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Come funzionano davvero le classifiche dei libri

di Caterina Bonvicini

Le classifiche? Ambite o demonizzate. Autori che le controllano ossessivamente o che le ignorano sprezzanti. Editori sensibili, sempre. Ma quanto sappiamo di quel mondo? Poco, in realtà. È un universo più complesso di quel che sembra. E più sfuggente.

«Le classifiche di oggi pesano il 40 per cento in meno di cinque anni fa. Perché i best seller vendono meno e il catalogo vende di più», spiega Stefano Mauri, presidente e amministratore delegato del gruppo Gems. «È una conseguenza dello sviluppo dell’e-com che rende tutto disponibile. Siamo davanti a una mutazione genetica: il consumatore che prima sceglieva fra 5000 titoli, oggi sceglie fra un milione. Si è dimezzata la vendita nei supermercati, che facevano il 50 per cento su un best seller e adesso fanno il 25 per cento. Ma è stata compensata dalla vendita on line. I primi 10 titoli dell’anno vendono il 40 per cento in meno, i primi 100 il 30 per cento in meno, i primi 1000 il 10 per cento in meno. Però tutti gli altri vendono un pochino di più».

Tendiamo a pensare alle classifiche così come ci vengono proposte dai giornali (Robinson e La Lettura si affidano a Gfk e Tuttolibri a Nielsen). Quindi a concentrarci solo sui primi 20. Invece, gli editori si servono di uno strumento più profondo, più serio di qualunque spasmodico desiderio e di ogni demonizzazione, cioè di uno strumento asettico, professionale. Tanto che spesso rizzano le antenne studiando le posizioni medie o basse, che noi nemmeno vediamo.

«Un indicatore molto interessante è quello che succede in mezzo, non in cima», dice Carlo Carabba, responsabile editoriale della narrativa italiana Mondadori. «Se un esordiente, su cui non c’è stato strepito, vende 200 o 250 copie a settimana, mi dico: però, che bella tenuta nel tempo». E Paolo Repetti, direttore Einaudi Stile Libero, racconta: «Le classifiche sono uno strumento utile soprattutto nelle parti basse. Io vado sempre a vedere fra il tremillesimo e il cinquemillesimo posto. Quando abbiamo preso De Giovanni era pubblicato da Fandango e io trovavo due o tre libri suoi nelle parti basse, ma sempre, tutte le settimane. Facevano 50 copie al mese però lui era fisso lì. Era come se la brace fosse un po’ accesa. Aveva una potenzialità di vendita inespressa».

«Dopo il ventesimo posto sembra aprirsi un vuoto, che non aiuta a rendere conto di quello che si muove al di là della magica soglia», conferma Piergiorgio Nicolazzini, agente letterario (Pnla), «al lettore manca uno sguardo più completo e articolato, ne ricava un’impressione parziale, estremizzata, che alimenta il circolo vizioso del vende ciò che già vende e dà l’impressione che il mondo editoriale si concentri sulle punte più significative. La vera forza di una classifica invece è quella di alimentare una lettura trasversale e disincantata. Cioè scoprire linee di tendenza, potenzialità, far dialogare novità e catalogo, valorizzare autori che navigano sotto la magica soglia ma di sorprendente continuità, o altri di piccolo ma costante rendimento su cui investire». Marco Vigevani, agente letterario (The Italian Literary Agency), fa l’esempio di una sua autrice: «Un libro può vendere molto nel tempo e non entrare mai in classifica. Mariapia Veladiano, con “Lei” ha venduto 20.000 copie senza mai comparire. Se la classifica è molto alta, intorno a 900 o 1000 copie a settimana, certi romanzi non appaiono».
Perché troviamo sempre gli stessi nomi nelle top? Perché i librai tendono a ordinare lo stesso numero di copie vendute del libro precedente. Quindi gli autori da classifica continueranno a tornarci, raramente capita il contrario. Nessun editore cerca più di inondare il mercato. È una strategia vecchia, che oggi porta solo alla rovina. Adesso si fanno solo tirature vicine alle prenotazioni. Di solito meccaniche, ripetitive.

«La cosa veramente complicata, specie nel mercato di oggi che è abbastanza conservativo, è immettere nuovi autori nelle classifiche», dice Carabba. «Quindi bisogna pensare in un altro modo. Io non credo in un’editoria del tutto e subito, del numerone, in cui conta il venduto dei primi due mesi, se no remi in barca. È un modello che non si può più sostenere. Bisogna tornare a un modello di maggior valorizzazione del medio e lungo periodo. Non parlo di mesi, ma di anni. Siamo in una fase storica in cui i venduti sono molto calati. E non tutti i libri devono essere giudicati solo dal risultato commerciale. Su alcuni c’è un obiettivo soprattutto commerciale e, se non si raggiunge, il risultato è insoddisfacente. Su altri invece ci si concentra di più sulla comunicazione, sulla valorizzazione dell’autore. Se poi non si raggiungono abbastanza lettori, pazienza. Imposti le basi per farlo con il romanzo successivo. Io credo all’idea di percorso. Se uno segue un autore, deve farlo con un’idea prospettica». Lo stesso pensa Nicolazzini: «Le classifiche sono una risorsa a disposizione dei professionisti dell’editoria per rafforzare una visione, soprattutto a medio e lungo termine, senza la quale non si può interpretare né gestire quell’inestricabile rapporto fra qualità e quantità che è insito nel mercato e nella natura stessa dei libri e di chi li scrive».

Come si fa a mandare un libro nella top ten? «Ahahah», risponde Mauri. E Repetti rilancia con una battuta: «Quando chiesero a Somerset Maugham le leggi per scrivere un best seller, rispose: Ci sono tre regole fondamentali. Peccato che io non sappia quali sono». Antonio Franchini, direttore editoriale Giunti Bompiani, parla di «una preghiera laica dell’editore. Se avessimo la formula…». Beatrice Masini, direttore di divisione Bompiani, ricorda i casi di Kent Haruf o di Annie Ernaux, il miracolo di un piccolo editore indipendente come NN: «Chiamando a raccolta i lettori forti si riesce a scansare un meccanismo che per sua natura sembra dominato dai grandi gruppi. È molto bello il rovesciamento». Quindi smettiamola di mitizzare il potere degli editori. Se fosse in vendita una formula matematica (o magica), sicuramente la pagherebbero più di qualsiasi loro autore. Invece tutti si trovano di fronte a una realtà complicata, per certi aspetti troppo conservativa e per altri in continuo mutamento. Ma se nessuno ha la formula per fare entrare un libro nella top ten e le classifiche sono uno strumento più sottile di quel che si pensa, naturalmente esistono delle strategie ben precise per lanciare un libro.

La pubblicità sui giornali, a detta di tutti, ormai conta poco. Le cifre? Si va da 4.000 euro per una pagina su un supplemento di cultura agli 8.000 per un’uscita in prima di un quotidiano nazionale. Ben più di quanto ricevono tanti autori per un romanzo, magari costato anni di fatica. E se un libro viene pagato caro, cioè più di 50.000 euro, la preoccupazione diventa recuperare l’anticipo (per un anticipo di 50.000 euro serve vendere 30.000 copie, per esempio).

Dunque perché investire tanto per un paginone sui giornali? Per fare piacere agli autori, ti rispondono. Funziona come segnale al mondo culturale e ai librai (questo autore per noi è importante: vi invitiamo al nostro matrimonio R.S.V.P.). Sembra che sia più utile per i libri letterari che non per quelli commerciali, perché il pubblico che legge i supplementi culturali è medio-alto, e il resto così non si raggiunge. «In certi casi è meglio tappezzare gli autobus o gli spazi metropolitani con una pubblicità davvero massiccia», dice Vigevani. «Servono idee nuove», aggiunge Mauri. «Quando Mondadori ha fatto la prima pubblicità in tivù, ha funzionato. Non si usava. Ma quando hanno ripetuto l’idea, non hanno avuto gli stessi risultati».

E poi, siamo nell’era dei social. Dice Repetti: «Siamo nel regno del politeismo assoluto, non c’è più un solo dio che governa il mercato. Come le firme autorevoli sui giornali di una volta. In America hanno spostato l’investimento pubblicitario al 70 per cento sull’on line e al 30 per cento sul cartaceo. In Italia questa cosa non c’è ancora. Al massimo si può sponsorizzare un post di un autore già molto seguito, come Michela Murgia, ma costa molto».

Nel caso dei romanzi di genere, dicono, aiuta coinvolgere i blogger del settore. Ci sono poi dei piccoli accorgimenti che possono fare la differenza. «Può contare anche il giorno di uscita», spiega Vigevani. «Perché la classifica per gli editori esce di giovedì, anche se viene pubblicata la domenica. Se fai uscire un libro di mercoledì, hai un solo giorno di rilevamento. Se lo fai uscire di venerdì, per la settimana dopo, hai un vantaggio».

Un lettore innocente e sprovveduto può affidarsi alle vetrine delle librerie di catena. Non sa che quegli spazi vengono comprati. Come quelli all’ingresso o alle casse. Si pagano anche gli espositori. Ogni posizione ha un prezzo, e anche molto alto. Si chiama attività di marketing punto vendita. Può costare fra i 7.000 e i 15.000 euro, un investimento oneroso, che però ha un suo ritorno, più efficace della pubblicità. Ma si può fare solo all’inizio, per una quindicina di giorni, mica si possono spendere cifre così per tutto l’anno. Uno può pensare che se pubblichi da Feltrinelli è facile riempire le Feltrinelli con la tua copertina. Come le Mondadori con un libro Mondadori. Invece no. È più complicato. Feltrinelli editori è una società diversa da Feltrinelli librerie. Le Mondadori sono in franchising. Più in generale, le grandi catene guadagnano grazie alla concorrenza, gli altri editori sono clienti importanti. Quindi un po’ di riguardo per il proprio gruppo c’è, ma non troppo: bisogna mantenere il giusto equilibrio, per fare tornare i conti.

In poche parole: affittare spazi serve eccome per fare entrare chi si vuole in classifica. È ovvio che un lettore compri più facilmente un libro che vede piuttosto che uno subito messo a scaffale. Ma questa spesa si può sostenere solo per pochi autori, dal potenziale commerciale alto. Quelli che hanno sempre venduto poco, che hanno dei «pregressi» come si dice (la fedina pedale di uno scrittore, quasi sempre sporca), di solito ricevono un anticipo più basso dell’affitto di uno spazio in libreria, e i conti sono presto fatti. Esistono però dei modi per alzare le prenotazioni, se un editore ti sostiene.

Un autore che vende poco non è necessariamente spacciato. «Il libraio tende a pensare che un libro replicherà il risultato commerciale del precedente e a prenotare lo stesso numero di copie», spiega Carabba. «Ovviamente si può ricredere. Per questo si fanno le “copie librai”». Si può mandare una staffetta del libro, cioè le bozze non corrette, il primo capitolo, un folder promozionale. «L’importante è creare un rapporto di fiducia. Il risultato commerciale non deve diventare un’ossessione. E bisogna superare l’idea che qualità e quantità siano contrapposte». «In ognuno di noi c’è un lettore letterario, una donna, un pensionato, un appassionato di romanzi storici, una casalinga», dice Franchini, «in ognuno di noi ci sono lettori diversi in grado di entusiasmarsi per libri che si comportano in modo diverso». L’imprevedibilità appartiene soprattutto al long seller, e Repetti cita il caso Agassi: «Siamo partiti con una prima tiratura di 11.000 copie, ne abbiamo vendute 700.000. Naturalmente non era programmato».

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