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Canzoni dell’amore infinito

di Kabir
Fonte: Lindau 2018

Poeta, filosofo e mistico del XV secolo, Kabīr visse a stretto contatto prima dell’islam e poi dell’induismo, in un periodo di lotte sanguinose che li opponevano e li dilaniavano anche al loro interno. Scelse di imboccare un cammino radicalmente diverso: rigettando gli sterili formalismi, gli inutili riti e i digiuni mortificanti prescritti ai fedeli dei due credi, propose una nuova concezione unitaria e gioiosa di Dio e del mondo.

È l’amore universale da cui tutto nasce quello celebrato nelle Canzoni dell’amore infinito: in esso non c’è separazione tra vita e morte e ha finalmente termine ogni inquietudine umana, perché l’Amore non ha principio né fine, è il Senza Forma, e «per la sua misericordia» insegna a «camminare senza piedi, a vedere senza occhi, a udire senza orecchi, a bere senza labbra e a volare senza ali».

Paradossalmente Kabīr divenne un punto di riferimento tanto per i credenti dell’islam quanto per gli induisti e quando morì, pare alla veneranda età di 119 anni, gli uni e gli altri si disputarono il corpo del Maestro. La leggenda vuole che al suo posto sia stato trovato un enorme fascio di gladioli selvatici che i due schieramenti si divisero: così una parte di quei fiori fu bruciata e gettata nel Gange, mentre l’altra venne sepolta.

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Kabīr

di Brunilde Neroni

È molto difficile tentare una biografia storicamente esatta di Kabīr per le molte leggende che circondano l’intera vita del poeta e riformatore religioso nato a Benares intorno al 1398, grande maestro di yoga e discepolo di Rāmānanda, che diede vita al movimento dei Kabīr panthī (coloro che seguono la via di Kabīr), ancora esistente ai nostri giorni e che conta nel Nord dell’India almeno un milione di seguaci. Ci sono due tradizioni, una brāhamana e una musulmana inerenti alla sua nascita, alle sue scelte di vita e alla sua morte, che comunque non si contraddicono e che tento di riportare il più fedelmente possibile.

Secondo la Bhakta Mālā, il libro dei santi indiani, a Benares viveva un brāhamano, che era stato discepolo di Rāmānanda e che aveva una figlia vergine e vedova. La ragazzina chiese al padre di portarla a conoscere il suo grande Maestro, che era di passaggio in città. Purtroppo egli, appena la vide, le rivolse la benedizione più comune per le donne in India: l’augurio di concepire al più presto un figlio, ignorando il suo lutto e il suo matrimonio non consumato. La benedizione di un sādhu, cioè un Maestro-santo, qual era Rāmānanda era irrevocabile, la donna concepì e diede alla luce un bambino, che fu subito abbandonato dalla madre. Preso per pietà da due julāhā, tessitori musulmani, fu inserito nella loro famiglia col nome arabo di Kabīr; i genitori adottivi crebbero molto amorevolmente il ragazzo, insegnandogli il loro mestiere e la loro religione. Già da adolescente però egli era attratto dagli asceti induisti, dalla pratica dello yoga, dagli insegnamenti sia dei sādhu che dei ṣūfī.

La spregiudicata posizione religiosa a cui sarà fedele per tutta la vita, rappresenta la tendenza a conciliare tutte le religioni al culto di un solo Dio.

Intorno al 1410 Rāmānanda (1350-1430) predicava nel Nord dell’India la riforma religiosa già introdotta da Rāmānuja nel Sud. La sua era una dottrina di dolcezza, contraria alla rigida formalità dei Veda, una proposta di fratellanza, pietà, onestà e soprattutto unione tra le religioni. Quando insegnava, questo grande Maestro devoto del dio Viṣṇu placava le dispute che dividevano musulmani e induisti nella città santa di Benares: tutti andavano da lui per essere illuminati, per ascoltare le sue mistiche parole di pace e di fede.

L’adolescente Kabīr venne talmente preso dagli insegnamenti di Rāmānanda, che decise di diventare suo discepolo, ma per paura di non essere accettato perché di famiglia musulmana, ricorse a uno stratagemma. Ogni mattina, andando a bagnarsi nel Gange, il grande Guru scendeva la scala che portava al fiume e intanto ripeteva preghiere e invocazioni preparatorie alla purificazione. Una mattina Kabīr lo aspettava sull’ultimo gradino, quasi appiattito per non essere visto. Rāmānanda, guardando il cielo e pronunciando «Rāma, Rāma», il nome della terza reincarnazione del dio Viṣṇu, toccò con il piede il corpo del giovane Kabīr, che subito gli s’inchinò davanti, dichiarando di voler diventare suo discepolo per tutta la vita, visto che il Guru gli aveva già dato, con la sua stessa bocca, il mantra dell’accettazione.

A queste parole Rāmānanda rise e, ben comprendendo il desiderio di Kabīr, lo prese con sé, nonostante le proteste dei suoi allievi induisti ortodossi. Il giovane diventò proprio quello che il Maestro aveva predicato per tutta la vita: un conciliatore delle religioni islamica e induista, che predicava e insegnava ai discepoli dei due credi religiosi. Suscita quasi meraviglia che una personalità così forte come quella di Kabīr che condannava pubblicamente i riti, i digiuni, i formalismi tipici dell’induismo e criticava le strette regole del Corano, sia riuscita a salvarsi in un periodo di sanguinose lotte religiose, che dilaniarono perfino le correnti ortodosse e semi-ortodosse delle due religioni. Kabīr cantò e adorò un solo Dio, l’irraggiungibile Brahman Nirguṇa e lo invocò nelle sue canzoni utilizzando indifferentemente nomi sanscriti e arabi: Hari, Rāma, Allah, Rahīm. Tanti nomi per una sola immagine totalmente interiore, ricercata a lungo con l’Haṭhayoga, metodo che propone il controllo del corpo e delle energie vitali, mirante al risveglio della śakti, cioè della vera energia capace d’entrare in contatto col divino. Proprio questa congiunzione con il «Punto», che «pur essendo più sottile della milionesima parte d’una fibra di loto, ha il fulgore di dieci milioni di soli», Kabīr cantò sempre, ricercando continuamente la «mirabile melodia senza suono».

Quando morì, secondo la tradizione a 119 anni e quindi intorno al 1515, i suoi discepoli si disputarono il corpo del Maestro ma la leggenda racconta che, quando scoprirono il cadavere, non trovarono altro che un enorme fascio di gladioli selvatici. Hindu e musulmani si divisero così ciò che era divenuto il corpo di Kabīr e parte di quei fiori fu bruciata e gettata nel Gange, mentre l’altra parte venne sepolta.

Kabīr aveva scritto e cantato i suoi Bijak (Canzoni) in sādhukkaṛī, la lingua dei sādhu, dei maestri. Alla sua morte, il discepolo Bhogajī, per primo li ordinò nel Granthāvalī (Raccolta delle opere), con l’aiuto di molti adepti, che terminarono la raccolta nel 1570.

Le Canzoni celebrano l’amore infinito e universale e rivelano l’atteggiamento della persona che si scopre vera e nuda di fronte al divino, ma non solo. Ci sembrano soprattutto riflessioni poetiche e interiori, quasi preghiere, questi canti colmi di tenerezza, testimoni dello stupore dei sentimenti di fronte alla natura, al silenzio, ai propri errori.

A differenza di altre raccolte di scelti e saggi «consigli» di maestri ai propri allievi, i componimenti di Kabīr sono solo tappe liriche d’un percorso – quello di un Guru speciale – che ai suoi discepoli ha raccontato e proposto come via la propria evoluzione del cuore, svolta essenzialmente attraverso due canali: la contemplazione della Bellezza Infinita e la comunicazione, attraverso la musica, di quell’amore semplice rivolto a tutto ciò che vive, senza respingere mai nulla, neanche Māyā, l’illusione della vita da cui tutto è coperto, perché anche quella è energia del Signore, che si trova nel «giardino fiorito» dentro ogni creatura.

Meditando così sulla precarietà di quanto lo circonda, Kabīr ci dona pagine di vera poesia illuminata, che non ha confronto con quella del suo tempo, perché rivela senza retorica un’originale maniera, del tutto libera e fuori dagli schemi, di porsi di fronte al mondo, nella testimonianza quasi continuativa della sua ricerca di gioia, che trova compiutezza solo nell’armonia.

Come un innamorato che trema quando cammina verso o accanto al suo amore, Kabīr compie questo percorso rivelandoci la radiosità del suo sentimento e la profondità della sua passione.

Con «gli occhi della Sapienza» s’abbandona a spazi infiniti dove profumi e visioni si mescolano senza fine nel movimento del cielo, della terra, dell’aria e dell’acqua, movimento
che è la Vita, la forma del Signore stesso.

Tutto allora appare come chiamata e come dono, anche le attese, anche il desiderio e la fatica fanno parte di questo viaggio interiore, dove «i mondi si muovono come i grani di un rosario», dove non c’è separazione tra vita e morte e dove finalmente ha termine ogni inquietudine, perché l’Amore non ha principio né fine: è il Senza Forma, che «per la sua misericordia» insegna a «camminare senza piedi, a vedere senza occhi, a udire senza orecchi, a bere senza labbra e a volare senza ali».

Gorakhnāth, un grande guru del suo tempo, aveva chiesto un giorno a Kabīr: «L’amore dell’asceta quando ha avuto inizio?», la risposta semplice era stata che aveva ricercato quell’amore già dall’infanzia, avendo considerato «la solitudine dell’Altissimo». Colmare quella solitudine infinita era diventata così la sua ragione di vivere, la danza della sua gioia, il canto del suo cuore. Con le canzoni d’amore egli cercherà così d’avvicinarsi alla Vita, anche se a volte non occorrerebbero parole, ma solo aprire porte sbarrate dal «catenaccio dell’errore».

Mentre tutti gli altri maestri predicavano la solitudine e l’eremitaggio nella foresta, Kabīr canterà la realtà che si può vivere nella propria abitazione e, a differenza di tutti, arriverà ad affermare: «Resta così dove sei e ogni cosa verrà da te, quando arriverà il suo tempo».

Non è però questa la sua unica originale peculiarità, egli infatti inizierà a chiamare il Brahman Nirguṇa (Dio, oltre tutti gli aggettivi) con una serie di epiteti mai usati prima: Supremo Amico, Eterno Amante, Felicità, Senza limite, Silenzio, Vuoto, Pace…, coniando nuovi e splendidi nomi d’amore, a seconda di quale aspetto vuole descrivere, di ciò che prova e vuole testimoniare. Quello che più colpisce, a distanza di più di cinquecento anni, è l’incredibile teoria del gioco della gioia, da cui, secondo Kabīr, ha avuto inizio la Creazione:

La terra è la sua gioia, sua gioia il cielo,
lo splendore del sole e della luna.
Sua gioia è l’inizio, il mezzo, la fine.
Sua gioia vedere l’ombra, la luce.
Oceani e onde sono la sua gioia.
[…] Vita e morte, unione e separazione
sono giochi della sua gioia!
Suoi giochi sono la luce, l’acqua, l’Intero Universo,
la terra e il cielo.
La creazione s’è sviluppata da un gioco,
da gioco è stata stabilita.
Il mondo intero riposa nel suo gioco
ma il Giocatore resta sconosciuto.

Certo, c’è un chiaro riferimento ai Canti Ṛṣi, ma Kabīr in questa canzone n. 82, così simile a un salmo o al Cantico delle creature di san Francesco, arriva a essere vicinissimo anche alla nostra poesia occidentale, diventando ponte tra Oriente e Occidente.

Vale ricordare infine che le Canzoni vengono ancora cantate non solo in tutti i monasteri (maṭha) dei Kabīr panthī, ma pure dalla gente comune che li ritiene parte della propria vita, oltreché del patrimonio culturale orale dell’India antica.

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Kaun muralī śabd śun ānand bhayo

Qual è il flauto la cui musica
mi colma di felicità?
La fiamma brucia senza lampada.
Il loto fiorisce senza radici.
I fiori sbocciano nei chiostri,
l’uccello della luna è devoto alla luna
l’uccello della pioggia, con tutto sé stesso,
anela lo scrosciare dell’acqua.
Ma all’amore di chi l’Eterno Amante
consacra la sua vita?

Bhāī kōī satguru sant kahāwai

Il vero santo è chi può rivelare agli occhi umani
la forma del Senza Forma.
Il vero santo è chi insegna il cammino più semplice
da seguire per raggiungerlo, senza occuparsi
dei riti e delle cerimonie.
Il vero santo è chi non fa chiudere le porte
né trattenere il respiro, né rinunciare al mondo;
Colui che ti fa vedere lo Spirito Supremo
dovunque ci sia l’intelligenza, che t’insegna
a rimanere calmo nel mezzo d’ogni attività,
sempre immerso nella felicità, senza alcuna paura
in cuore, che sa conservare, in ogni piacere,
l’armonia della sua vita.
L’infinita presenza dell’Essere Infinito è ovunque:
in terra, in acqua, nel cielo e nell’aria.
Così, ferma contro il tuono, la seggiola di chi Lo cerca
è stabilita oltre il vuoto dello spazio.
Colui che è dentro è anche fuori.
Io vedo Lui e nessun altro.

Sukh sindh kī sair kā

La dolcezza di vagare sull’oceano
della vita immortale m’ha liberato
da ogni vano bisogno.
Come l’albero è nel seme, così tutti i mali
sono nelle vane domande.

Are man, dhīraj kāhe na dharai

Perché sei così impaziente, cuore mio?
Chi vigila sugli uccelli, sulle bestie e sugli insetti,
chi si curava di te mentre eri ancora nel seno
di tua madre, credi forse che non lo farà più,
ora che ne sei venuto fuori?
Cuore mio, come hai potuto allontanarti
dal sorriso del tuo Signore e vagare lontano da Lui?
Hai abbandonato il tuo Amore per pensare ad altro,
ecco perché la tua opera è vana.

Man na raṅgaye

L’Asceta tinge le sue vesti invece di tingere
la sua anima con i colori dell’amore.
Siede nel tempio, abbandonando Brahmā
per adorare una pietra.
Si fora le orecchie, porta una lunga barba,
i capelli spettinati, sembrando un montone…
Cammina nel deserto, uccidendo in sé stesso
il desiderio, diventando simile a un eunuco.
Si rade il capo, si tinge le vesti, legge la Gītā,
fa il potente parlatore.
Kabīr dice: «Tu che agisci come lui, vai verso le porte
della morte, con le mani e i piedi legati».

Nā jāne sāhab kaisā hai

Non so qual è il mio Dio.
Il Mullah grida rivolto a Lui. Perché?
Il Signore è forse sordo? Egli che sente perfino
il sottile rumore delle piccole zampe dell’insetto in cammino!
Sgrana il tuo rosario, dipingiti sulla fronte
il marchio del tuo Dio, porta pure lunghe trecce
sporche e vistose… se un’arma di morte
è nel tuo cuore, come possiederai Dio?

Tor hīrā hirāilwā kīcaḍ meṉ

Il gioiello s’è perso nel fango, tutti desiderano trovarlo.
Alcuni lo cercano da una parte, altri da un’altra,
certi nell’acqua, qualcuno tra le pietre.
Ma il discepolo Kabīr ha apprezzato quel tesoro
per il suo vero valore, l’ha avvolto con cura nel suo cuore,
come in un lembo di mantello.

Fonte: Lindau 2018
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