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L’innocenza di padre Brown

di Mariapia Veladiano

Un prete investigatore? Di sicuro piace. Il Don Matteo simpatico, marpione, allegro, pensoso, umanissimo, impersonato da Terence Hill, 13 stagioni televisive, 94% di gradimento fra gli utenti Google che lo hanno visto. Il reverendo Sidney Chambers di Grantchester, bello come un dio greco, sorriso assassino, passionale, onesto, eccessivo, per ora 5 stagioni ma noi fan siamo in minacciosa attesa, 92% di gradimento. Il detective Murdoch dei Misteri di Murdoch, 15 stagioni, 95% di gradimento.

Non è un prete? Non formalmente, ma di sicuro più degli altri due messi insieme, e i temi religiosi sono più onnipresenti dei temi criminali, nei suoi casi. E poi, anzi prima, stavolta in versione libresca, il successo cosmico di Guglielmo da Baskerville, saggio, coltissimo, gesuitico prima che lo si potesse dire, politico, diplomatico. E se Il nome della rosa di Umberto Eco non lo si può mettere nella conta perché si parla di un capolavoro che trascende i generi, allora Fratello Cadfael di Ellis Peters, 20 romanzi e un po’ di racconti, e prima, molto prima, Padre Brown, di Gilbert Keith Chesterton, anche questo diventato due volte film e poi altre due volte serie televisiva, l’ultima nel 2013, a testimoniare la fortuna e la modernità del personaggio.

L’innocenza di padre Brown (Città Armoniosa, Reggio Emilia 1981) è la prima delle 5 raccolte che Chesterton ha dedicato al suo piccolo prete cattolico che troviamo, racconto dopo racconto, ora in uno ora nell’altro villaggio della campagna inglese, capace di ricostruire contorte sequenze assassine e ancora più attorcigliati percorsi dell’animo umano. Fu pubblicata nel 1914, quando Chesterton era ancora anglicano, si convertirà nel 1922, ma già curioso di cattolicesimo.

L’esordio è tutto interno al mondo cattolico. Nel racconto La croce azzurra padre Brown lo troviamo sul treno che da un villaggio della contea di Essex va a Londra nei giorni del Congresso eucaristico. Deve trattarsi di quello del 1908, anche se non viene detto. Con lui, salito ad Harwick dopo aver lasciato il battello, troviamo l’ispettore Valentin, il capo della polizia parigina e il più grande investigatore del mondo, e anche il criminale Flambeau, ladro professionista, quantunque non particolarmente cruento o dissipato, come ci viene spiegato subito.

La caratteristica sorprendente di Flambeau è che è altissimo, un metro e novanta se facciamo bene i calcoli. Difficile misura per un ladro che deve mirare a un certo nascondimento per badare ai propri affari. Mentre la caratteristica principe di padre Brown è di essere piccolo di statura, modesto di aspetto, trascurato nel vestire, e non particolarmente intelligente nell’espressione. Un viso tondo, un grande ombrello, tonaca d’obbligo vista l’epoca.

Si può pensare che i tre rappresentino le maschere fisse della serie, un gioco ben caratterizzato fin dalle prime pagine, ma invece no. Lo sapremo presto. L’ispettore Valentin muore presto e Flambeau diventa buono, sì, proprio buono. Padre Brown lo convince a lasciare il crimine e a diventare investigatore. Il suo nome è Hercule (cf. 203) e se questo nome ci ricorda un altro investigatore belga con i baffi siamo autorizzati a cercare legami, ma un’altra volta.

Padre Brown inciampa nei suoi casi, non li cerca: «C’è nel mondo un’antica e ribelle Demagoga che irrompe negli ambienti più raffinati e esclusivi con la terribile notizia che tutti gli uomini sono fratelli; e dovunque passasse quella terribile livellatrice sul suo pallido cavallo, era compito di padre Brown seguirla» (63). La morte e l’intelligenza sono protagoniste delle storie. Non la perversione e la malvagità, che ci sono qua e là, ma escono sconfitte ogni volta, anche se non del tutto e non per sempre, come è normale che capiti qui sulla terra.

È teologia, tanta tantissima teologia. Il più delle volte i primi accusati dei delitti sono innocenti, vittime di un’apparenza di verità che è menzogna e padre Brown insegue i veri assassini innanzi tutto per ripristinare la verità, quella possibile, e quel tanto di giustizia che il nostro mondo consente. C’è anche una quantità imponente di stereotipi tranquillamente quadernati: gli ebrei da derubare (cf. 83), «la selvaggia lealtà siciliana» (176), la Chiesa cattolica «sposata al buonsenso» (67, ma forse non è uno stereotipo), e c’è un sereno disincanto sulle faccende del mondo, che troveranno giustizia solo nell’aldilà: «Qui non vediamo il disegno dalla parte giusta. Le cose che capitano qui non sembrano avere significato. Lo hanno altrove. Altrove la punizione cadrà sul vero colpevole: qui sembra spesso sbagliare persona» (169).

E ci sono tratti di modernità folgoranti. La «sola malattia spirituale» è «credere di essere veramente sani» (204). Non si può leggere la Bibbia cercando conferma a quel che si crede già, ma padre Brown lo dice molto meglio: «Quando capirà la gente che è inutile leggere la propria Bibbia se non si legge anche la Bibbia degli altri? Un tipografo legge la Bibbia in cerca di errori di stampa. Un mormone legge la Bibbia e vi trova la poligamia» (234).

Ma intanto si deve arginare il male e padre Brown alla fine è il più razionale degli uomini proprio in quanto uomo di fede che non rinnega niente di quel che il raziocinio gli può dire.

Non finisce sempre bene, proprio no. Valentin muore suicida. Impensabile. Si era pronti a vederli duellare per altri 20, 100 racconti. Ma invece no. C’è da dire che era ateo dichiarato e nel mondo di Chesterton questo significa, eccome. Già il vivere è difficile per chi crede: «Tutta la scienza, anche la scienza divina, è una sublime storia gialla. Solo che non è impostata per rivelare perché un uomo sia morto, ma il segreto più oscuro del perché egli viva» (in The Thing: Why I am a Catholic, 1929).

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