Rebecca libri

Nonsense e altro

di Paolo De Benedetti

Poesie nonsense, cantilene, strofe dedicate ai tanto amati gatti delineano il volto sconosciuto ai più di Paolo De Benedetti. Una raccolta di componimenti che svela l’ironia sottile del Rabbi di Asti, la passione per i giochi linguistici, sensati e non, nati nelle redazioni dell’editore Bompiani dall’intesa con Celestino Capasso, Mario Spagnol, Umberto Eco e Giampaolo Dossena, e proseguiti poi come attività parallela ai libri di esegesi biblica e teologia. Completano la produzione nonsensica una lettera a Eco, Micceide e le melanconiche lamentazioni per la perdita degli amici felini, “angeli” del Creatore, per i quali l’autore litiga con Dio.

PREMESSA di Laura Novati

Ho conosciuto Paolo De Benedetti nell’“officina” dell’Enciclopedia Europea e delle Garzantine, all’inizio degli anni Ottanta e poco prima della sua uscita dalla casa editrice; un distacco, val sempre la pena di ripeterlo, doloroso ma fortunato perché fu l’inizio della sua lunga e operosa vita di biblista, di docente di giudaismo, di iniziatore o di discreto protagonista di altre esperienze che stavano nascendo nell’ambito del dialogo ebraico-cristiano, specialmente, che ora era in grado di seguire pienamente. E seguendo un moto perpetuo: dopo trent’anni seduto al tavolo delle redazioni, altri trenta di un inesausto pellegrinaggio, tessendo la preziosa tela dei suoi interventi, recandosi là dove lo chiamavano.

Diventammo subito amici, lo siamo sempre rimasti, avevamo d’altra parte molti amici e amiche in comune e interessi in comune; fra questi, il divertimento nell’aggiornarci reciprocamente sugli ultimi witz conosciuti, frutto dell’inesauribile umorismo ebraico, con telefonate ad hoc.

Ironia e sottile umorismo erano certamente sue doti da sempre, ma ne aveva dato prova pratica nella sua attività di autore di nonsense e nelle pagine del saggio dedicato a La letteratura nonsensica, uscito nell’«Almanacco letterario Bompiani» del 1966. Era un genere letterario abbastanza inconsueto in Italia e in cui si era cimentato specialmente negli anni passati in Bompiani (in cui lavorò dal 1952 al 1968), con la complicità di Celestino Capasso, Mario Spagnol, Umberto Eco, in quella redazione in cui si producevano certo opere ponderose (il famoso Dizionario degli autori e delle opere, prima fra tutte), ma in cui c’era evidentemente spazio anche per il gioco verbale, sensato e insensato, secondo la partizione proposta da Paolo stesso fra i due grandi emisferi o continenti del genere: fra le composizioni che hanno perduto il senso e quelle che non l’hanno mai avuto. Finita quella stagione, il nonsense è per lui solo sporadica attività, magari sollecita a divenirne abile autrice Donella Giacotti, moglie di Gianandrea Piccioli, giovane collega in Garzanti e poi rimasto amico fedele e devoto. Rimane però costante l’interesse per i giochi linguistici e matematici, di cui discorreva a voce e per iscritto con Giampaolo Dossena a proposito della rubrica di Wutki, nel mitico «Linus» degli anni Settanta-Ottanta diretto da odb (altro fortunato acronimo editoriale che nascondeva Oreste Del Buono), piuttosto che con Stefano Bartezzaghi.

Ogni tanto riaffiora però negli anni la vena scherzosa, nascono i nonsense “d’occasione” per un dono di vino, o per quello di un piccante peperoncino offerto da amici o altro, ma la forma metrica non è più quella (aabba) del limerick, viene quasi sempre sostituita dal più tradizionale e nostrano sonetto.

Fra le carte che mi affidò per cavarne questo libretto, c’era anche, ad esempio, un sonetto rivolto all’amico Andrea, all’inizio di una stagione italiana, negli anni Novanta, per cui provava autentica insofferenza, e in cui poco spazio rimaneva al riso aperto o segreto:

Caro Andrea, sai perché
la risata oggi non c’è?
Perché occorre avere denti
belli bianchi e risplendenti,
e soltanto Berlusconi
ne possiede dei milioni,
con i quali a Bush sorride
ed in cambio Bush decide.
Meglio essere sdentati
come i bimbi e gli antenati
e salvar qualche pensiero,
senza tanti denti finti
e capelli pochi, e tinti
di nero.

Se PDB aveva dimenticato in una scatola il frutto di quella ormai lontana stagione, io invece ricordavo assai bene alcune strofette di Un qualcosa è quella cosa, nate sull’esempio di quelle del borbonico giudice napoletano Ferdinando Incarriga, certo non eccelsa mente poetica; avevo imparato a memoria la prima, non ricordo in che occasione me l’avesse recitata, la chiamavo «l’incarrighiana metafisica»:

La bottiglia è quella cosa
che si mette intorno al latte,
se però qualcun la batte
ahimè lasso! Non c’è più….

Comunque, all’inizio del 2000, in qualità di editor alla Libri Scheiwiller, decisi di inserire la poesia nonsensica di Paolo nella collana di poesia della casa editrice; la proposta lo lasciò lusingato e perplesso, ma mi consegnò fiducioso la scatola in cui tra fogli, ritagli e fotocopie era racchiusa la sua produzione poetica (successiva a quella delle liriche giovanili che aveva pubblicato in smilzi volumetti); scelsi, montai e sottoposi il risultato a Giovanni Raboni che, dopo la morte dell’editore Vanni Scheiwiller nel 1999, risultava direttore della collana. Raboni conosceva bene e stimava molto Paolo (erano stati entrambi legati alla Garzanti), ma era sconcertato dalla proposta, era un aspetto inedito della persona. Prese però il materiale, lo lesse e me lo riportò sorridendo, dicendo che sì, avevo ragione, in collana ci stava senza problemi. A questo punto chiesi l’approvazione all’autore che intervenne di qua e di là, senza parere, e il gioco-libro era fatto. Quando uscì, sulla mia copia ebbi una dedica particolare, con un nonsense “autobiografico” del filosofo PDB:

C’era un uomo nato ad Asti
che saltava alcuni pasti.
E sedeva mesto per
capir meglio Heideggèr
quell’illuso lettor di tali impasti…

Al breve corpus della produzione nonsensica, si è aggiunta però nel volume la corposa presenza della poesia legata agli animali, tema assai caro all’autore di una specifica Teologia degli animali, ma sovrano in esso è il gatto/gatti: ad essi sono dedicati i versi dell’epica Micceide, le strofette delle Gattilene, ma ancor più i versi e le prose delle Qinot, le lamentazioni in cui si piange la morte o l’assenza di creature che pure hanno allietato l’esistenza di Paolo e Maria.

Certo, ha amato la sua cagnetta Pucchia, ma per i gatti ha avuto sempre un occhio di riguardo, riteneva che facessero parte delle creature, che la civiltà deve tenere in onore; nella prosa che apre la Micceide, Paolo parte da lontano, propone una visione biblica della felinità:

Nel paradiso terrestre i gatti non c’erano e contro le gambe di Adamo si strofinavano, ronzando, come una centrale elettrica, tigri, pantere e leonesse. Poi Adamo peccò, e gli animali si rivoltarono contro l’uomo. Ma allora più che mai occorreva all’umanità smarrita un esempio sereno e una bussola a godere le ormai scarse letizie della selva. E la divina provvidenza fermò la crescita di certe tigri neonate, e le chiamò gatti: creati il nono giorno (l’ottavo fu quello del peccato) per consolare Adamo e ricordargli l’Eden.

Nessuna meraviglia perciò che i gatti abbiano sempre avuto un posto particolare anche nella sua opera, come dimostra 55 gatti e qualche uccello che esce già nel 1963, con sette puntesecche di Leonardo Castellani, presso l’Istituto d’arte di Urbino (una delle città della sua vita, con Asti e Milano, dati i soggiorni annuali che vi fece e ai seminari tenuti nell’Istituto superiore di scienze religiose, fondato da don Italo Mancini). Fu il primo di diversi volumetti che, sull’onda di Nonsense e altro, unirono la poesia felinamente ispirata di Paolo all’opera di illustratori, in particolare a quella di Michele Ferri: penso a Gattilene, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003; Di dieci gatti voglio parlare: uno… dieci, molti di più in una casa dipinta nel blu, mc, Milano 2006; Gatti in cielo, mc, Milano 2006; La gatta, Henry Beyle, Milano 2015.

Per queste piccole, amate creature trova accenti di sognante grazia, come per Il gatto seduto:

Come un gran fiore
il gatto medita in mezzo al prato
irraggiando un paradiso di pelo.
Le barche di nuvole
scivolano via in fila
colme della sua beatitudine.

Sempre più spesso però negli ultimi anni la poesia dedicata alle familiari creature scomparse porta il segno della tristezza, di una melanconia gentile e tenace, il dolore del vuoto che ha sostituito la loro presenza silenziosa; il compianto assume talvolta la forma del riv, la lite con Dio che li ha tolti alla vita e che deve fare una promessa, quella di restituire:

(…) gli angeli quadrupedi che qui
ci rendono amabile la vita,
se non prometti che vedrò anche loro,
ti restituisco la resurrezione
e resto nel mai più dello sheol.

C’era una donna di nome Clarìce

C’era una donna di nome Clarìce
si lagnava l’infelice:
mi chiamassi almeno Clàrice
salirei sopra quel làrice,
quella nemica delle parossitone.

C’era una signorina molto mesta
perché aveva mangiato la minestra
e se ne stava con il viso scuro
pensando alle minestre del futuro,
la preveggente signorina mesta.

C’era una signorina di Milano
che mangiava il risotto piano piano,
esaminava i chicchi ad uno ad uno
correggendo gli errori di ciascuno,
la pedante ragazza di Milano.

C’era un vecchio di Milano
che prugnava piano piano,
ne teneva i semi in bocca
e parlava con aria sciocca,
quello svanito vecchio di Milano.

C’era un vecchio di Lambrugo
che mangiava pane e sugo
quando n’ebbe pien lo stomaco
si pentì e si fece monaco,
quell’ascetico vecchio di Lambrugo.

Il gatto dell’asilo

Dietro la porta di pino
anche nei giorni di festa
di questo mondo bambino
un incantesimo resta.

La casa vuota mi pare
quasi una chiesa silente
quando ha lasciato l’altare
il prete, e uscita è la gente.

Sol nelle stanze beato
ambula il gatto pian piano
come un devoto curato
o un magico sacrestano.

Escono fievoli accenti
dalle sue forme di lana,
morbidi, neri, lucenti
passi e pensieri dipana.

In questo mondo di nani
vòlita sopra le tavole
dove i bambini domani
imbandiranno le favole.

Qualche poeta, chi sa
con le pantofole piccole
alla conquista ne va
nella foresta di seggiole,

e tra le braccia lo serra
grande bottino canoro
come in omerica guerra
preda di porpora e d’oro.

Forse il poeta futuro
è di metafore ancora
completamente all’oscuro
e la sineddoche ignora.

Forse egli è troppo bambino
ed una cosa non sa:
che questo gatto è un bottino
tutto di felicità.

Gatto d’occasione

C’era un gatto ai bastioni Venezia
che fu coinvolto in una grossa inezia
e disse con grande spavento:
questo è un fidanzamento!

Il pelo della coda si rizzò
e il popolo invitato starnutò.

Com’è poco nuziale
quel gatto feriale
di corso Venezia!

Oh che notte, oh che uccelli!

Il corvo sapientissimo
desidera dormire
e a neri e lunghi passi
si reca lontanissimo.

In un letto di sassi
desidera poltrire
e a passi neri e lunghi
si reca sotto i funghi.

Allora su nel cielo
vola il gufo di velo
e appare la civetta
gattiforme angioletta.

Ma il chiaro barbagianni
si avvolge nei suoi panni
e resta lì impalato
arcangelo impagliato.

Oh che notte, oh che uccelli
così grandiosi e belli
ma forse un po’ sprecati
per noi addormentati.

 

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