Rebecca libri

Leggere fin dentro la parola

di Nicola Gardini

Molti credono di leggere ma spostano soltanto gli occhi da un segno stampato a un altro, seguono un filo che non conduce a nessuna opera

Mi sono sempre più convinto negli anni che leggere è un’arte, un’arte come lo scrivere una buona pagina, il dipingere un bel quadro o il suonare bene uno strumento. Molti credono di leggere ma spostano soltanto gli occhi da un segno stampato a un altro, seguono un filo che non conduce a nessuna opera. Alla fine avranno raccolto delle informazioni, che forse dimenticheranno anche molto presto, ma il loro cuore non sarà cambiato neanche un po’; l’opera – che è un’opera interiore – non è stata neppure abbozzata. Leggere non è muovere gli occhi da un segno a un altro, ma entrare nelle parole, in ogni parola, afferrarne la complessità – che va in tutte le direzioni, su, giù, dietro e davanti e intorno, e segue orbite inattese e queste confonde con le complessità vicine, tanto che ci si dovrebbe chiedere come sia possibile che si arrivi, date tante occasioni di smarrimento, a capire una frase, un’unità di senso. Ma che cosa veramente capiamo?

Ognuno è artista a suo modo. L’artista è per definizione unico, l’individuo che proclama più di altri l’unicità sua e di ogni individuo, e dunque ogni lettore prende quello che può e vuole. Una frase non è mai una. Non due vedono le stesse orbite, gli stessi intrecci, o scendono nelle stesse profondità. È come con le cartine orografiche: ognuno, messoci davanti, ferma e sposta gli occhi dove gli è congeniale, per abitudine, istinto o decisione. Nessuno sale, pur solo con lo sguardo, sul medesimo monte per la medesima strada. Il buon lettore, il lettore artista, è quello che, trascinato e intrattenuto da mille occasioni fantastiche, potrebbe non arrivare mai alla fine del libro (qui ovviamente, si parla di buoni libri, perché il lettore artista la robaccia non la tollera, non può sopportare che le lettere dell’alfabeto, le bellissime lettere, siano ridotte a pure decalcomanie). Già la prima parola gli basta per appagare completamente il suo istinto artistico: il cuore ha già cambiato ritmo, il respiro è diverso, tutto il corpo si è impostato a ricevere l’evento. L’arte di leggere non è distante dall’ispirazione poetica. Ci vuole altrettanta – se non proprio la medesima – concentrazione, ci vuole impegno a liberare la mente e i sensi dalle distrazioni perché l’ascolto avvenga perfetto. Lo scrittore ascolta la Musa, il lettore ascolta lo scrittore. In un certo senso, sono entrambi alunni della medesima voce. Lo scrittore, per il lettore artista, è un tramite, un medium. Questa è l’arte della lettura: scoprire ciò che la Musa ha rivelato e ricrearlo nuovamente nel cuore. Le parole scritte, infatti, se non c’è lettura, non agiscono. O meglio: hanno agito solo per chi, scrivendole, le ha ricevute. Ciò, di per sé, è già molto; qualcuno ha già ottenuto un po’ di felicità. Ma quella felicità può essere condivisa. Un libro è un grande tesoro, è lì per tutti, potenzialmente. Però solo pochi possono prenderne, l’oro si lascia afferrare solo dalle mani giuste. Si può imparare a leggere? Sì, certo. Si nasce con l’istinto per la lettura, ma l’istinto richiede pratica e costanza. Si impara a leggere in solitudine, come in solitudine si impara a scrivere, a dipingere o a suonare. E il modo migliore è farlo attraverso la poesia, la grande poesia, quella antica o quella dei supremi: Omero, Saffo, Virgilio, Dante, Petrarca, Keats, Leopardi, Baudelaire, Pascoli, Montale.

Leggere sempre nella lingua originale, greco, latino, italiano, inglese, francese. Non dico che le traduzioni non servano. Ma saper leggere una traduzione di poesia richiede a sua volta un’iniziazione. Ci si arriverà, certo, e ci si deve arrivare. Ma cominciamo dagli originali, impariamo a capire in primo luogo come il poeta ha reso la voce della Musa.

Scrivere è stabilire un ordine complesso – un cosmo in cui suoni, idee, simboli e grammatica non sono separabili gli uni dagli altri. Il lettore vuole entrare nella logica di quell’ordine. Superato l’ingresso, capirà che l’edificio non è fermo. L’ordine non è un’immobilità, ma un dinamismo che cerca continuamente di fissarsi in qualche figura. Ed ecco apparire un piano, che poi scompare o si moltiplica in due, tre quattro, i soffitti si alzano, nuove porte si ritagliano sulle pareti, e queste poi, riassorbito qualunque contorno, si rigirano come facce di una scatola e diventano pavimenti, e una botola ti si apre davanti e una scala ti invita a scendere, e non ti trovi in un sotterraneo ma in un cielo e il vento prima ti conforta, poi ti chiede di rientrare e sali su un albero e poi cadi in un letto o sul tetto. Quanti passi da fare, quante distanze anche dentro una sillaba!

Leggere poesia è camminare. Si può certo anche andare più in fretta, ma non si può saltare un passo, e leggi della fisica non lo consentono. Il caso vuole che in poesia certe combinazioni fisse di sillabe si chiamino appunto piedi. Ora, non c’è piede, dunque passo, che non sia un arricchimento di senso. Si procede nell’abbondanza di significati, si pestano grovigli di metafore, procedendo per tutti i tipi di terreno – dal deserto all’acquitrino più limaccioso. E si scivola sul ghiaccio, si affonda nella neve. Ci si bagna, impolvera, inzacchera di mota, ci si riempie le scarpe di sassolini, e se si va a piedi nudi il morbido si avvicenda al duro, il fresco al rovente… A volte ci si taglia. Ma la ferita non brucia poi troppo. Nessuno muore, leggendo. Anzi, vive di più, acquista vita, perché tutto quel camminare è tempo, tempo guadagnato. Uno, leggendo, cammina sempre con un orologio che funziona in modo opposto a quello degli orologi normali da muro o da polso. Questi segnano il tempo che se ne va; l’orologio del lettore indica il tempo che viene donato e che si spende altrove. Perché leggendo ci si duplica: si diventa ubiqui, il tempo appunto raddoppia. E io sono contemporaneamente qui e lì. Chi mi vede mi crede seduto. Invece, sto viaggiando dappertutto, non so nemmeno io dove, ma non è un problema, perché so che smarrirsi leggendo è un orientarsi; perché so che non smetterei mai di andare avanti.

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