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Elogio della città? (Giovanni M. Flick, Paoline, 2019)

di Giovanni M. Flick
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15 aprile 2019: a Parigi brucia Notre-Dame. Poche ore e visibilità si fa solidarietà concreta e tangibile. Qualche giorno dopo un altro incendio: in un campo profughi viene ritrovato il corpo di un lavoratore migrante clandestino. Nessuna notizia, nessuna solidarietà. È in questo contrasto, di cui l’Autore ha sentito tutta la drammaticità, che va cercata la genesi di questo testo. Tutela del patrimonio storico e tutela «dei diritti inviolabili dell’uomo lì dove svolge la sua personalità» – la città appunto – non possono contrapporsi. Devono integrarsi.
La città può essere il luogo in cui scrivere il futuro delle generazioni. Le sue architetture, le sue periferie o centri storici, i suoi sviluppi possono segnare efficaci e concrete vie per costruire una società capace di vivere ed educare ai nostri valori costituzionali.

 

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La città: un bene comune

L’architettura rappresenta da sempre una sfida: quella del desiderio che diventa realtà, del sogno che si trasforma in qualcosa di fruibile da tutti. L’architettura è, allo stesso tempo, un’arte di frontiera, contaminata da numerose e diverse discipline e, dunque, specchio attendibile di una società. Le nuove domande imposte dalla società contemporanea richiedono un diverso modo di progettare e costruire gli edifici in cui viviamo, ponendo sempre maggiore attenzione alle questioni energetiche, ambientali e sociali. Una vera e propria rivoluzione culturale che sta producendo profondi riflessi sui canoni che hanno fin qui guidato il «fare architettura».
L’elaborazione del progetto è oggi sempre più, essa stessa, strumento di indagine, stimolo all’innovazione, ricerca di soluzioni tecnologicamente avanzate e proposta per l’industria, nella profonda convinzione che in un mondo sempre più iperconnesso sia proprio l’architettura a creare e favorire i migliori link tra uomo e tecnologia.

Sono le parole di una studentessa di Architettura in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico1. In tem-pi difficili di perplessità sul futuro della città e dell’architet-tura, esprimono con efficacia uno stimolo all’ottimismo e alla speranza, soprattutto nei giovani.

Quelle parole trovano una risposta concreta nelle prio-rità delineate dal Presidente del Consiglio Nazionale degli Architetti in occasione della Festa dell’Architettura del 2018. Essa,

nella sfida di una nuova ineludibile fase urbana, richiede:
-il disegno della città del futuro prossimo, ponendo le persone al centro del progetto;
-la centralità del progetto della città che diventa verde, sostenibile, dove l’aria pulita nei luoghi di massima densità di popola-zione funzioni e non sia più un’utopia;
-la città, volano economico e dell’integrazione sociale, dove architettura e ambiente diventino perni di un’azione con obiettivi convergenti.

La profonda crisi culturale del nostro Paese richiede fra l’altro uno sforzo e un ruolo di mediazione dell’architettura per affrontare il tema della qualità degli edifici, de-gli spazi collettivi urbani ed extraurbani, non soltanto in un contesto e in una logica di emergenza, ma attraverso il coinvolgimento dell’intera collettività, di «tutti coloro che a diverso titolo sono destinatari dello spazio di vita» (A. Ferrari).

Occorre affrontare quel tema nei termini di un «sistema complesso», fondato sui princìpi fondamentali del nostro «manuale di convivenza» (se non addirittura di sopravvivenza): la Costituzione, soprattutto – ma non solo – nei suoi riferimenti agli articoli 9 (la tutela del paesaggio e il diritto alla bellezza e all’ambiente), 32 (il diritto di ciascuno e l’interesse di tutti alla salute e alla salubrità del-l’ambiente di vita e di lavoro), 41 (la libertà di iniziativa economica senza pregiudizio della dignità, della sicurezza e dell’utilità sociale).

Da ciò le constatazioni conclusive della Biennale di Architettura del 2018, per cercare di superare la frattura che si è creata e che continua a crescere fra l’architettura e la società civile, secondo le quali

l’architettura ci consente di produrre beni pubblici e quindi ricchezza aggiuntiva nella qualità dei volumi e degli spazi realizza-ti… Senza architettura siamo tutti più poveri.
Guardando al nostro territorio e all’ultimo mezzo secolo, troppo spesso l’architettura, intesa in senso lato, ci pare assente, esiliata.
Non solo nelle costrette e immense misere conurbazioni del-le nuove megalopoli, ma anche nei Paesi come il nostro, il cittadino, preso dalla cura della propria sicurezza e del proprio elementare benessere individuale, sembra ignorare il benessere che può derivare dal vivere in uno spazio pensato, e cioè del benessere inteso secondo una dimensione umana più compiuta.

Le innovazioni che si prospettano per lo sviluppo e per la svolta dell’architettura sono strettamente connesse e interdipendenti con quelle – altrettanto significative e più dirompenti – rappresentate dalla categoria giuridica dei beni comuni (S. Rodotà). Questi ultimi aprono la via a una maggior estensione dell’ambito del «comune» – sottratto sia allo Stato sia alla proprietà privata – nella logica di una «autentica democrazia partecipativa… Meno Stato, meno proprietà privata, più comune…», per recuperare consenso in e da una società ecologicamente sosteni-bile (U. Mattei).

Il ricorso alla categoria del bene comune – per fondare il governo politico, giuridico, ecologico di realtà come l’acqua, il territorio, il patrimonio culturale, l’informazione – rappresenta certamente un ostacolo e una «inversione di rotta» rispetto alla tendenza dominante verso le privatizzazioni. Non significa però necessariamente e inevitabilmente il ritorno a una tendenza al pubblico, burocratico e autoritario. Al contrario, si tratta di progettare e attuare un modello di «governo partecipato dei beni comuni», per renderli effettivamente accessibili e fruibili da parte della collettività.

Rientrano nella categoria dei beni comuni quelli che non per loro natura, ma per le loro caratteristiche fanno emergere l’attitudine a soddisfare esigenze collettive e a rendere possibile l’attuazione di diritti fondamentali. Perciò non possono che essere beni a titolarità diffusa, appartengono cioè «a tutti e a nessuno», nonostante l’apparente ossimoro, da interpretare in un’accezione non dispregiativa ma positiva: res communes omnium, non res derelictae o nullius.

Sono beni che devono essere gestiti e governati nell’interesse di tutti,
quindi anche (forse soprattutto) delle generazioni future. Ciò vale in
particolare di fronte al rischio di uno sfruttamento dissennato delle risorse, a
quello di una compromissione irreparabile dell’ambien-te, al rischio di
precludersi la possibilità di uno sviluppo sostenibile per noi e per chi ci seguirà
(papa Francesco4; S. Rodotà).

Sono beni che – come ci ricordano il dibattito sull’acqua, uno dei più importanti beni comuni, e il referendum del 2011 contro la privatizzazione del sistema idrico – van-no considerati nel quadro delle teorie sulla giustizia sociale e del suo duplice principio di equità: il principio di libertà e quello dell’uguaglianza delle opportunità nell’accesso ai beni sociali primari (così S. Veca), nel contesto della «triangolazione» tra beni pubblici, privati e comuni, nel rapporto fra beni comuni e diritti fondamentali.

Nessuno può vantare un potere o pretese di esclusività sui beni comuni. Costituiscono un «patrimonio dell’umanità», con una definizione particolarmente incisiva nella sua sinteticità. Perciò essi si sottraggono alla logica dell’uso esclusivo di pochi, in nome della condivisione di molti e in applicazione del fondamentale principio costituzionale di solidarietà che lega fra di loro l’eguaglianza di tutti con la diversità (non la discriminazione) di ciascuno, nella prospettiva di pari dignità sociale cui tende la Costituzione.

Sembra essere questa la prospettiva più logica e coerente per attuare i princìpi fondamentali degli articoli 2 e 3 della Costituzione. La sinergia tra «i diritti inviolabili dell’uomo come singolo e nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» e i «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»; la rimozione degli«ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». L’articolo 3 è stato giusta-mente definito la stella polare (così S. Veca) per l’agenda pubblica della sinistra – ma non solo di essa! – nell’interpretazione dell’uguaglianza delle opportunità e soprattutto dell’uguaglianza democratica.

In questa prospettiva, la proprietà pubblica deve superare gli schemi tradizionali del demanio e del patrimonio disponibile/indisponibile, a favore di una classificazione dei beni pubblici che muova dalle funzioni dello Stato e garantisca la migliore utilizzazione di quei beni per assolvere a tali funzioni. La proprietà privata a sua volta deve esprimersi nella società ed essere valorizzata nelle sue componenti «pubbliche» e «comuni», in coerenza alla scopo reso esplicito nell’articolo 42 della Costituzione: la sua funzione sociale e la sua accessibilità a tutti (F. Gallo).

La prerogativa dei beni comuni a soddisfare i bisogni della persona si traduce nell’importanza della disponibilità per tutti di uno spazio comune, nella possibilità – riconosciuta a una pluralità indeterminata di soggetti – di godere di quei beni, nella loro accessibilità non subordinata alla disponibilità di risorse finanziarie da parte dell’utente, nella sottrazione del patrimonio dell’umanità a logiche di esclusione, di rivendicazioni e di sovranità nazionali esclusive, nella gestione comune e partecipata di quel patrimonio.

Occorre tuttavia prendere atto che l’ampliamento, l’evoluzione e la diffusione della categoria dei beni comuni aprono la via a una serie di alternative unilaterali e strumentali rispetto all’intuizione originaria di contrastare, loro tramite, gli eccessi delle politiche di tipo liberista, riconducibili essenzialmente e soltanto a logiche di mercato e di profitto.

Si tratta delle alternative che strumentalizzano beni e spazi comuni per la svendita di essi, o che enfatizzano i ri-schi di burocratizzazione e i vincoli derivanti dall’istituzione della categoria di quei beni. Ovvero di alternative che temono un asservimento di tale categoria a finalità e strumentalizzazioni politiche di corto respiro; o infine che temono uno stravolgimento dei princìpi e criteri direttivi per la definizione e la regolamentazione dei beni comuni (G. Azzariti).

Occorre reagire a queste deviazioni e preoccupazioni non con lo scontro, ma con il dialogo sui beni comuni. Pas-sare dal confronto fra «minimalisti» (acqua, foreste e poco più) e «massimalisti» (diritti civili e sociali, beni urbani e culturali, beni materiali e proprietari eccetera) sull’estensione della categoria a quello sulla tensione tra Stato-comunità e Stato-persona; e al confronto sulla partecipazione popolare e sugli strumenti giuridici per favorirla nelle scelte in questo ambito.

Il fondamento costituzionale e l’unità nella definizione e disciplina dei beni comuni rischiano di disperdersi e frammentarsi a poca distanza dalla scoperta di essi. È essenziale ritrovarli entrambi anche sotto un altro profilo: la riscoperta dei corpi intermedi che legano la società alle istituzioni e alla politica, secondo le indicazioni dell’articolo 2 della Costituzione sulla democraticità delle «formazioni sociali ove si svolge la personalità» del singolo.

La città, in quanto formazione sociale fra le più significative, rientra certamente nell’ambito dei beni comuni alla stregua della sua realtà e complessità, alla luce del suo sviluppo quantitativo, qualitativo, sociale, culturale, economico e tecnologico, alla luce delle sue degenerazioni attuali e ancor più prevedibili nel prossimo futuro.

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