Rebecca libri

I miei maestri

di Richard Yates

Sono stati i film degli anni Trenta più d’ogni altra cosa a influenzarmi come scrittore. Da ragazzo non leggevo molti libri, mi costava fatica e cercavo di evitarlo quando possibile. Ma non ero neppure un sempliciotto, e così il cinema soddisfaceva due mie necessità: mi dava una straordinaria quantità di materiale a basso costo da cui ricavare storie, e un buon posto in cui nascondermi. 
A 14 anni, cominciai a sottoporre ai miei insegnanti di inglese storie ispirate al cinema, per dimostrare che fossi capace di fare qualcosa, ma solo tre o quattro anni dopo la lettura di romanzi e di poesie iniziò a ricacciare i film in qualche oscuro e indefinito angolo della mia mente, per farceli poi rimanere. Ancora oggi non vado quasi mai al cinema, e sono noto per sostenere che è perché i film sono una cosa per bambini.

A 20 anni, fresco di servizio militare e rimpinzato dei libri di Thomas Wolfe, cominciai a divorare quelli di Ernest Hemingway, tanto che mi sforzavo in maniera quasi imbarazzante a parlare e comportarmi come i primi personaggi di Hemingway. Nello stesso tempo, fui catturato da T.S. Eliot, che mi appesantì di un insopportabile carico di manierismi.
 Ma Il Grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald si rivelò il romanzo più ricco che avessi mai letto, quasi come la mia scoperta di John Keats, qualche anno prima, aveva fatto sembrare gli altri poeti inglesi inconsistenti.
 Come alcune poesie di Keats, il romanzo di Fitzgerald è un’opera breve che acquista velocità man mano che cresce, sino a che il finale ci illumina magnificamente sul mondo. E la cosa più bella per un aspirante scrittore è che il romanzo non è solo un miracolo di talento ma anche un trionfo della tecnica narrativa, che fa sperare di riuscire a capirne l’architettura. 
Se ne possono scoprire le basi quasi immediatamente: ogni riga di dialogo in Gatsby rivela su chi parla più di quanto il personaggio stesso volesse rivelare.

L’autore non permette mai che il dialogo sia semplicemente realistico, con personaggi che si scambiano scialbe frasi piene di informazioni, ma fa più volte in modo di fissare tutti i propri personaggi, sia pure in maniera impercettibile, nell’esatto gesto di rivelarsi. 
Un distillato puro di questa sua abilità lo si trova nelle chiacchiere della terribile festicciola nell’appartamento di Myrtle Wilson – durante la quale, attraverso le parole di Nick Carraway, viene pronunciata quella che considero la più eloquente descrizione dello stato d’animo di ogni narratore.
”Eppure alta sulla città, la fila delle nostre finestre gialle deve aver comunicato la sua parte di segreto umano allo spettatore casuale nella strada buia, e mi parve di vederlo guardare in su incuriosito. Ero dentro e fuori contemporaneamente affascinato e respinto dall’inesauribile varietà della vita.”

Non ero mai arrivato a capire cosa Eliot intendesse con l’astrusa formula di “correlativo oggettivo” fino a quando non ho letto la scena del Grande Gatsby in cui Meyer Wolfshiem, personaggio comicamente minaccioso, appena compare nella storia sfoggia i propri gemelli e spiega che sono “i più begli esemplari di molari umani”.
 Capito? Questo intendeva Eliot.
 Oppure la pila di camicie su misura su cui Daisy Buchanan piange “a dirotto” durante la sua prima visita alla casa di Jay Gatsby (“Che belle camicie. Mi fanno piangere perché non ho mai visto delle camicie così… così belle prima d’ora”).
 O ancora le semplici annotazioni che un Gatsby adolescente aveva segnato sotto “Orario” e “Decisioni Generali”, e che suo padre legge attentamente ad alta voce a Nick, come se fosse il ragazzo a doverle utilizzare dopo la morte di Gatsby.

Il Grande Gatsby, insieme a gran parte dei libri di Fiztgerald, ha rappresentato la mia ufficiale iniziazione al mestiere di scrittore.
 Nel 1951, quando avevo 25 anni, l’esercito mi assegnò una pensione di invalidità per una lieve tubercolosi, e così per i successivi due anni e mezzo ho vissuto in Europa scrivendo racconti a tempo pieno e cercando di rendere sempre l’ultimo migliore del precedente. 
Ho imparato molto. Potermi dedicare completamente alla scrittura è stato molto istruttivo, e ho anche capito quanto ricca possa rivelarsi la lingua americana quando si è costretti a ripescare dalla memoria gran parte dei suoi vocaboli.
 Tre di quei racconti sono stati acquistati da alcune riviste prima che facessi ritorno a casa, e ne ho venduti altri cinque negli anni immediatamente seguenti. Ma all’improvviso mi ritrovai a 29 anni a guadagnarmi da vivere come redattore di comunicati commerciali – un’attività che sconsiglio a chiunque – e divenne sempre più chiaro che avrei fatto meglio a scrivere subito un romanzo.

Fu allora che Madame Bovary si impose. Lo avevo già letto prima, ma non l’avevo studiato come avevo fatto con Gatsby e gli altri libri; ora sembrava idealmente adatto a farmi da guida per il romanzo che stava prendendo forma nella mia testa. Volevo quel tipo di equilibrio e suggestione a ogni pagina, quel tipo di inquieto presagio combinato alla leggerezza, quel tipo di destino inesorabile piantato nel cuore di una sola, romantica ragazza. E tutto questo, ovviamente, da rendere con la stessa vividezza e grazia di Fitzgerald.

Come molti altri lettori, ho sempre considerato che le prime 70 pagine di Madame Bovary non erano belle come avrebbero potuto essere, ma dal momento in cui Charles ed Emma sono invitati a un ballo di società, tutto comincia a scorrere. 
E parliamo dei “correlativi oggettivi”!
 – quando Charles trova una scatolina da sigari di seta verde nella polvere di una strada da poco percorsa da due uomini a cavallo, e quando Emma più tardi la nasconde al marito per utilizzarla come sua propria fonte di languide fantasticherie. 
- quando Rodolphe fa recapitare la sua lettera d’addio a Emma sul fondo di un cesto di albicocche, e quando Charles inconsapevolmente conduce Emma sull’orlo di una crisi di nervi mettendole una di quelle albicocche sotto al naso dicendo “Senti che profumo!”
- quando il giovane apprendista della farmacia Justin, il quale è disperatamente innamorato di Emma, è duramente ripreso dal suo superiore, alla presenza di lei, perché ha con sé un manuale illustrato sulla vita matrimoniale e perché aveva armeggiato con il barattolo dell’arsenico. Accidenti!

Un’altra cosa che mi è sempre piaciuta sia di Gatsby che di Bovary è che in nessuno dei due romanzi ci sono personaggi cattivi. La forza del male, che pure si percepisce in questi libri, non è mai personificata – nessuno dei due scrittori intende cavarsela così facilmente.
 Tom e Daisy Buchanan avrebbero potuto essere accusati della morte di Jay Gatsby, ma Fitzgerald ci impedisce di vederla in questo modo facendo dire a Nick, nelle sue battute conclusive, che loro erano semplicemente “gente sbadata”. Charles Bovary avrebbe tutte le ragioni per considerare Rodolphe responsabile del suicidio finale di Emma, ma quando più tardi lo incontra accidentalmente gli dice: “Non te ne do colpa. La colpa è del destino.”

Ecco alcuni scrittori senza i quali non sarei riuscito a mettere insieme in maniera decente nemmeno mezzo libro: Dickens, Dostoevskij, Čekhov, Conrad, E.M. Forster, Katherine Mansfield, Sinclair Lewis, Ring Lardner, Dylan Thomas, J.D. Salinger, James Joyce.
 Sarebbe facile estendere questa lista al doppio della sua lunghezza portandola fino a oggi, ma ho imparato a diffidare di quelle liste che sembrano la lista dei membri di un club privato, o l’asfittico risultato finale di un qualche gara di popolarità. 
Il tempo è tutto. Ora ho 55 anni, e il mio primo nipote nascerà a giugno. Sono passati molti anni da quando ero un ragazzo, per non parlare di quando ero un aspirante scrittore. Ma lo spirito entusiasta, timoroso, e baldanzoso degli inizi è lento a morire.
 Ho appena cominciato a lavorare al mio ottavo libro – e con un profondo rammarico per il tempo inutilmente sprecato non fosse per il quale ora sarei a quota dieci o dodici – mi pare di non essere nemmeno agli inizi. E credo che questo stato d’animo durerà, nel bene e nel male, fino alla fine.

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