Rebecca libri

“Alla fine di questa frase, comincerà la pioggia”

di Francesca Borelli

L’essere nato a una periferia dell’impero ha reso tardiva la fama di Derek Walcott, ma da quando il Nobel per la letteratura, assegnatogli nel 1992, si è fatto viatico della sua presentazione al mondo intero, le traduzioni della sua opera stanno varcando tutte le frontiere. E portano, senza che sia possibile fraintenderne il suono, l’eco delle maree sulle rive caraibiche. “Le vere biografie dei poeti sono come quelle degli uccelli, quasi identiche – i dati veri vanno ricercati nei suoni che emettono”: è un passo del commosso, reverenziale, quasi esaltato omaggio di Josif Brodskij a Derek Walcott, e non sembra possibile trovare parole migliori per rendere giustizia alla densità sonora e immaginifica della sua epica. Non ha orecchio, infatti, chi pur potendo godere dei versi di Walcott nell’inglese originale, non vi sente i rumori del mare: c’è dentro l’irruenza dell’oceano, alternata alla nostalgia del boato dopo che l’onda si placa, e l’eco del canto dei marinai insieme alla dolcezza intonata alla monotonia della risacca. Nella lingua dell’uomo nato al crocevia tra il patois creolo e l’inglese dei colonizzatori, risuonano una infinità di culture; mentre nei suoi versi c’è il ritmo del calypso, la musicalità del reggae, la metrica di Eliot e la distanza dal pentametro giambico offerto dal modello inglese: perché come scrisse il poeta caraibico Edward Brathwaite, nel suo History of the Voice, “l’uragano non ruggisce in pentametri”. Nei versi di Walcott non è spento, neppure, il lontano grido dall’Africa che dà il titolo a una sua poesia: quella memoria che gli fa scrivere “Il gorilla lotta con il superuomo./ Io che sono avvelenato dal sangue di entrambi,/ Dove mi volgerò, diviso fin dentro le vene?”

Chi è nato nelle Indie occidentali, come Walcott che viene dall’isola di Saint Lucia, non può prescindere dalla ancestrale memoria delle catene, ma il dramma del passato sembra essersi depositato nei suoi versi come a decantarsi, lasciandovi una consapevolezza che non indulge al vittimismo proprio di chi si sente relegato all’ombra della storia. Da quell’ombra, gli scrittori caraibici sono riscattati grazie all’orgoglio di essere nati in una natura abbagliante, che entra di prepotenza nei loro libri nutrendo una tra le letterature più vitali del nostro tempo. Derek Walcott ne è il protagonista più celebrato e il più noto, da noi, grazie alle traduzioni poetiche della Mappa del nuovo mondo, della pièce Ti-Jean e i suoi fratelli, del dramma Sogno sul Monte della Scimmia, del poema La goletta ‘Flight’, tutti pubblicati dalla Adelphi, per la quale è uscita alla fine del 2003 – dunque sette anni dopo questa intervista, avvenuta a Milano nel maggio del ‘96 – la traduzione davvero impervia del grande poema Omeros.

Lei ha detto, una volta, che in un certo senso si può pensare alla poesia europea come a un crepuscolo e alla letteratura caraibica come a un mattino, quasi fossero due momenti opposti del giorno…

Quando ho fatto quella affermazione stavo pensando in termini di tempo storico. La gamma di una cultura non può essere fissata una volta per sempre: c’è un periodo relativo alla sua nascita, poi alla crescita poi al declino, come nella sequenza naturale della vita umana. L’Europa ha una storia antica, se la pensiamo in termini cronologici e non geologici, mentre la storia dei Caraibi è più fresca. Uno scrittore europeo, specialmente quando ascolta drammi come quello della Bosnia, è costretto a svegliarsi con quel peso e a portarlo sulle spalle. Di fronte a tutte le tragedie che continuano a accadere ci si domanda cosa ha fatto la cultura per redimerle. La storia dell’Europa è sempre stata trattata come una storia di civiltà, non solo da una prospettiva culturale, ossia riguardo alla sua arte, ma anche da un punto di vista morale. Così la questione è: forse che l’Europa, pur avendo una grande storia culturale non ha un centro morale? In altre parole: cosa hanno fatto le cattedrali per redimere la condotta degli uomini? Come si possono far stare insieme le ovvie conquiste della cultura europea con l’olocausto? E come puoi metterle di fronte alla guerra nella ex Jugoslavia e a altre tragedie? Qualcuno potrebbe rispondere che tutto questo è sempre accaduto, esprimendo così una visione fatalistica o pessimistica o anche solo normalizzante della storia: bene, penso che la posizione di noi caraibici, dall’altro lato del mondo, stia nel rifiutare di considerare normali queste catastrofi e scontata una visione tragica dell’esistenza, che si limiti contemplare i massacri attuati. Così, ci si scopre esausti della fine del giorno, della fine della storia, di quella della cultura e della civiltà come vengono sempre rappresentate dall’Europa, al paragone con altre culture che si suppone neghino l’oscurità e celebrino il giorno: ossia un mattino che offra la possibilità di cambiare ciò che sta succedendo. Quel che accade durante il corso della notte può diventare un incubo. Joyce chiama la storia “un incubo” dal quale sta cercando di svegliarsi. Il declino, il tramonto, possono offrire un mattino di possibilità. Ciò che uno scrittore può fare nelle Americhe e nei Caraibi, è farsi carico di quell’esaurimento che ha colpito lo scrittore europeo e lo ha inchiodato a una visione tragica: prendersi la sua responsabilità e la sua fatica.

Il primo suono che rimandano i suoi versi è quello del mare: lei stesso ha detto che è il rumore più importante nella sua poesia.

Sì, proprio nel posto dove vivo mi è possibile sentire il mare tutto il tempo. Ma dirlo in prosa semplifica e banalizza quel che ho già provato a scrivere nei miei versi. Il che mi condurrà, in altre parole, su terreni che in una conversazione suonano enfatici, mi porterà a usare metafore pompose: sia pure, resta vero il fatto che, svegliandosi in prossimità del mare, ci si accorge come il suo grande contributo all’idea del tempo stia nel suo essere vuoto. Nulla può essere fissato sul mare, perciò nulla può possederlo. Non ci possono essere monumenti, né targhe commemorative, perché il mare non li accetta. Nulla può essere piantato sulle sue acque, nulla può venirvi seminato, non ospita rovine e perciò non è stato di alcun interesse nella nostra idea del tempo e della storia. Se ti svegli al suono del mare, realizzi che non si cura di te, né di quello che rappresenti: il mare se ne frega del genere umano. La terra, invece, è dominata da ciò che noi facciamo di lei: la modelliamo, ne cambiamo la forma, la ricostruiamo, la appiattiamo, la scaviamo, la pieghiamo a ogni nostro scopo: nulla di tutto questo ci è reso possibile dal mare. E, ancora, il ritmo del mare, in termini di continuità, è come una metafora del tempo. È là, e basta. È molto duro accettare che anche se tu non sei presente, le onde se ne andranno avanti e indietro comunque: l’idea del tempo si separa dalla idea della storia, e persino dalle conquiste che porta con sé. La cronologia non significa niente per quel che riguarda il movimento di un’onda. Come può, tutto questo, mettersi in relazione con la nostra stessa vita? E poi, se guardi alla vuotezza del mare, l’orizzonte appare come una linea continua, qualsiasi cosa vi si muova va nella stessa direzione. Il viaggiare di una vela in uno stesso senso ricorda la traccia di una penna. È perciò che l’origine di uno dei grandi poemi del mondo, l’Odissea, è basata sul mare: è un atto che celebra l’azione di una vela che si muove lungo una linea. Si potrebbe obiettare che Omero non scriveva, dettava: non importa. Il concetto di viaggiare lungo una stessa direzione rimane lo stesso, l’immagine mentale di Omero era quella di una continuità di onde. Quando facciamo riferimento alla metafora secondo la quale siamo come isole nel tempo e nello spazio, bene, anche questo è un concetto che viene dal mare… Vede come suona retorico tutto ciò?

Lei predilige scrivere in versi e ritiene, tra l’altro, che nessuna idea sia inaccessibile alla poesia. E alla prosa?

Inaccessibile? No. Del resto, il punto di vista che vede la divisione tra poesia e prosa non è mai esistito prima dei nostri tempi. Alcuni dei più grandi poemi del mondo sono fiction, pensi alla Divina Commedia o altri capolavori simili, sono romanzi nel senso migliore del termine. Il viaggio di Dante attraverso i tre stadi della sua esistenza è un grande racconto. E la poesia contemporanea è stata di volta in volta anche un saggio, un epigramma.

Nel suo poema Omeros c’è una sola sezione lirica, quasi separata dalle altre. Come mai lei sembra esitante rispetto alla scelta del versante lirico nella poesia?

Omeros è un libro piuttosto prosastico, un po’ un romanzo; anzi, è quasi un film, quindi non c’è molto di soggettivo. La poesia lirica invece è centrata sull’Io, sull’ego: ora, io non penso di essere una persona particolarmente interessante, dunque nulla di quel che voglio dire riguarda la mia persona. L’Io è molto noioso. Non voglio certo dire, con questo, che la poesia lirica sia espressione della vanità, ma tende troppo a avvolgersi su stessa.

Lei è stato allevato nella religione metodista. Cosa pensa di avere preso, per la sua poesia, da quell’insegnamento?

Questa, se non sbaglio, è una domanda che riguarda la morale. Come metodista ho imparato a evitare il misticismo, i rituali. E poi me ne è venuto un insegnamento di equità e di giustizia nei confronti degli altri: di democrazia, se vuole. Per quanto riguarda i riflessi sulla mia poesia, essi vengono dai grandi inni indirizzati senza mediazioni rituali al soggetto cui sono destinati. Ci si sente come quando, dopo avere bevuto troppo vino, ti danno un bicchiere d’acqua e questa acqua appare come qualcosa di religioso e santificato. Inoltre, naturalmente, c’è l’influenza che mi viene dalla Bibbia di re Giacomo I: penso di avere lavorato su questi elementi fin dall’inizio, cercando di tirarli via dalla chiesa. Ma per favore non mi chieda qualcosa sulla morale.

No, non era una domanda sulla morale. Le chiedo invece di un aspetto poco familiare ai lettori europei: quale relazione esiste ancora tra la tradizione dei calypso, quella del carnevale e la poesia caraibica contemporanea?

C’è ancora una forte tradizione orale là nei Caraibi, una consuetudine di poeti e musicisti, i calypsonian, che sono loro stessi autori delle canzoni che cantano. Naturalmente, anche altrove si danno pubbliche performance, come quelle delle rockstar, che talvolta compongono anch’esse le loro canzoni. Ma la tradizione dei poeti che declamano le loro poesie sembra non esistere più, in Europa. Rapsodie, canti e poesie popolari sono stati preservati, ma persino i cantanti di cabaret non sono più compositori. Nei Caraibi, invece, e in particolare a Trinidad, ogni anno centinaia di persone si affrontano in una gara basata su una canzone-poema. Il fatto che tutto venga messo in scena in una arena di migliaia di persone arrivate lì per giudicare i calypsonian, il fatto che la competizione sia basata principalmente su canzoni, tutto questo sopravvive come unico esempio di una tradizione altrove scomparsa. La qualità richiesta per i calypso è alta, e essi possono riguardare qualsiasi argomento, dai problemi dell’immigrazione al cibo; la condizione è che siano danzabili. Inoltre, devono funzionare sia come pubblico divertimento, sia come piacere relativo alla propria scrittura. E contengono tutti un elemento legato alla performance. La tradizione dei calypso entra nel teatro, il suo ritmo è come un lampo. La qualità della recitazione in linguaggio vernacolare ha dimostrato di avere la stessa valenza di intrattenimento del calypso, il che non avviene per la poesia lirica scritta: perché essa si riferisce all’Io e lo fa nella lingua della scrittura. Anch’io ho composto della musica, molte delle mie pièces sono in dialetto. All’interno di ogni performance deve passare la vita.

Lei ha detto più volte di non essere particolarmente coinvolto dalla cultura greca, poiché non ne conosce la lingua. Eppure, nel suo poema Omeros la letteratura greca sembra avere una enorme influenza. D’altronde, quel modello esercita su di noi un valore di esemplarità che oltrepassa la nostra consapevolezza. È d’accordo?

Come mi è già capitato di confessare, non ho mai finito di leggere l’Iliade, né, d’altronde, l’Eneide. È un fatto, pazienza. Troppe battaglie, troppe persone che muoiono… dovrei provare di nuovo. Ma l’Odissea è diversa, è il primo tra tutti i romanzi. Per quel che riguarda la questione dei Greci, il problema nel quale mi sono cacciato mi si configura così: ci sono due arcipelaghi, fisicamente quasi opposti l’uno all’altro, l’egeo e il caraibico. Geologicamente sono contemporanei. Ascrivere un particolare gruppo di rocce a una certa epoca è un nostro modo di segnare il tempo. Per quanto riguarda l’Odissea, si potrebbe trasferire il mare Egeo e tutte le sue vele nell’arcipelago dei Caraibi… ed ecco comparire le similitudini. Al tempo in cui Omero componeva, la dimensione di una città era quella di un moderno villaggio nei Caraibi; l’occupazione principale era la stessa dovunque, ossia pescare. D’altronde, anche quei regni di cui si parla nell’antica Grecia erano probabilmente grandi come fattorie: questo per dire che il nostro tempo è stato influenzato da una serie di concetti in scala. Anche il linguaggio che ereditiamo ripercorre il suo viaggio all’indietro fino alle fonti ebraiche e greche: io non posso non parlare la lingua che sto parlando, ma essa equivale a una traduzione. Nel Nuovo Mondo tutto è referenziale, tutto passa attraverso il medium dell’inglese, ossia della lingua che ci è stata insegnata a scuola. Nella nostra cultura ogni elemento ha a che vedere con il fatto che siamo stati colonizzati, le nostre radici sono state forzatamente sollevate dalla schiavitù e questo è accaduto anche per quanto riguarda l’eredità indiana. Che tipo di cultura è questa? Un purista della razza direbbe che è tutto un mélange: non ci sono individui puri nei Caraibi, ma è proprio questa la loro forza. I Caraibi sono un nulla in termini di purezza, il che equivale a dire che sono un tutto. Qualsiasi caraibico porta in sé la cultura indiana, quella cinese, quella libanese, e naturalmente quella africana, la spagnola, l’inglese, la francese, l’olandese, e così via. Se si esamina il fondamento dell’esperienza non si può mai dire che essa appartiene a una sola nazionalità, e questo vale anche per le influenze assorbite da Omero, Dante, Shakespeare, Borges, tutti gli scrittori del mondo: c’è una intelligenza dello scrivere nell’aria dei Caraibi. Dunque, è in questo senso che Omero fa parte della mia esperienza.

 

Opere di Derek Walcott tradotte in italiano

Poesia

Collected Poems 1948-1984, Farrar, Straus and Giroux, New York 1986; Mappa del nuovo mondo, con un saggio di Iosif Brodskij, trad. a fronte di Barbara Bianchi, Gilberto Forti e Roberto Mussapi, Adelphi, Milano 2001.
Omeros, Farrar, Straus and Giroux, New York 1990; trad. a fronte e cura di Andrea Molesini, Adelphi, Milano 2003.
La goletta “Flight”, trad. a fronte di Roberto Mussapi, Adelphi, Milano 1992 [titolo orig.: The Schooner “Flight” (da Collected Poems 1948-1984)].
The Bounty, Farrar, Straus and Giroux, New York 1997; Prima luce, trad. a fronte e cura di Andrea Molesini, Adelphi, Milano 2001.
Tiepolo’s Hound, Farrar, Straus and Giroux, New York 2000; Il levriero di Tiepolo, trad. a fronte e cura di Andrea Molesini, Adelphi, Milano 2005.

Teatro

Dream on Monkey Mountain and Other Plays, Farrar, Straus and Giroux, New York 1970; Ti-Jean e i suoi fratelli. Sogno sul Monte della Scimmia, trad. di Annuska Palme Sanavio e di Fernanda Steele, Adelphi, Milano 1993.
The Odyssey: a Stage Version, Farrar, Straus and Giroux, New York 1993; Odissea. Una versione teatrale, trad. a fronte e cura di Matteo Campagnoli, Crocetti, Milano 2006.

Saggi

What the Twilight Says. Essays, Farrar, Straus and Giroux, New York 1998; La voce del crepuscolo, trad. di Marina Antonielli, cura editoriale di Matteo Campagnoli, Adelphi, Milano 2013.

 

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