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Le storie e i personaggi di Annie Ernaux

— Sul serio le piace Via col vento?
— Moltissimo, ma il romanzo, non il film.

Annie Ernaux, seduta in un albergo di Trastevere insieme al suo editore e traduttore, Lorenzo Flabbi, ride di gusto. È una donna molto bella, oltre a essere una scrittrice imprescindibile. In Italia è arrivata tardi e grazie a lavoro accurato di questa piccola casa editrice romana, L’orma. Via col vento, scopro appena torno a casa e mi precipito su Amazon per comprarlo, è di Margaret Mitchell, che ha scritto solo questo libro ma ci ha vinto il premio Pulitzer nel 1937.

— L’ho letto per la prima volta a nove anni, ed è stata una rivelazione. Scarlett O’Hara è diventata la donna della mia vita. Ma negli anni ho cominciato a vergognarmene un po’, nel ricordo mi sembrava un libro troppo sentimentale. Così a 45 anni ho deciso di rileggerlo. Avevo ragione. Sono stata di nuovo sedotta da questa donna forte, che vuole salvare la sua terra a tutti i costi. Che arriva fino in fondo alle cose, ai suoi desideri. E mi sono detta che, se proprio dovevo scegliere un modello a nove anni, non avevo scelto male.

Il primo romanzo di Annie Ernaux che L’orma ha portato in Italia è stato Il posto, dove la scrittrice racconta la storia di suo padre. Ernaux è nata a Yvetot, in Normandia, da una famiglia di piccoli commercianti. La drogheria dei suoi genitori è quasi sempre al centro delle sue storie. Insieme alla madre, la sorella morta a sei anni che Annie non ha mai conosciuto, le scuole cattoliche. Parla solo di cose e persone che non ci sono più. Nei suoi libri i personaggi sono quasi dei “revenantes”. Ma quando uso la parola fantasmi, chiedendole di questa vocazione a richiamare le persone scomparse, lei dice che non è esatta

— I miei personaggi sono fantasmi ma non fantasmatici. Sono di carne, concreti.

Per quale ragione la sua famiglia di origine occupa tutto lo spazio, nelle sue storie, mentre non sappiamo quasi niente dei suoi, di figli?

Sono cresciuta in un contesto popolare, contadino. Non è la famiglia in quanto tale che volevo raccontare, ma la mia, per la sua particolarità. Mia madre era una donna molto forte e il rapporto con mio padre inusuale. Ma soprattutto, la mia non era una famiglia borghese. E c’è un’altra ragione ed è qualcosa che immagino di avere in comune con molte persone, e in particolare con altri scrittori: la coscienza che l’infanzia è il tempo più importante della nostra vita. L’esperienza di essere figlio e quella di essere genitore sono imparagonabili per intensità.

Nel suo romanzo che ha per tema la morte della madre, “Une femme”, scrive “mi sembra, adesso che scrivo di mia madre, di poterla a mia volta, mettere al modo”.

Quando scrivevo avevo infatti quell’impressione, di ri-mettere al mondo mia madre. E’ un’esperienza che soltanto uno scrittore conosce. Ripartire dall’infanzia della propria madre è folle, un’emozione fortissima. E farlo dopo aver perso la propria madre, dopo la sua morte, significa in qualche modo resuscitarla.

Uno dei temi più importanti della sua letteratura è quello della vergogna, e dell’esclusione. Un’esclusione sociale, che la identifica come una ragazzina “povera”, per esempio tra le altre ragazze del convitto cattolico. Questo sentimento fa pensare a uno straniero, a chi arriva da fuori  e non riesce o non vuole diventare come noi. Eppure questa vergogna è una delle ragioni per cui è diventata uno scrittore. Come si fa, dunque, a disinnescare la rabbia, a trasformarla in una forza positiva?

La vergogna sociale di cui parlo nel mio libro, “La honte” e in molti altri, somiglia, è vero, a quella di uno straniero. Ma a quei marocchini o nord africani che si sono integrati e sono diventati insegnanti, professionisti. E’ molto diversa da quella sentita da quella parte della popolazione francese che viene da fuori, e che non ha trovato il suo posto. Quelli che sono rimasti nei loro ghetti, nelle loro enclave. Un’esclusione quella, che non ha trovato le parole, e si è espressa nella radicalizzazione.

In La femme, lei racconta della sua esperienza in una scuola cattolica, un convitto.

Io ho avuto un’educazione cattolica integralista. Negli anni cinquanta, il mondo era diviso culturalmente in due: i cattolici e gli altri. Era davvero qualcosa che potremmo definire un fondamentalismo cattolico, non diverso da quello musulmano. La violenza contro i divorziati, la scelta di considerare nulli i matrimoni celebrati soltanto con rito civile. L’ossessione dei peccati della carne, del sesso. Io ho vissuto quel mondo, e mi sono resa conto molti anni dopo che non capivamo niente di quello che leggevamo, imparavamo a memoria il messale, esattamente come si fa col Corano.

Lei dice che non esiste uno letteratura femminile, ma esiste uno sguardo femminile sul mondo?

Sì, ma voglio essere chiara. E’ uno sguardo determinato da una dominazione. La donna era una creatura di casa, con un’esperienza del mondo interiore.  L’esterno era lontano, inaccessibile, non autorizzato. Più di quanto non valga la specificità del corpo, la maternità, la possibilità di mettere al mondo, conta, a mio avviso, questa condizione di “reclusione”. Questa eredità, che ricevevamo con l’educazione, non era né buona né cattiva, ma condizionava il nostro sguardo, il nostro modo di scrivere. Io, per esempio,  ho avuto paura di scrivere un libro come Gli Anni dove avrei parlato della guerra, della società. Come se, in quanto donna, non ne avessi diritto, Non avessi diritto di raccontare la Storia.

Dove sono cresciuta io, scrive, in quel tempo e quello spazio, quasi non c’erano parole per esprimere i sentimenti. Dei sentimenti non si parlava, non venivano espressi in nessun modo.

Le parole per dire l’amore, appartengono a un mondo borghese, anche letterario. Nella mia famiglia io non ho mai sentito la parola “amare”, mia madre non mi ha mai chiamato ma cherie. Avevamo dei vezzeggiativi, ma di un diverso ambito semantico.  Ma poulle, per esempio (mia polletta). Non esprimevamo i sentimenti, per questo non c’erano le parole giuste. Avevamo una sorta di pudore. Mi capita qualche volta di sentirmi dire che i miei libri sono impudichi. Me lo hanno detto a proposito di Passion simple, che parla di una passione. Ma non è il sesso impudico, ma i sentimenti, e le parole che li esprimono. Esprimere i sentimenti è impudico.

È vero che tra le cose che l’hanno influenzata nella scrittura de Gli anni, c’è il film Ballando ballando di Scola?

Vero, quando l’ho visto sono rimasta colpitissima. Il mio romanzo è un tentativo di restituire con le parole quella sensazione dello scorrere della storia, del fluire, perdere, ritrovare…