycho vende sempre molto, poi adesso c’è il musical – con cui io non c’entro niente – e c’è Trump, che ha dato una spinta notevole… comunque sì, la prima persona, se mai dovessi scrivere questo romanzo che ho in testa lo farei senz’altro in prima persona». Ma quindi ci stai pensando! «Non lo so, l’altra sera ero a cena con un gruppo di persone, tutti miei coetanei, tutti leggono un sacco di romanzi. È tutto un ordinare romanzi nuovi su Amazon, compulsare le classifiche del New York Times. Bah, erano anni che non avevo una conversazione del genere». Forse perché stai a Los Angeles, magari a New York è diverso. «Ma no, uno di loro era Jay McInerney, e sono tutti newyorchesi: è che non credo che il centro di tutto sia più questa cosa qua… il romanzo… il romanzo…» (ripete questa parola, the novel… the novel… gonfiando le guance, sentendo l’effetto che fa).

Chi sono i romanzieri che ti hanno ispirato? Cioè soprattutto che ti hanno ispirato lo stile, tu sei un romanziere di stile non di trame. «Ho letto Hemingway, certo, per primo ho pensato, voglio scrivere così». Ma poi «i film», dice convinto. «Il mio stile viene tutto dal cinema, I am a camera, come Isherwood, e poi Joan Didion. E poi, lo so, sembra assurdo, ma Stephen King, c’è qualcosa di King che mi ha sempre colpito, l’orrore del quotidiano». Ma tu infatti hai un grande lato horror. Qui si confessa: non si è mai riusciti ad andare avanti nel bellissimo Lunar Park dopo la prima parte molto Philip-rothiana. Quando cominciano ad arrivare i mostri e diventa Stephen King si è sempre morti di paura. Gli si illuminano gli occhi. «Ah, ti ha fatto molta paura? Ma bene», è molto contento. «Io credo che i film horror per la mia generazione e per la Generazione X siano stati una ispirazione fondamentale».

E contemporanei chi leggi? Franzen? «Mi è piaciuto molto con Le correzioni e Libertà. Purity sì, è un bel libro, però ha già scritto due capolavori, forse ha detto tutto quello che aveva da dire. Adesso sto leggendo questo libro di Jonathan Littell, Le benevole, mille pagine su un gay nazista, è spaventoso, disturbante, con lunghe interiezioni di questi nazisti che parlano del linguaggio e linguistica, ha avuto un grande successo in Europa ma qui in America è stato un fiasco dopo aver preso da Harpers un anticipo di un milione di dollari. Poi cos’ho letto? Ah, sì, gli ultimi saggi di Joan Didion, puro piacere, una biografia di Dominique Dunne, in due giorni, adesso sto leggendo Thomas Hardy».

E per il resto che fai? «Mi alzo, tra le sette e le nove, faccio il caffè, il socialista è già in piedi; poi leggo, faccio colazione, vado in palestra a ora di pranzo, torno a casa, lavoro a questo nuovo film» (racconta una trama complicata con degli adolescenti a Las Vegas vittime di qualche violenza). Party? «No, niente, basta, mi son stufato». Ti mancano? «Mi manca non essere più giovane. Adesso non mi diverto più a fare small talk con sconosciuti. Con la droga ho smesso, ho smesso e basta, mi ero stufato, l’ultima volta che ho preso coca è stato tipo tre anni fa, a una festa a Hollywood, una grande star me l’ha offerta, ero ubriachissimo, io ho preso solo una piccola striscia, è stato un disastro. Veramente un tempo potevo prendere tonnellate di droghe, ma si vede che è proprio cambiato qualcosa, l’età, il metabolismo… E poi diciamoci la verità: cosa ci vai a fare ai party se poi non puoi scopare?».

«Alle anteprime non ci vado perché son tutti amici e poi non posso dire la verità sui film. Stasera esco con James Deen (il pornostar protagonista di The Canyons), domani ho una riunione alle dieci di mattina, poi ho il podcast da fare». «La sera stiamo in casa e guardiamo vecchi film su Netflix o meglio ancora su Filmstruck o Shutter, per oscuri film dell’orrore. Stiamo molto in casa anche perché Todd sta in questo stato, dalle elezioni abbiamo visto tantissimi film». E sei sempre innamorato di LA? «Oh, sì, più che mai» (e naturalmente non ci si riesce a immaginare BEE in qualunque altro posto). «È un posto che nel tempo ho amato e odiato, la spiaggia, la libertà, la mall culture, le spider, non riesco a immaginarmi di vivere in nessun altro posto. Ero a New York l’anno scorso, l’ho odiata, ci ho vissuto vent’anni ma qui è diverso, ci si può isolare, la amo più che mai».

C’è anche un senso del tragico però qui, no? Spiagge, ventenni, palme. Qualcosa che deve succedere. Un po’ sinistro, come i tuoi libri. «Sì, c’è tutto questo, certo. Adesso però invecchiando il sinistro lo sento meno». «Sai qual è il problema? Che c’è qualcosa di molto sinistro nella bellezza. Nel modo in cui ci disturba, se troviamo qualcosa di veramente bello diventa doloroso, averlo, mantenerlo». Si apre la porta, entra un ragazzo, a torso nudo, tutto sudato. «Ciao, chi sei? Sono Todd. Che taglia hai?», ci chiede. In che senso? Il trentenne socialista è arrivato dal tennis, è simpatico. «La vuoi una maglietta», fa. C’è scritto, naturalmente, “disappear here”.

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