Rebecca libri

Scritti scelti (1918-1933) e Scritti scelti (1933-1945) (Dietrich Bonhoeffer, Queriniana, 2008 e 2009)

di Queriniana

Scritti scelti (1918-1933) | Dietrich Bonhoeffer | Queriniana | 2008 | pagine 888 | euro 89,00

III.
Sermoni, brevi omelie, celebrazioni

10. SERMONE SU MT 8,23-27
(BERLINO, II DOMENICA DOPO L’EPIFANIA, 15 GENNAIO 1933)

Mt 8,23ss. 15/I/33

Essendo poi salito su una barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era ricoperta dalle onde; ed egli dormiva. Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: Salvaci, Signore, siamo perduti! Ed egli disse loro: Perché avete paura, uomini di poca fede? Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare si fece una grande bonaccia. I presenti furono presi da stupore e dicevano: Chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono?

Quel che viene qui annunciato è il superamento della paura. La Bibbia, il vangelo, Cristo, la chiesa, la fede sono tutti quanti un unico grande grido di battaglia contro la paura nella vita dell’uomo. La paura è in qualche modo il nemico secolare. Essa risiede nel cuore dell’uomo. Lo svuota interiormente, finché egli cade all’improvviso senza opporre resistenza e impotente. Rosicchia e assottiglia segretamente tutti i fili che lo collegano con Dio e con gli altri, e se nella sua miseria egli si aggrappa loro, essi si spezzano e lui crolla inerme e disperato, tra le risate dell’inferno, su se stesso. A questo punto la paura lo guarda ghignando apertamente e gli dice: adesso siamo soli, tu e io, e soltanto adesso ti faccio vedere il mio vero volto. E a chi la paura si è mostrata una volta nuda, chi ne è finito preda in un’orrenda solitudine – preda della paura di fronte a una grande decisione, preda della paura di fronte a una grave situazione, di fronte a difficoltà professionali, a una malattia, preda della paura di fronte a un vizio che non è più in grado di contrastare, che lo schiavizza, preda della paura di fronte alla vergogna, della paura di fronte a un altro uomo, della paura di fronte alla morte –, costui sa che la paura è soltanto una maschera del male, che è una veste sotto cui il mondo ostile a Dio cerca di conquistarlo. Niente può far percepire all’uomo la realtà delle potenze empie operanti nella nostra vita come questa solitudine, questa inermità, questa nebbia che si diffonde su tutto, questa mancanza di vie di uscita e il travolgente stato di eccitazione che lo spinge a uscire da questa disperazione infernale. Avete mai visto un uomo che è stato preso dalla paura? Egli è orribile se è un bambino, ancora più orribile se è un adulto: il suo sguardo fisso, il suo tremore animalesco, la sua resistenza supplichevole. La paura rende l’uomo disumano. Una creatura di Dio non si presenta così; così si presenta l’uomo divenuto preda del diavolo, la creatura incatenata, distrutta, malata. Eppure egli non deve avere paura, non dobbiamo avere paura! Questa è la differenza dell’uomo da tutte le altre creature: in qualsiasi situazione priva di vie di uscita, in qualsiasi oscurità e colpa egli conosce una speranza, una speranza che si chiama: Sia fatta la tua volontà2, sì, sia fatta la tua volontà. «Tutto passa, ma Dio permane senza vacillare; i suoi pensieri, la sua parola e la sua volontà poggiano su un fondamento eterno». Se domandi: «Come fai a saperlo?», menzioniamo il nome di Colui davanti al quale il maligno presente in noi trasale, davanti al quale la paura e l’angoscia sono costrette a temere, davanti al quale esse tremano e fuggono via, il nome di Colui che solo superò la paura, la trascinò prigioniera nel suo corteo trionfale, la affisse in croce e la annientò, il nome di Colui che è il grido di vittoria dell’umanità redenta dalla paura della morte, Gesù Cristo crocifisso e vivo. Soltanto lui è il Signore della paura, essa lo conosce come il suo Signore, soltanto a lui essa cede il passo. Perciò guardate a lui nella vostra paura, pensate a lui, richiamatelo alla vostra mente, invocatelo, pregatelo, credete che vi è già adesso vicino e che vi aiuta… Allora la paura diminuirà e scomparirà, e voi sarete liberi nella fede in Gesù Cristo, Salvatore potente e vivo.
Un’imbarcazione avanza tra le onde. La lotta è dura. La tempesta diventa sempre più violenta. La barca è piccola, un giocattolo tra i marosi, il cielo è scuro, le energie vengono meno. Il primo comincia ad essere afferrato… Da chi? Da che cosa?… Non lo sa neppure lui. Nella barca è entrato uno che prima non c’era, uno che adesso gli si avvicina, pone le mani fredde sulle sue braccia che remano disperatamente, ed egli sente che i suoi muscoli si sono come paralizzati, che le forze lo abbandonano. Lo sconosciuto comincia allora a lavorarlo al cuore, al cervello, e gli fa sfilare davanti delle immagini quanto mai strane: egli vede la sua famiglia e i figli che piangono. Che ne sarà di loro quando lui non ci sarà più? All’improvviso si ritrova in quel posto, in cui una volta il maligno lo aveva trascinato, in cui egli lo aveva servito nel corso di una lunga schiavitù, e vede tutti i volti dei compagni di allora nel compiere il male, vede il vicino che solo il giorno prima aveva profondamente offeso con brutte parole. All’improvviso non vede e non ode più nulla, non riesce più a remare, è travolto da un’onda e come in un estremo grido di aiuto esclama: Chi sei, sconosciuto nella barca? E questi risponde: Sono la paura. La notizia si diffonde fra tutto l’equipaggio: la paura è a bordo, tutte le braccia cadono come inchiodate e paralizzate, è scomparsa ogni speranza, è arrivata la paura. Ma ecco che è come se i cieli si aprissero e le stesse schiere celesti intonassero il grido di vittoria in mezzo a quella situazione disperata: Cristo è nella barca, Cristo è a bordo, e non appena tali parole sono state gridate e percepite, la paura fugge via e le onde si placano. Il mare si calma e la barca si ritrova su una superficie d’acqua tranquilla. Sulla barca c’era Cristo!
Non partecipavamo anche noi a quel viaggio, e il grido «Cristo è sulla barca» non è stato all’improvviso anche la nostra salvezza? E non siamo stranamente tutti quanti di nuovo in viaggio, non partecipiamo stranamente di nuovo a quel viaggio senza fede, senza speranza, oppressi, incatenati, ridotti in schiavitù, paralizzati dalla paura, scoraggiati, tristi, con le membra pesanti come il piombo? Chi conosce la propria situazione? Forse o addirittura verosimilmente non sappiamo più bene come stiamo, ci siamo talmente abituati alla nostra condizione che la accettiamo come qualcosa di ovvio, che ci siamo quasi affezionati a tutta la miseria che ci circonda e che c’è in noi. E che fare il giorno che non potessimo più nemmeno lamentarci? Questa è appunto la cosa peggiore di tutte, il fatto che non vorremmo più uscire da tale situazione. Questo è l’ultimo trionfo della paura sopra di noi, il fatto che abbiamo paura di sfuggirle, il fatto che ci sottomettiamo servilmente a lei. La paura ha vinto su di noi e ci circonda nelle forme più diverse. Alcuni sono diventati ottusi e insensibili, rimuginano solo più confusamente e amareggiati e vivono alla giornata, perché sono diventati troppo intorpiditi persino per suicidarsi. Altri manifestano ad alta voce la loro paura, si lamentano con alti gemiti davanti a chiunque incontrano; altri ancora pensano invece di poter scacciare la loro paura con parole roboanti e ardite fantasie, e a dir la verità questo può sembrare sufficiente per qualche tempo, qualora tali parole siano gridate a voce sufficientemente alta. Ma l’esperto riconosce di nuovo in esse solo la mostruosa potenza della paura. La paura è sulla barca, in Germania, nella nostra propria vita e nella navata di questa chiesa, la paura nuda e cruda di fronte all’ora successiva, di fronte al domani e al dopodomani; perciò diventiamo ottusi, ci lamentiamo, ci inebriamo più che possiamo: che cosa sono infatti questo baccano della notte di capodanno e questa ebbrezza sfrenata se non la grande paura del nuovo, la grande paura del futuro? La paura sta alle calcagna dell’uomo.
Chi vorrebbe essere qui presuntuoso come se tutto questo non lo riguardasse, come se non potesse comprendere tutto questo? Non ci dovrebbe essere nessuno che non capisce perché l’umanità del mondo4 ha oggi motivo di avere paura.
Ma ecco che in mezzo a questo mondo della paura è stato stabilito per tutti i tempi un luogo, che ha il compito del tutto particolare e incomprensibile al mondo di gridare agli uomini nuovamente, in continuazione e in maniera quanto mai monotona un’unica cosa: la paura è vinta, non temete; non abbiate paura nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo5. Uomini di poca fede, perché avete paura? Cristo è nella barca! E questo luogo, dove si parla e si deve parlare così, è il pulpito della chiesa. Dal pulpito Cristo stesso vuole dire al mondo che per colui presso il quale egli si ferma la paura scompare, dire che egli vince in lui la paura. Uomini di poca fede, perché avete paura? Dobbiamo cogliere in queste parole tutta la delusione e tutto l’amore di Gesù Cristo per i suoi discepoli. Non sapete ancora che siete nelle mani di Dio, che dove sono io, lì c’è Dio? Perché avete paura, siate coraggiosi, forti, solidi, virili, sicuri, certi, non tremate. Non avvilitevi, non lamentatevi dei tempi cattivi… Io sono sulla barca. Sono anche in questa navata. Ascoltatelo dunque e credetegli.
Siamo venuti qui perché in qualche modo sappiamo che qualcosa deve cambiare nella nostra vita e perché pensiamo che la chiesa ci può forse in qualche modo aiutare in tale impresa. Percepiamo quanto piccola, quanto misera, quanto meschina, quanto miope sia attualmente la nostra vita. Vediamo solo le nostre preoccupazioni e difficoltà e non vediamo quelle mille volte più grandi dell’altro. Le nostre cose ci sembrano così gigantesche e importanti che diventiamo insensibili verso tutto il resto. È stata la paura a farci assumere questo atteggiamento. Adesso sentiamo di non poter più sopportare questa meschinità, ci sentiamo soffocare, e in mezzo a questo presagio e a questo domandare penetra la chiamata della chiesa: ci manca solo una cosa, cioè la fede che Dio onnipotente è nostro padre e nostro signore, che davanti a lui le nostre più grandi preoccupazioni sono come le preoccupazioni dei bambini piccoli davanti ai loro genitori, che egli può disporre e cambiare le cose in un istante, che esse sono per lui leggere e niente affatto pesanti, che per lui mille anni sono come un giorno6, che i suoi pensieri sono più elevati di tutti i nostri pensieri7, che egli è malgrado tutto vicino a noi. Lasciamo che ci gridi ancora una volta dalla chiesa: Uomini di poca fede, perché avete paura? In mezzo alla tempesta Cristo è nella barca. Sparisci, paura! Mostrati, Signore Gesù, Soccorritore e Salvatore potente!
Adesso però arriva la valanga delle obiezioni e dei pretesti. Diciamo: Vorremmo credere, ma semplicemente non lo possiamo più fare. La miseria è troppo grande. Non prendiamo troppo sul serio questo discorso. Non potete credere? Orbene, neppure noi lo possiamo. Volete credere? E allora credete già, forse in un modo ancora debole, solo iniziale, ma forse mille volte più forte di quello di tanti altri, che pensano di poter credere. Non guardate alla vostra fede forte o debole, ma guardate soltanto a colui in cui credete e ditegli: Signore, aumenta la nostra fede!
Diciamo: non è la miseria a spaventarci, ma il nostro peccato, e del peccato dobbiamo avere paura, altrimenti ci assale! Anche questo sembra ancora una volta molto giusto, eppure è ancora una volta uno stratagemma della paura. No, non è vero che dobbiamo avere paura del peccato, perché chi ha paura, c’è già dentro. La paura è la rete da pesca del maligno. Prima egli spaventa, confonde, e poi noi gli apparteniamo. Non paura, ma coraggio, coraggio… Com’è possibile fronteggiare il nemico con la paura nel cuore? Uomini di poca fede, perché avete paura? Dio non è più grande del vostro peccato? Permettetegli di diventare forte in voi, e il vostro peccato è vinto. Credetegli… Signore, aumenta la mia fede!
E alla fine arrivano i completamente afflitti, i completamente scoraggiati con la domanda: il nostro tempo non è finito, gli anni delle catastrofi, [della] sconfitta e del crollo totale, il caos della nostra vitanelle cose piccole e nelle cose grandi non più controllabile da alcun uomo non sono il segno che Dio ci ha abbandonato? Dio non ci vuole più. Ha smesso di essere misericordioso con noi, ci è ostile; e noi dobbiamo prenderne atto. Non dobbiamo più aggrapparci a lui, egli non ci vuole più. Questa è la voce proveniente dal più profondo del nostro animo, dalla disperazione. E qui ci è di aiuto soltanto una cosa, che la chiesa fa verso chiunque di noi pensa e sente così: prendere la croce, tenerla davanti agli occhi e domandare: Dio lo ha abbandonato? E come non lo ha abbandonato, così non abbandona neppure noi. Riconoscete dunque questo segno nella vostra vita. Riconoscete e comprendete l’ora della tempesta e della sconfitta. Essa è l’ora dell’inaudita vicinanza di Dio e niente affatto l’ora della sua lontananza. Dove ogni altra sicurezza cade e scompare, dove cadiamo in continuazione, dove siamo annientati, dove siamo costretti a imparare a rinunciare, lì tutto ciò avviene soltanto perché Dio sta arrivando e perché soltanto lui vuol essere il nostro sostegno e la nostra certezza. Egli spezza la nostra vita, la fa fallire da tutti i lati, nella sfortuna e nella colpa, e appunto in questo fallimento ci fa ritornare solo e completamente a lui, a Dio, che vuole mostrarci una cosa: dove lasci andare via tutto, dove perdi ogni tua sicurezza e sei costretto a rinunciarvi, lì sei completamente libero per lui e pienamente al sicuro in lui. Cerchiamo di comprendere in questo modo giusto le ore della prova e della tentazione, le ore in alto mare della nostra vita! Dio è loro vicino, non lontano, il nostro Dio è sulla croce.
La croce è il segno in cui ogni falsa sicurezza della nostra vita è giudicata e nel quale è suscitata la fede soltanto in Dio. Siate coraggiosi, siate virili, siate sicuri, siate certi: così abbiamo detto. Sì, però l’importante è che alla fine non insorga in proposito un grave fraintendimento. Esistono anche un falso coraggio, una falsa sicurezza…, e questa falsa sicurezza è solo la mimetizzazione più raffinata della paura. Ascoltate il nostro racconto!
I discepoli, quando salirono sulla barca, sembravano essere del tutto sicuri, sembravano non aver alcuna paura. Perché erano sicuri? Vedevano il mare bello piatto ed erano tranquilli e senza alcuna preoccupazione. Ma con l’aumentare del vento e delle onde persero la loro tranquillità e crebbe la loro paura. Guardavano terrorizzati al mare in burrasca. Su di esso poggiava la loro sicurezza e partendo di là la paura lì assalì. Gesù, ci viene raccontato, dormiva. Solo la fede riesce a dormire senza preoccupazioni – per questo il sonno è un ricordo del paradiso terrestre –, la fede ha la sua sicurezza soltanto in Dio. I discepoli non riuscivano a dormire, la loro sicurezza era scomparsa, avevano perso ogni sostegno, la loro era stata una falsa sicurezza, era stata soltanto un altro travestimento della paura. Tale sicurezza non vince la paura e finisce presto; la paura la vince soltanto la fede che si lascia ogni falsa sicurezza alle spalle, la fa cadere e la infrange; la fede che non crede in se stessa, nel mare favorevole, nelle circostanze favorevoli, nella propria forza, nella forza di altri uomini, bensì crede soltanto e unicamente in Dio, che il mare sia in tempesta o meno, la fede che non ricaccia di nuovo nella paura, ma che libera dalla paura. Signore, aumenta questa fede in noi, uomini di poca fede!
Ma adesso è vera anche l’altra cosa. Quando Cristo è sulla barca, comincia sempre a scatenarsi la tempesta. Allora il mondo lo assale con tutte le sue potenze malvagie, cerca di annientarlo unitamente ai suoi discepoli, si erge contro di lui e lo odia. Il cristiano lo deve sapere. Nessun uomo passa attraverso tante angosce e paure come il cristiano. Ma ciò non lo deve stupire, perché Cristo è il crocifisso, e nessun cristiano perviene alla vita senza essere stato crocifisso. Egli patirà e camminerà così con Cristo, ma sempre con gli occhi rivolti a colui che [è] con lui sulla barca, che può subito alzarsi e comandare al mare di calmarsi.
Ora però sembra vero quello che tutti voi state certamente obiettando da lungo tempo dentro di voi: tali azioni miracolose oggi Cristo non le compie più. È diventato così stranamente nascosto da indurci spesso a pensare che non sia più presente! Cari fratelli, che ne sappiamo di quello che Cristo può e vuole fare nei nostri confronti anche questa sera stessa, a patto che lo invochiamo nel modo giusto, quando gli diciamo: Signore, aiutaci, siamo perduti! Questa era certamente paura, ma nella paura c’era la fede, la quale sa da dove soltanto può ricevere aiuto. Non ci sono più miracoli, diciamo!… Ma che ne sappiamo io e tu al riguardo?… Non potremo che vergognarci, quando un giorno Dio ci mostrerà le sue opere.
Ed essi furono presi da stupore e dicevano…. Gli stupefatti li comprendiamo bene. Chi è mai quest’uomo, di fronte al quale la paura fugge, che vince la paura nella vita dell’uomo, che la priva del suo potere? Ma già così domandando pieghiamo le ginocchia, lo preghiamo, indichiamo l’uomo dei miracoli e diciamo: questi è Dio!
Amen.

 

 

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II.
Studi e lavori teologici

131. FRAMMENTO DI UN SAGGIO SU:
CHE COSA SIGNIFICA DIRE LA VERITÀ?

Dal momento della nostra vita in cui diventiamo capaci di usare la lingua ci viene insegnato che le nostre parole devono essere vere. Che cosa vuol dire? Che cosa significa “dire la verità”?2 Chi lo esige da noi?
È chiaro che in primo luogo sono i genitori che con l’esigenza di veridicità3 conferiscono ordine al nostro rapporto con loro e di conseguenza questa esigenza è anzitutto e – nel senso inteso dai genitori – pure riferita e limitata a quella ristrettissima cerchia della famiglia. Va inoltre notato che il rapporto che si esprime in questa esigenza non è semplicemente invertibile: la veridicità del bambino nei confronti dei genitori è per sua natura diversa da quella dei genitori nei confronti del bambino. Mentre la vita del piccolo è lì manifesta davanti ai genitori e la parola del bambino deve rivelare tutto ciò che è nascosto e segreto, non si può dire altrettanto nel rapporto inverso. L’esigenza dei genitori nei confronti del bambino riguardo alla veridicità è dunque diversa da quella del bambino verso i genitori.
Da ciò emerge già che “dire la verità” significa qualcosa di diverso a seconda del posto in cui ci si trova: occorre considerare volta per volta i rapporti. Ci si deve chiedere se e in qual modo una persona sia autorizzata a esigere dall’altro il discorso conforme a verità. Come la parola tra genitori e figli è, per natura, diversa da quella tra marito e moglie, tra amico e amico, tra insegnante e alunni, tra autorità e sudditi, tra nemico e nemico, altrettanto è differente la verità contenuta in tale parola.
L’obiezione che subito si pone, secondo cui il discorso veritiero lo si deve però non a questo o a quello, ma soltanto a Dio, è corretta solo nella misura in cui a questo riguardo non si trascura che Dio non è appunto un principio generale, bensì il Vivente che mi ha posto in una vita vera e in essa esige che io mi ponga al suo servizio. Chi dice Dio non può semplicemente cancellare il mondo dato nel quale vivo; altrimenti non parlerebbe del Dio che in Gesù Cristo è entrato nel mondo, ma di una qualche divinità metafisica4. Si tratta perciò proprio di come faccio valere il discorso conforme a verità, che devo a Dio, nella mia vita concreta con i suoi molteplici rapporti. La veridicità delle nostre parole, dovuta a Dio, deve assumere forma concreta nel mondo. La nostra parola non dev’essere conforme a verità in linea di principio, ma dev’esserlo concretamente. Una veridicità non concreta non è affatto veritiera davanti a Dio.
“Dire la verità” non è dunque solo una questione di modo di pensare, ma anche di retta conoscenza e di seria riflessione sui rapporti reali. Quanto più vari sono i rapporti di vita di una persona, tanto più responsabile e difficile diventa per lei “dire la verità”. Il bambino che è coinvolto soltanto in un unico rapporto vitale, ossia quello con i suoi genitori, non ha ancora nulla da soppesare e su cui riflettere; ma già il successivo ambito vitale nel quale viene posto, la scuola, comporta le prime difficoltà. Sul piano pedagogico è perciò della massima importanza che i genitori facciano capire al bambino in qualche modo – che qui non possiamo discutere – la diversità di questi ambiti vitali e delle loro responsabilità.
Il dire la verità va dunque appreso. Ciò suona terribile per colui che pensa che sia sufficiente il ricorso ai princìpi (Gesinnung) e che se questi sono irreprensibili tutto il resto è un gioco da ragazzi. Orbene, siccome però le cose stanno in modo tale che la dimensione etica non può essere disgiunta dalla realtà, l’imparare a conoscere sempre meglio la realtà è parte costitutiva necessaria dell’agire etico . Nella questione di cui ci stiamo occupando, tuttavia, l’agire consiste nel parlare: il reale deve essere espresso in parole. In questo consiste il discorso conforme a verità. Con ciò però si pone inevitabilmente la questione circa il “come” delle parole. Si tratta della “parola” di volta in volta “giusta”. Trovarla è questione di lungo, serio e progressivo sforzo sulla base di esperienza e conoscenza del reale. Per dire come una cosa realmente è, cioè per parlare in modo conforme a verità, lo sguardo e il pensiero devono rivolgersi a come il reale è in Dio e da Dio e rispetto a Dio.
È cosa superficiale restringere il problema del discorso conforme a verità a singoli casi di conflitto. Ogni parola che io semplicemente pronuncio sta sotto la prescrizione di essere vera; a prescindere del tutto dal fatto che il suo contenuto sia conforme o meno alla verità, già il rapporto in essa espresso da me con un’altra persona è vero o non vero. Io posso lusingare, posso farmi arrogante oppure posso fingere senza pronunciare necessariamente una non-verità oggettiva e tuttavia la mia parola è non vera perché distruggo e sgretolo la realtà del rapporto tra marito e moglie o tra superiore e sottoposto ecc. La singola parola è sempre parte di una realtà globale che cerca di trovare espressione nella parola. A seconda della persona a cui parlo, da chi sono interpellato, di che cosa parlo, la mia parola, se vuole essere conforme alla verità, deve essere ogni volta diversa. La parola conforme alla verità non è una grandezza in sé costante, bensì è viva come la vita stessa. Là dove si stacca dalla vita e dal rapporto con l’altra persona concreta8, là dove la “verità viene detta” senza tener conto della persona a cui la dico, là essa ha soltanto l’apparenza, ma non l’essenza della verità9.
È il cinico che, sotto la pretesa di “dire la verità” ovunque e in qualsiasi momento e a ogni persona nello stesso modo, ostenta soltanto un morto simulacro della verità. Attribuendosi l’aureola del fanatico della verità che per le debolezze umane non può avere riguardo alcuno, egli distrugge la verità viva tra le persone. Ferisce il pudore, desacralizza il mistero, manda in frantumi la fiducia, tradisce la comunità nella quale vive e se la ride altezzosamente sul campo di rovine che lui stesso ha causato, sulla debolezza umana che “non può sopportare la verità”. Sostiene che la verità opera distruzione e rivendica le sue vittime, si sente come un Dio sulle creature deboli e non sa che serve satana.
C’è una verità di satana. La sua essenza sta nel fatto che, sotto l’apparenza della verità, nega tutto ciò che è reale. Vive dell’odio contro il reale, contro il mondo che è creato e amato da Dio. Si dà l’aria di dare seguito al giudizio di Dio sul peccato originale del reale. Ma la verità di Dio giudica il creato a partire dall’amore, mentre la verità di satana lo giudica a partire da invidia e odio. La verità di Dio si è fatta carne nel mondo, è vivente nel reale, mentre la verità di satana è la morte di ogni reale.
Il concetto di verità vivente è pericoloso e desta il sospetto che la verità possa e debba essere adattata di volta in volta alla situazione, nel qual caso il concetto di verità si dissolve completamente e menzogna e verità si avvicinano l’un l’altra a tal punto da diventare indistinguibili. Ciò che è stato detto sulla necessaria conoscenza del reale potrebbe anche essere frainteso fino al punto che la misura di verità che io sono disponibile a dire a un’altra persona dipenda da un atteggiamento di calcolo oppure pedagogico nei suoi confronti. È importante tenere ben presente questo rischio. La possibilità di incorrervi non può tuttavia consistere in null’altro che appunto nella conoscenza attenta dei contenuti e dei limiti che il reale stesso, di volta in volta, prescrive all’affermazione perché sia un’affermazione conforme alla verità. Mai però, a causa dei rischi che sono presenti nel concetto di verità vivente, si può ad essi rinunciare a vantaggio del concetto formale e cinico di verità.
Dobbiamo tentare di chiarircelo per bene. Ogni parola vive e si colloca in un determinato contesto. La parola all’interno della famiglia è diversa dalla parola detta in ufficio o in pubblico. La parola che nasce nel calore della relazione personale si raggela nell’atmosfera fredda della situazione pubblica. La parola di un’ingiunzione proveniente dal servizio pubblico, in famiglia distruggerebbe i legami della fiducia. Ogni parola deve avere e conservare il proprio luogo. È una conseguenza dell’estendersi della parola pubblica nei giornali e alla radio il fatto che essenza e limiti delle differenti parole non vengono più percepiti chiaramente, anzi, per esempio, che la specificità della parola personale viene quasi annullata. Al posto delle parole autentiche subentra il chiacchiericcio: le parole non hanno più un peso. Si parla troppo. Se però i confini delle differenti parole si confondono, se le parole diventano prive di radici, senza patria, allora la parola perde verità, allora addirittura prende piede quasi spontaneamente la menzogna. Se i diversi ordinamenti della vita non si rispettano più reciprocamente, allora le parole diventano non-vere.
Un esempio: un bambino viene interrogato dal maestro davanti alla classe se è vero che suo padre sovente torna a casa ubriaco. La cosa è vera, ma il bambino lo nega. La domanda del maestro lo pone davanti a una situazione per la quale egli non è ancora preparato; egli avverte cioè che lì ha luogo una ingiustificata intromissione nell’ordinamento della famiglia, che egli deve respingere. Ciò che avviene in famiglia non può essere spiattellato davanti alla classe a scuola. La famiglia ha il suo proprio segreto, ha l’obbligo di custodirlo. Il maestro non ha rispettato la realtà di questo ordinamento. Il bambino dovrebbe ora, nella sua risposta, trovare una via per la quale salvaguardare in eguale modo l’ordinamento della famiglia e quello della scuola. Ma non è ancora in grado di farlo: gli mancano l’esperienza, la conoscenza e la capacità per formulare una risposta giusta. Rispondendo in modo semplicemente negativo alla domanda del maestro, la risposta che dà è in realtà non vera, ma essa esprime allo stesso tempo la verità che la famiglia è un ordinamento sui generis nel quale il maestro non è autorizzato a intromettersi. Si può certamente dire che la risposta del bambino è una bugia; ciononostante, questa bugia contiene però più verità – ossia è più adeguata alla realtà – che se il bambino avesse ammesso la debolezza di suo padre davanti alla classe. In base al suo grado di conoscenza, il bambino ha agito rettamente. La colpa della bugia ricade solo sul maestro. Una persona esperta al posto del bambino, rimproverando chi la interrogava così, avrebbe anche potuto evitare la formale contrarietà alla verità nella risposta, trovando la “parola giusta” per quella situazione. Menzogne soprattutto da parte di bambini e di persone inesperte vanno spesso ricondotte al fatto che essi vengono posti davanti a situazioni che non sono in grado di gestire. È perciò discutibile se sia sensato generalizzare ed estendere il concetto di menzogna, che viene intesa e deve essere intesa come qualcosa semplicemente da rifiutare, in modo tale che esso coincida con il concetto dell’affermazione formalmente contraria alla verità. Anzi, già qui appare quanto sia difficile dire che cosa sia propriamente la menzogna.
La definizione usuale, secondo la quale è menzogna la consapevole contraddizione tra pensare e dire, è completamente inadeguata. Sotto questa definizione, per esempio, dovrebbe cadere l’innocentissimo pesce d’aprile. Il concetto di “bugia scherzosa”, familiare alla teologia morale cattolica, toglie alla menzogna la caratteristica decisiva della serietà e della cattiveria (come, viceversa, toglie allo scherzo la caratteristica decisiva del gioco innocente e della libertà) ed è perciò – lo si può immaginare – infelice. Con la menzogna lo scherzo non ha proprio nulla a che fare e non può essere ridotto a un denominatore comune. Se ora si dice che la menzogna è il consapevole inganno dell’altro, a suo danno, allora sotto questa definizione dovrebbe, per esempio, cadere anche il necessario inganno dell’avversario in guerra o in situazioni analoghe (Kant ha certamente dichiarato che egli era troppo orgoglioso per non dire mai una non-verità e però allo stesso tempo ha involontariamente portato questa affermazione ad absurdum, dichiarando che egli, anche di fronte a un criminale che cercasse un amico nascosto presso di lui, si sarebbe sentito in dovere di informarlo secondo verità). Se si designa un simile comportamento come menzogna, allora la menzogna riceve in tal modo una consacrazione e giustificazione morale che contraddice il suo concetto in ogni modo. Da qui emerge in primo luogo che la menzogna non si può definire formalmente mediante la contraddizione tra pensare e dire. Questa contraddizione non è neppure un costitutivo necessario della menzogna. Da questo punto di vista c’è un discorso assolutamente corretto, inattaccabile, che tuttavia è menzogna; per esempio, se un notorio imbroglione per trarre in errore dice per una volta “la verità”, o se sotto l’apparenza della correttezza sonnecchia la consapevole ambiguità o la verità decisiva resta consapevolmente nascosta. Anche un consapevole tacere può essere menzogna, per quanto, d’altra parte, non deve essere necessariamente menzogna.
Queste considerazioni portano allo scoperto il fatto che l’essenza della menzogna si cela molto più in profondità che nella contraddizione tra pensare e dire. Si potrebbe forse dire che la persona che sta dietro la parola la fa essere menzogna o verità. Ma anche questo non basta; infatti la menzogna è qualcosa di oggettivo e deve di conseguenza essere determinata. Gesù indica il Satan come «padre della menzogna». La menzogna è in primo luogo la negazione di Dio, così come egli si è manifestato al mondo: «Chi è un mentitore, se non colui che nega che Gesù è il Cristo?». La menzogna è contraddizione nei confronti della Parola di Dio, quale Dio l’ha pronunciata in Cristo e nella quale si fonda la creazione. La menzogna è perciò il rifiuto, la negazione e la distruzione consapevole e volontaria della realtà quale è creata da Dio e sussiste in Dio, e per la precisione finché ciò avviene attraverso parole e silenzio. La nostra parola ha il compito di esprimere, in unità con la Parola di Dio, il reale così come è in Dio e il nostro silenzio deve essere il segno dei limiti che sono tracciati alla parola dal reale così come è in Dio.
Nello sforzo di esprimere il reale lo troviamo non come un tutto unitario, ma nella condizione di lacerazione e di contraddizione con se stesso, che ha bisogno di riconciliazione e di guarigione. Noi ci troviamo al tempo stesso inseriti in diversi ordini del reale e nondimeno la nostra parola, che cerca la riconciliazione e la guarigione del reale, viene di continuo trascinata dentro la divisione esistente e nella contraddizione; la nostra parola tuttavia può assolvere al suo compito di esprimere il reale come è in Dio solo assumendo in sé sia la contraddizione esistente sia il contesto del reale. La parola umana, se vuole essere vera, non può negare il peccato né tantomeno la Parola di Dio che crea e riconcilia, nella quale ogni divisione è superata. Il cinico vuole rendere vera la sua parola esprimendo di volta in volta l’aspetto singolo che egli crede di riconoscere senza porre attenzione alla totalità della realtà, e proprio così distrugge completamente il reale e la sua parola diventa non-vera, anche se essa ha l’apparenza superficiale dell’esattezza. «Tutto ciò che esiste rimane lontano e molto profondo; chi lo comprenderà?» (Qo 7,24).
La mia parola come fa a diventare vera? 1) Quando io riconosco chi mi autorizza a parlare e che cosa mi legittima a parlare; 2) quando io riconosco il luogo in cui mi trovo; 3) quando pongo l’oggetto su cui dico qualcosa in questo contesto.
In queste determinazioni si presuppone innanzitutto tacitamente che il parlare stia assolutamente sotto determinate condizioni; esso non accompagna in un flusso continuo il naturale corso della vita, ma ha il suo luogo, il suo tempo, il suo colorito e così i suoi limiti.
1. Chi o che cosa mi legittima o mi autorizza a parlare? Chi parla senza legittimazione e senza autorizzazione è un fanfarone. Poiché in ogni parola si tratta sempre del duplice rapporto con l’altra persona e con un oggetto, tale rapporto deve essere perciò visibile in ogni parola; una parola priva di rapporto è vuota; non contiene alcuna verità. Qui c’è una differenza essenziale tra pensare e dire. Il pensare non ha di per sé alcuna relazione necessaria con l’altra persona, ma solo con un oggetto. La pretesa di dovere anche dire ciò che si pensa è di per sé assolutamente ingiustificata. Del parlare invece fa parte la legittimazione e autorizzazione da parte dell’altra persona. Esempio: nel mio pensiero io posso ritenere una persona stupida, odiosa, incapace, priva di carattere, ma anche saggia o dotata di grande carattere, ma è tutt’altra cosa se io sia legittimato e grazie a che cosa sia autorizzato a esprimerlo e di fronte a chi io lo esprima. Indubbiamente una legittimazione al parlare discende da un ufficio che mi viene conferito. I genitori possono biasimare o lodare il bambino, mentre il bambino non è autorizzato a fare alcuna delle due cose nei riguardi dei genitori. Un rapporto analogo esiste tra maestro e alunni, sebbene i diritti del maestro nei confronti del bambino siano più limitati di quelli del padre. Così, nei confronti dell’alunno il maestro deve attenersi, sia nella critica che nella lode, a determinate singole mancanze e prestazioni, mentre, per esempio, giudizi generali sul carattere non spettano all’insegnante, bensì ai genitori. L’autorizzazione a parlare rientra sempre nei limiti dell’ufficio concreto che io esercito. Se questi confini vengono oltrepassati, allora la parola diventa importuna, arrogante e, sia che biasimi sia che lodi, diventa parola che ferisce. Ci sono persone che si sentono chiamate a “dire la verità” a chiunque capiti loro tra i piedi, come esse dicono.

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