Rebecca libri

Procida

di Gilda Policastro

Piccolo fatto vero, non proprio fresco di giornata. Sono su un aliscafo di ritorno da Procida, sto cercando un posto dove non patire il mal di mare senza rinunciare a quel po’ di paesaggio in dissolvenza e alla saudade obbligata, mentre l’isola «s’allontana e si confonde» come nel finale dell’Isola di Arturo. Proprio vero che è struggente, che si vorrebbe cadere addormentati per non vederla più («preferisco fingere che non sia mai esistita»). Insomma sono lì che oscillo tra ponte e sottocoperta quando mi accorgo di una ragazza che mi fissa. Mi fissa come per salutarmi e poi si avvicina: «Tu sei Gilda». Boh, magari la conosco ma credo di no e comunque ora che c’è Facebook spesso la gente sa chi sei senza che sia automatico il reciproco. «Gilda Policastro?» E sì, sono proprio io, ma tu, invece, chi sei tu e, soprattutto, cosa vuoi da me, da Gilda Policastro me medesima. Intanto realizzo che è molto bella, mora, alta, capelli lunghissimi e gli occhi chiari. Non saprei ricondurla a nessun contesto particolare, nemmeno alla zumba. Chi accidenti è. «Volevo sapere se potevi darmi un parere». Un parere, eccola là. Dunque, io non so chi sei, ragazza mora e carina, tu sai chi sono io e vuoi un parere. Lasciami indovinare, scrivi e vuoi un parere sulla tua scrittura. Non era difficile, quando la gente mi conosce da Facebook quel che sa di me è “critico letterario” e uno si immagina che il critico sia un po’ come il metal detector: passa la mano sul testo che hai scritto e ti dice ok, oppure vade retro, o ripassa. Chissà da quale tasca che non le vedo tira fuori il libro: la prima cosa che noto è che si tratta innegabilmente di autoproduzione, la seconda è che il nome in copertina è Antonio. «L’autore è il mio ragazzo». Bene, ora leggo. «Ma no, non volevo disturbarti, è che quando ti ho visto ho pensato: c’è Gilda Policastro, non possiamo perdere l’occasione!». Il critical detector ha gioco facile quando hai di fronte a te un libretto praticamente spillato di cui la metà sono figure, l’altra metà strofette e qualche pagina ti racconta di Antonio (sì, lui, il fidanzato della bella ragazza) alle prese con la scelta della facoltà universitaria. E qua già potremmo fermarci, no? Alzi la mano chi comprerebbe un libro di Antonio coi suoi disegnini e le poesie all’amata. Ma il nostro, non pago del suo piccolo mondo trasferito sulla pagina nudo e crudo senza quasi mediazione (a parte le diverse forme di testo giustapposte senza vera necessità o pertinenza), sceglie, per il suo racconto, un registro che definire scolastico è fargli un piacere grosso: Antonio è di quelli che scrivono “egli”, “si recò”, “era una tersa giornata di settembre quando mi avvidi della tal cosa” e via così. Antonio caro, ma come ti viene in mente di spillarti sti quattro pensierini in croce? Un po’ si vivacizza nelle pagine scritte in napoletano, la faccenda, ma lì poi restringiamo il numero dei lettori all’area vesuviana, e quindi no, comunque non ci siamo, Antonio. Quando tornano (colpo di scena, sì, è arrivato anche l’autore istesso, Antonio auctor actor in persona), chiedo se posso essere onesta e tanto lo sarei in ogni caso: Antonio, non ci siamo. Questo resoconto dei tuoi tormenti universitari e amorosi (le poesie per la bella ragazza) non arriverebbero alla sufficienza se si trattasse di un compito di terza media. Non c’è inventiva, non c’è un’idea di scrittura, non parli la lingua dei tuoi tempi, sembri uscito da un sussidiario di quelli in cui si va al mercato a comprare le mele per imparare a sottrarre o dividere. No, Antonio, le cose di cui parli con la tua famiglia o la tua ragazza non vanno bene né per un racconto né per la poesia, meno che mai con questo stile da maestra in pensione. La lingua, se vuoi scrivere, Antonio, è decisiva: ma scrivere correttamente è il primo passo, poi devi trovare una lingua tua, originale, che non è la lingua della grammatica, ti ricordi Manzoni, e prima di lui Dante, la lingua va sporcata, contaminata, come hai provato a fare qui, usando il napoletano («non dovevo? Posso correggere»). Antonio e la bella mi guardano sconsolati ma tengono duro: hanno fatto il classico, a loro hanno insegnato che si scrive “egli”, “si recò”, “in una tersa giornata etc.”. Si vede che non vogliono darmi la soddisfazione di esserci rimasti male: più lei di lui, che già s’immaginava eternata come la Clizia di Montale, ma te la ricordi la bella del libro di quello che doveva scegliere l’università? Pofforbacco, l’ho letto tre volte.

Questo fino a ieri.

Oggi è tutto diverso, Antonio. E sperando che tu mi legga, qui ed ora, volevo ritrattare tutto e incoraggiarti a scrivere, scrivere ancora, e pubblicare, pubblicare quello che hai già scritto, Antonio, perché tu ci hai visto più lungo di me, e io non avevo alcun diritto di frenarti o sminuirti. Tu hai scritto un libro che s’intitola: Io la chiamo vita. Antonio, sei avanti. In questi giorni è primo in classifica e vende centinaia di migliaia di copie un libro che s’intitola È tutta vita. Lascia stare che lo trovi nei supermercati, che lo puoi prendere alla cassa coi rasoi e le mentine, che c’entra. Tu hai capito tutto, Antonio: la gente vuole leggere i libri scritti come si parla la sera a cena, senza nessuna torsione o violazione diastratica e cose buone per gli studi di sociolinguistica. La gente vuole leggere le storie di tutti i giorni, quelle che vive sulla sua pelle, o su quella dei propri cari, e va benone come argomento la scelta della facoltà universitaria: in quale famiglia non se n’è parlato per settimane? Nel tuo Io la chiamo vita potrebbero finalmente rispecchiarsi, condividere quel po’ o quel tanto delle esperienze che ritengono degne di ribalta e di memoria, e ritrovarsi proprio tutti, coi pensieri, le incertezze, i tremori, i patemi, le speranze, i sogni comuni, in un libro, un libro tuo, Anto’! Ti ricordi quando mi hai chiesto quali autori leggere per migliorare la tua scrittura? Hai buttato ipso facto il foglietto a mare? Fallo adesso, te ne prego: quale Foster Wallace, quale Bernhard, quale Giorgio Manganelli, la letteratura è tutta un’altra cosa, e tu l’hai capito meglio di me, Antonio! Adesso ascoltami bene: prendi la tua copertina autoprodotta e postala su Facebook Twitter Instagram, poi di sicuro, con un titolo così e una storia in cui la gente può identificarsi e con una lingua accessibile che non intimorisce, qualcuno ti nota, un editore vero ti contatta e ti pubblica e tu diventi famoso, dammi retta Anto’! Antonio e bella, la prossima volta che ci incontriamo sull’aliscafo scommettiamo che sarò io a chiedere l’autografo? Antonio prenderà dalle mie mani tremanti (e come se no) Io la chiamo vita, senza più riconoscermi chiederà a chi dedicare scrollando l’iPhone, dirò il mio nome ma dovrò ripeterlo e lui domanderà, tra un nuovo tweet e un mi piace: «Gilda, sì, e poi?».

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