Rebecca libri

Faccia a faccia (Erio Castellucci, Cittadella, 2020)

Introduzione: una faccia sorridente sopra la mascherina

«Ho imparato a sorridere con gli occhi», ha dichiarato ai giornalisti uno dei medici impegnati in prima linea, all’uscita dal reparto ospedaliero trasformato in area covid già da fine febbraio 2020. Il sorriso è un’azione della parte inferiore della faccia, impedita però in quelle settimane dalla mascherina; medici e infermieri hanno perciò imparato a trasferirla agli occhi che, insieme alle mani pur coperte dai guanti, diventavano le parti più espressive del corpo umano. Erano, in certi momenti, l’unico legame con gli altri corpi umani, sofferenti e spesso morenti. Non sapremo mai con esattezza quante siano le persone colpite dalla pandemia: ne sono state segnalate, all’inizio dell’estate 2020, almeno nove milioni, più mezzo milione di morti per o da coronavirus. Ma chi può conoscere con precisione che cosa è accaduto e continua ad accadere nel cuore dell’Africa, dell’Asia o della foresta amazzonica? Sappiamo però che sono circa duecento solo in Italia i medici e infermieri morti a causa del contagio, e certamente occorre moltiplicare per dieci o venti questa cifra, per avere un’idea di quelli morti nel mondo.

Nella caverna di questo immenso dolore si sono immersi moltissimi angeli che hanno «imparato a sorridere con gli occhi». Non solo medici e infermieri, ma anche volontari, operatori sanitari, ricercatori scientifici, sindaci e amministratori locali, responsabili delle istituzioni, della società civile, delle associazioni e degli enti, sacerdoti e i ministri delle comunità, famiglie e assistenti domestiche, psicoterapeuti, docenti, forze dell’ordine, operatori sociali e della comunicazione, lavoratori impegnati nelle attività ritenute essenziali durante il lockdown… e tanti altri che si sono prodigati anonimamente per mantenere i contatti con le persone colpite, sofferenti, impaurite, povere. Un esercito di pace e consolazione, un grande solidale abbraccio che ha avvolto il mondo.

Tra le immagini di questo dramma planetario, rimarranno comunque incise nel cuore quelle che riprendono dal basso, dal livello del paziente steso sul letto d’ospedale, gli operatori sanitari raccolti in cerchio attorno a lui, con un sorriso che la mascherina non riusciva a coprire, un sorriso che spuntava dalle sopracciglia. Il viso concentrato nello sguardo; la faccia riassunta dagli occhi. Ora tutti dobbiamo imparare a sorridere con gli occhi, in attesa del rimedio universale contro il virus, se arriverà. La nostra faccia deve rimanere semicoperta, proprio nei momenti in cui la dovremmo esibire per comunicare: in fabbrica, nelle strade, in ufficio, a scuola, in chiesa. Solo per mangiare e bere, essendo la bocca l’unico strumento indispensabile, possiamo scoprire il volto: non per parlare, cantare, pregare; per queste azioni devono bastare gli occhi.

Eppure – mi sia permesso questo brutto gioco di parole – la faccia si riaffaccia. Che derivi dal verbo greco phaino (= apparire, manifestarsi) o dal verbo latino facere (= fare), la faccia indica la fattezza esteriore, l’aspetto visibile rilevato dal primo impatto. È sinonimo di viso, volto. Per estensione, può indicare una superficie: “sulla faccia della terra”, “l’altra faccia della medaglia”, “muratura faccia a vista”. In ogni caso, la faccia è coestensiva alla personalità: “con che faccia si presenta?”, “ha una faccia tosta!”. Se ho accettato la proposta di scrivere qualche pagina a partire dall’esperienza della pandemia, dopo le centinaia di migliaia, forse milioni, comparse in rete o sulla carta stampata, è perché ho deciso di “metterci la faccia”; non per tentare letture scientifiche, sanitarie, sociologiche, economiche o psicologiche – letture offerte da tanti specialisti competenti – ma per avanzare qualche provocazione teologico-pastorale, nella convinzione che «la realtà è più importante dell’idea», secondo l’assunto fatto proprio da papa Francesco1.

Il termine “spunti”, nel sottotitolo, non è la solita captatio benevolentiae dettata da falsa umiltà, ma esprime la convinzione – chi leggerà lo constaterà – che in questa fase (due o tre o altro…) convenga manifestare opinioni, avanzare benevole provocazioni, tracciare qualche possibile pista, piuttosto che impacchettare riflessioni ben definite o addirittura sentenziare. Come emergerà qua e là, non è mancato chi da subito ha espresso certezze, ha rivendicato sicurezze, ha attaccato chiunque la pensasse diversamente. Seguendo poi gli eventi, ha dovuto magari ricredersi, dimenticando però di scusarsi. Proprio il carattere provvisorio e temporaneo di queste pagine sconsiglia di appesantirle con molte citazioni, limitando al minimo i riferimenti2. Il genere letterario, dunque, è intermedio tra il saggio breve e il pamphlet, povero tuttavia di quelle marcature polemiche per le quali solitamente si caratterizza questo tipo di scritti.

La domanda di fondo che insieme ad altri mi sto ponendo in questi mesi come uomo, cristiano e ministro della Chiesa cattolica, è: «quando toglieremo le mascherine, che faccia avremo?». Per dirla in termini un po’ più eleganti: «il nostro sguardo esprimerà accoglienza o rifiuto?»; «il nostro volto saprà manifestare il sorriso o avrà i lineamenti della durezza?». Le mie provocazioni sulla faccia si riferiranno quasi esclusivamente all’aspetto pastorale, al volto delle nostre comunità cristiane, al viso che da credenti in Cristo sapremo offrire a coloro che cercheranno di incrociare i nostri sguardi, magari timidamente, dopo lo scossone della pandemia. I quattro brevi capitoletti, perciò, sono scanditi da quattro azioni implicanti proprio il volto: 1) l’affacciarsi, ossia l’incredulo e spaventato ingresso nella sofferenza e nella morte, attraverso la porta della pandemia; 2) il rinfacciarsi, cioè l’esercizio, ampiamente praticato anche dai cattolici, di polemiche, accuse e rivendicazioni; 3) l’interfacciarsi, ossia la riscoperta delle relazioni, purificate, con il Signore e con il prossimo; 4) il riaffacciarsi, o la ricerca di un volto comunitario più autentico, che possa testimoniare la bellezza della fede anche a chi si volge nuovamente alla Chiesa. Sarei già contento se questi spunti aprissero qualche interrogativo e provocassero qualche dibattito.

 

1 Cf. Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, del 24 novembre 2013, nn. 231-233: http://www.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazione-ap_20131124_evangelii-gaudium.html

2 Esiste ormai una letteratura consistente e, in buona parte, già di qualità sul “covid-19”. Personalmente sono debitore ad Avvenire, che dal 22 febbraio 2020 ha dedicato quotidianamente articoli molto interessanti all’argomento: farò riferimento ad alcuni di questi nel corso del volumetto. Ho letto con interesse anche numerosi contributi online, specialmente dalle riviste SettimanaNews, Viandanti, Il Regno. Alcune pagine fondamentali sono state scritte da papa Francesco, con i suoi interventi e le sue omelie. Si vedano le seguenti raccolte: Il contagio della speranza, Itaca, Castelbolognese 2020; La vita dopo la pandemia, LEV, Città del Vaticano 2020; Forti nella tribolazione (a cura del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede), LEV, Città del Vaticano 2020.