Rebecca libri

Ogni palla che ti passavano era goal

di Emiliano Gucci

Il giorno in cui ti infuri che il calcio fa schifo, lo sport fa schifo e tutto è sporco, venduto, aggiustato, vince sempre il potente e tu non puoi starci, non più, non adesso, a questa età, con le idee che ti porti appresso.

O anche il giorno in cui ti avvilisci ché la tua squadra è uno strazio, perde male e gioca peggio, passano gli anni e cambiano uomini, governi, confini, cambiano pure gli extraterrestri ma certe faccende non cambiano mai e dici basta, da oggi chiudo, non si può soffrire tanto per undici imbecilli dietro un pallone, basta stadio, basta sciarpa, basta lacrime e bla-bla-bla.

O il giorno in cui stai in conflitto coi tuoi conflitti, che ti fa strano professarti no-global e sorseggiare Coca-Cola, sbavare dietro una Rolls-Royce e commuoverti per un milionario che fa a cazzotti sopra un ring e dici cielo, un po’ di coerenza, meglio chiudersi in casa e rifugiarsi nella letteratura, la grande letteratura, e sia lodato un buon libro e arrivederci mondo.

O meglio ancora se quel giorno per te non viene mai poiché sei un dritto, non mostri alcuna contraddizione né ti svendi a passioni da poveracci e nel buon libro ti pare di viverci ogni giorno, mente e corpo e anima all’unisono.

Ecco, fa’ che un giorno quel libro sia di Osvaldo Soriano e vedrai che tutto si rimetterà in discussione, che ogni certezza tornerà a vacillare e tu sarai gioiosamente riconsegnato al tuo disordine e alla tua squadra, al tuo campo, al tuo cielo, che liberazione!, undici ragazzi anzi ventidue per una palla da scaraventare tra due pali, anzi tra due maglie buttate a terra per delimitare la porta — pomeriggi interminabili di polvere e sole e stadi d’Argentina, «io sono Maradona», «io sono Messi», e nelle orecchie boati di curva su uno struggente tango di Gardel.

Nato a Mar Del Plata per l’Epifania del 1943, Osvaldo Soriano passa l’infanzia attraversando l’Argentina col padre ispettore dell’azienda che fornisce acqua potabile, e cresce tra le bettole e i ceffi di Tandil, San Luis, Río Cuarto, Río Negro, innamorandosi del cinema e del fútbol. Vuol fare il calciatore: tifoso del San Lorenzo gioca nel Confluencia, la squadra di Cipolleti, paese fondato da un ingegnere italiano; forse tosto e veloce, forse un brocco, pare abbia soprattutto un tiro assai potente, «ogni palla che ti passavano era goal, o stendevi un cane». Finché non è costretto ad abbandonare la carriera per puntare sulla parola scritta, dai primi racconti cortazariani alle immortali cronache di sportivi e di briganti, eroi, artisti e criminali; benedetto infortunio al ginocchio, viene da dire, a meno che non la si pensi come il míster Orlando el Sucio, che lo rincontrò molti anni dopo in quel di Buenos Aires: «Lei aveva talento in area. È un peccato che sia finito così, a scrivere stupidaggini. Non deve aver imparato a tirare di destro».

Coscienza civile, impegno e ironia, nel 1971 entra nella redazione de La Opinión ma le vicende politiche imbrigliano il giornale e Soriano resta ibernato senza pubblicare niente. Comincia così la stesura dei testi che daranno vita al suo primo romanzo, Triste, solitario y final (1973), un’indagine surreale, onirica e romantica, in cui l’autore si affianca al detective Philip Marlowe (sì, quello creato da Raymond Chandler) sulle tracce di Stan Laurel e Oliver Hardy.

«Il continente latinoamericano doveva ancora smaltire la colossale sbronza del realismo magico» scrive Raul Schenardi su Pulp (poi sul blog della casa editrice Sur, per cui ha curato diversi libri), «ma in Argentina, dove il magistero cosmopolita di Borges e il realismo sucio di Roberto Arlt avevano eretto una barriera impenetrabile per gli epigoni di García Márquez & C., la critica accademica celebrava piuttosto gli effimeri fasti della metanarrazione, incoronando scrittori come Juan José Saer e Ricardo Piglia». Poche tenerezze per la penna “cinematografica e giornalistica” di Soriano, quindi, eppure il pubblico lo nota subito e numerose sono le traduzioni nel mondo, compreso quella italiana per Vallecchi (benedetta Vallecchi!).

Che passerebbe pressoché inosservata, non fosse per il caro Giovanni Arpino che ne scrive su La Stampa: «È da giugno che il libro si trova (o dovrebbe trovarsi) negli scaffali degli “economici”. Ma non ho letto un rigo su questa storia eccezionale, veloce come un fumetto, esilarante, virilistica e amara…».

Soriano nel frattempo ha lasciato l’Argentina del golpe e vaga in Europa, pubblica in Spagna e risiede in Belgio quando viene a conoscenza della suddetta recensione. Scatta la scintilla e ne nasce una corrispondenza (setacciata in Bracconieri di storie di Massimo Novelli, edito da Spoon River nel 2007) che ci riporta anche a parlare di calcio (Arpino è un grande tifoso del Torino, nonché l’autore di Azzurro tenebra dedicato alla disfatta italiana ai Mondiali del 1974).

«Caro Arpino, conosco molto da vicino il mondo del calcio (…) e come giornalista sportivo ho potuto conoscere anche la miseria interna dei dirigenti e delle istituzioni. In Italia c’è in questo senso una differenza fondamentale dato che i club sono praticamente delle proprietà private. In Argentina, la proprietà societaria, vale a dire il mantenimento dei club da parte dei loro stessi tifosi, gli conferisce ancora un carattere folcloristico, di società di beneficenza che a volte nasconde i peggiori negoziati».

«Querido Giovanni, nel leggerti, sento che i miei personaggi sono di una banalità che sfiora la stupidità. Lo stesso mi capita di fronte a Fitzgerald a Nathanael West o a Caldwell».

«Gli amici mi dicono che in un piccolo club di Buenos Aires, l’Argentinos Juniors, c’è la salvezza del Torino. Si chiama Diego Armando Maradona, ha 18 anni ed è, secondo i giornalisti e i miei amici stessi, il più grande giocatore (anche se è basso di statura) degli ultimi 30 anni. Fa due gol a partita (…) e fa già parte della selezione nazionale. (…) Costa, credo, cinque milioni di dollari. Se il Torino ha quei soldi è salvo. Dicono che paragonato a lui Sivori è un energumeno. Poi non dite che non vi avevo avvertito».

Soriano ama Maradona come lo amano tutti gli appassionati di calcio. Sorvola sui vizi e sulle cadute, si schiera quando la cocaina gli rovescia contro il sistema che lo ha spremuto fino al giorno prima: «Attorno alla telenovela si muove molto denaro e buona parte di esso cade nel portafoglio. Prima o poi, come avviene nel Tango, bisogna pagare. E non c’è modo di farlo schivandosi o usando i colpi di fucile. L’unica moneta che accettano — ah — è il dolore». Canta il suo genio, gli ritaglia un posto nell’Olimpo: «Alle volte immagino di dividere le cose tra quelle umane e quelle sovrumane. Borges e Cervantes: avevano qualche cosa di indefinibile che li poneva al di là, ed è per questo che perdoniamo loro un sacco di cose… Maradona è così: non è di questo mondo».
Calcio come leggenda e mito, denaro e politica ma soprattutto campetti di sperduta periferia e polvere di deserto, autobus e spogliatoi sgangherati, squadrette improponibili per allenatori picareschi per espedienti da furfanti, immigrati italiani, criollos, fumo di sigaretta e profumo di bordello, nessuno steccato tra una partita del Mondiale e quella giocata nel cortile, scalciando un barattolo: «quando noi eravamo bambini i goal fatti dopo una serie di dribbling contavano doppio, e perciò la seconda rete di Diego valeva anche per quella che aveva segnato di pungo» (in merito al celebre quarto di finale vinto dall’Argentina contro l’Inghilterra nel 1986 e osservato da Port Stanley, anzi Puerto Argentino, capoluogo delle isole Falkland, anzi Malvinas, quattro anni dopo la guerra che le riassegnò al Regno Unito).

Come scrisse Eduardo Galeano, «Gran bel viaggio aveva fatto il football. Era stato organizzato nelle scuole e nelle università inglesi, e in America del Sud rallegrava la vita di gente che non aveva mai messo piede in una scuola». È questa l’essenza del calcio che ammalia Soriano ed è la raccolta Fútbol (Einaudi) a convogliare i suoi più irresistibili scritti in materia, basti citare Obdulio Varela, dedicato all’uruguayano icona del Mondiale vinto a Rio de Janeiro, contro i brasiliani, nel 1950, o Il rigore più lungo del mondo, forse il suo racconto più noto: la partita viene sospesa per una rissa memorabile e si riprende a giocare una settimana dopo, a porte chiuse, per battere soltanto il rigore decisivo.

Scrisse di Che Guevara e di Carlos Gardel ma anche di Mike Tyson, John Lennon, della Coca-Cola; collaborò con Le MondeLibérationLe Canard Echainé, in Italia col Manifesto (vi commentò, tra l’altro, i Mondiali del 1990) e al ritorno in patria fondò Página/12. Tra i suoi romanzi per molti il capolavoro resta l’esordio, per altri Quartieri d’inverno del 1981, per altri ancora L’ora senz’ombra del 1995, opera ultima, viaggio per una “guida alle passioni argentine” ma soprattutto cammino interiore ridisegnando il rapporto col padre. Amava la notte e di notte scriveva, circondato dai suoi gatti. E amava il cibo, il vino, specie quello a buon mercato: fu soprannominato El Gordo, il grasso, poiché non aveva più una silhouette da futbolista.
Nel gennaio del 1997, quando morì per un cancro ai polmoni, lo scrittore Bruno Arpaia lo ricordò così sulle pagine di Repubblica: «L’ho incontrato per l’ultima volta nel giugno scorso a Saint-Malo, in Bretagna. Erano passati otto anni dal nostro primo incontro. Fu amabile, affettuoso e timido, come sempre. Arrossì quando lo scrittore messicano Paco Ignacio Taibo, che non l’aveva mai incontrato prima, gli disse di considerarlo uno dei suoi maestri (…). Io, però, gli lessi negli occhi, nel corpo, il male che l’aveva colpito. Avrei voluto dirgli di smetterla con quei sigari che fumava in continuazione, col vino, col whisky. Ma lui era fatto così».

«Uno scrittore è sempre solo, come un maratoneta» avrebbe chiosato El Gordo. «Da questa solitudine deve prendere tutto: musica celeste e rumori di pancia. E anche la peregrina illusione che un giorno qualcuno decida di aprire il suo libro per vedere se vale la pena rubare ore di sonno con qualcosa di tanto assurdo e pretenzioso come una pagina piena di parole».

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