Rebecca libri

Jean Rhys, l’autrice venuta dal silenzio

di Franco Cordelli

Se si guarda la carta geografica del Centro America, in alto a destra del Venezuela c’è una specie di arco formato da una miriade di isole, che a volte sono delle Indie Occidentali e a volte Piccole Antille. Quella più in basso, cioè più vicina al Venezuela, è Trinidad, dove è nato Naipaul; poco sopra, oltre Barbados e Grenada, c’è Santa Lucia, dove nacque Derek Walcott (la prossimità tra i due Nobel dette luogo prima all’ammirazione poi alla rivalità); poco sopra troviamo la Martinica e ancora più su Dominica, dove nacque la creola bianca Jean Rhys; mentre in Guadalupe era nato Saint-John Perse, nell’isola più alta, Antigua, a Saint John’s, è nata Jamaica Kincaid.

Ho nominato due scrittrici, Rhys e Kincaid di cui quasi negli stessi giorni Adelphi ha pubblicato, della prima Io una vota abitavo qui, un’antologia di racconti tratti da tre raccolte: la prima del 1927 (debutto della scrittrice), la terza del 1976, dieci anni dopo il successo de Il grande mare dei sargassi e tre prima della morte, avvenuta quando lei aveva quasi novant’anni. Di Jamaica Kincaid invece il primo romanzo (in realtà un racconto lungo, come tutti gli altri libri suoi), Annie John del 1985, che in Italia era già apparso nel 1987 con il titolo Anna delle Antille. Avrei voluto confrontare queste due opere, quella di Rhys e quella di Kincaid: tra le due scrittrici ovviamente non vi fu rivalità alcuna e forse nessun accostamento possibile: Kincaid, quando Rhys morì, aveva ventisei anni e non aveva pubblicato nessun libro. Ma alla lunga i racconti delle due si sono rivelati, alla rilettura o alla semplice lettura, troppo diversi, o troppo complessi, per un confronto in questa sede. Sulla Kincaid, in realtà, tornerò la prossima settimana.

In quanto a Jean Rhys Io una volta abitavo qui consente di mettere a fuoco un po’ meglio il significato di un’ oeuvre – nel senso che questo vocabolo aveva per George Steiner: esso «indica più del semplice elenco delle opere di uno scrittore. Implica una logica di rivelazione, di disegno che si rivela gradualmente. In un’ oeuvre, genres differenti – narrativa, poesia, saggi critici – assumono un’unità personale. Il risultato ragiona come un tutto, la sua somma è più grande e coerente di ciascuna delle sue parti». Forse il senso di un’ oeuvre compiuta lo aveva già dato la pubblicazione de Il grande mare dei sargassi : esso metteva in prospettiva i quattro romanzi precedenti, Quartetto del 1928, Dopo l’addio del 1930, Viaggio nel buio del 1934, e Buongiorno, mezzanotte del 1939. Dopo il quarto romanzo Rhys tacque per quasi trent’anni, anzi scomparve dalla scena, non lasciò traccia di sé fino a quando qualcuno non scoprì, per così dire, che viveva solitaria in Inghilterra, nel Devonshire. A leggere i suoi romanzi, oggi come ieri, che fosse scomparsa e vivesse solitaria non stupisce (né stupì) più che tanto. Aveva avuto protettori (Ford Madox Ford), amanti e mariti, ma tutti l’avevano lasciata o li aveva lasciati lei.
È quanto vediamo accadere in ogni romanzo. In essi, in prima o in terza persona, il senso di desolazione prevale, anzi domina: mai tante lacrime sono state piante come da lei o da chi (quale personaggio) per lei. Se la chiamassimo malinconia, nel senso dello sviluppo che essa ebbe secondo la storia che ne fa Jean Starobinski, ci dovremmo chiedere: fu una malattia endogena o una depressione reattiva? Ma a questa domanda si arriva in realtà dopo Il grande mare dei sargassi : è qui che Rhys mette in chiaro, rende anzi indiscutibile, quanto il mondo in cui visse la sua infanzia, proprio quello di Dominica, con una madre creola e un padre inglese, sia stato tra i meno concilianti che si possano immaginare. Fuggì, o fu costretta a fuggire, in Inghilterra. Visse, più derelitta che nomade, tra Londra e Parigi. I quattro romanzi degli anni Trenta ne sono una testimonianza lacerante: il dolore, il senso di perdizione, lo svuotamento progressivo di un’anima tuttavia intrepida rivelano una scrittrice di potenza rara, credo alla fin dei conti sottovalutata. L’alcolismo di Rhys e come esso divenne letteratura ne fanno una scrittrice pari alle grandi del suo tempo e non inferiore a un altro alcolista di rango, Malcolm Lowry.

Questi quattro romanzi degli anni Trenta sono tutti uguali – la ripetitività e le minime variazioni che consentono di proseguire il discorso, insomma la durata, ne stabiliscono la statura. Ma il paradosso, che forse dovremmo chiamare contraddizione (come contraddittoria fu la sua origine) è tutto nel fatto che il precipitare di ciascuno verso la fine avviene sempre nello stesso modo, opposto all’idea di durata. Potremmo piuttosto parlare di consumo, di fissazione dell’istate – un istante e via, un istante e pausa, ogni frase è breve, è breve ogni paragrafo, tutti i capitoli sono scanditi dal medesimo ritmo musicale: con una chiusura fulminea – come se non si avesse voglia di andare avanti, come fosse troppo faticoso, come se qualunque racconto in sé compiuto non avesse senso, o meglio non ne avesse la sua pretesa. Viene in mente il «lasciarsi cadere» di Freud, con le varianti della malinconia suicida. Si vorrebbe un aiuto, che qualcuno ci trattenesse, ci desse una mano per non precipitare – ma dobbiamo riuscire a non cadere da soli o dobbiamo davvero chiudere lì.

Domina sulla malinconia endogena, dobbiamo dire per fortuna di noi lettori (e forse sua), la depressione reattiva. Rhys sempre reagisce e ricomincia. Ricominciò perfino trent’anni dopo aver smesso. E a questo punto interviene a chiarire le cose quel grande libro che è Critica della ragione postcoloniale di G. C. Spivak. Lo scrittore bengalese di nascita e docente alla Columbia University di New York scrive: «Nella figura di Antoinette, che ne Il grande mare dei sargassi il marito rinomina Bertha, Rhys suggerisce che una cosa così intima come l’identità umana possa essere determinata dalla politica dell’imperialismo. Antoinette, bambina creola bianca dell’emancipazione in Giamaica, si trova tra gli imperialisti inglesi e i nativi neri. Nel raccontare lo sviluppo di Antoinette, Rhys riscrive alcune tematiche del Narciso (…). Una sequenza progressiva di sogni rinforza l’immaginario dello specchio. Nella sua seconda manifestazione il sogno è parzialmente ambientato in un hortus conclusus, un “giardino chiuso” – un romance che riscrive il topos del Narciso come luogo dell’incontro con Amore. Nel giardino chiuso Antoinette non incontra Amore, bensì una strana voce minacciosa che dice semplicemente “qui dentro”, invitandola in una prigione camuffata da legalizzazione dell’amore». Ecco, il crimine originario è questo, è tutt’altro che endogeno. A sorvegliare ogni accadimento c’è la legge – quella in specie che separa i bianchi dai neri, i padroni dagli schiavi, fossero pure ex schiavi.

I due racconti più belli di Io una volta abitavo qui per me appartengono alla raccolta del 1976. In Kikimora siamo a Londra, nell’imminenza della guerra. Un incontro d’amore che è sul nascere si rivela impossibile perché se uno dei due, ricco e bello, uomo o donna, non «è viziato non ha fascino» – e se non ha fascino è meglio prendere in braccio Kikimora, il gatto, che viziato lo è di sicuro. (Alla fine del racconto la protagonista fa a pezzi il tailleur con le forbici, era l’abito che aveva indossato per avere fascino. Peraltro qualcosa di analogo, sebbene in senso opposto, accade in Non si spara agli uccelli sui ra mi, nel quale la protagonista amaramente conclude osservando che la biancheria nuova comprata per l’incontro con un uomo non era servita proprio a niente).

L’altro racconto cui accennavo è Chi lo sa cosa succede in soffitta? È un racconto «bianco» per la sua forza ellittica. C’è una vecchia signora che riceve l’inaspettata visita di Jan, un olandese che aveva incontrato una sola volta. Perché è venuto? Non lo saprà mai. Nulla tra i due doveva accadere e nulla accade. Dopo che Jan è andato via (da Exeter, dove Rhys viveva e morì), la signora riceve un’altra visita, questa consueta, di un commesso viaggiatore, Mr Singh. Lei gli compra due cose, una è una camicia da notte, di nylon. «Lui non cercò di venderle altro e richiuse la valigia. Lo accompagnò alla porta. Si stava alzando il vento e cominciava a far freddo. Domani il tempo non sarà bello, pensò» (le protagoniste di Rhys pensano ininterrottamente). «“Arrivederci, signora, grazie. Pregherò per lei”. “Ci conto” disse lei. E chiuse la porta a chiave».

Ho detto che i due racconti più belli sono questi. Ma come Quartetto è probabilmente il capolavoro di Rhys e Il grande mare dei sargassi il suo libro più importante, nella prospettiva di Spivak i racconti cruciali, più significativi, di Io una vota abitavo qui sono Addio Marcus, addio Rose e Acque infide (anch’essi tratti dalla raccolta del 1976). Nel primo il capitano Cardew comincia a uscire con la dodicenne Phoebe. Le parla d’amore. Le tocca il seno. Edith, la moglie del capitano, capta che qualcosa non va. I coniugi tornano in Inghilterra. Per Phoebe è una liberazione, può tirare un sospiro di sollievo. Ma tutti i divertimenti che si era prefigurata, tutte le liste segrete per il corredo che s’era fatta, e tutti i nomi dei figli che avrebbe avuti («addio Marcus, addio Rose») – tutto si allontana sullo sfondo. Ancora più chiaro, anzi eloquente, è il secondo. Siamo a Roseau, dove Rhys è nata. Il falegname Longa viene accusato di aver toccato e di più una minore nera. C’è addirittura chi dice, al processo che gli si è intentato, di averlo udito minacciare la bambina di segarla in due come al music-hall. Ma la moglie del maggior testimone d’accusa sospetta che il marito sia complice di un’altra testimone. Sono riusciti a cacciare il falegname Longa da Roseau e a mandare la bambina a Santa Lucia. La cosa migliore è che se ne vadano anche loro. Tutti via da Roseau. Via, come, struggentemente, drammaticamente – e reattivamente – se ne andrà Jean Rhys.

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