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Emily Dickinson, cuore in libertà

“Ho cercato, ed è stata una bellissima avventura”. Con queste parole Nicola Gardini si congeda dalla sua ultima prova di traduzione, consegnando al lettore un nuovo capitolo del suo intenso rapporto con la poesia di Emily Dickinson, ora disponibile in un grazioso volume dal titolo Il cuore in libertà (Salani Editore, 2017).

La grazia di queste pagine si palesa al primo sguardo garantendone la loro immediata fruibilità. Colpisce, per prima cosa, la misura, un piccolo canzoniere composto di appena 45 componimenti, senza pretese accademiche, sebbene sia dotato di bibliografia minima e qualche utile apparato, e senza vezzi narcisistici, breve è infatti la rituale nota del traduttore. Il libro sembra, invece, essere nato dal più autentico desiderio di libertà suggerito dalla Dickinson: «No Rack can torture me – / My Soul – at Liberty –» (ivi, poesia 384, vv. 1-2). Con questo incipit la poetessa proclama la sua ascesi artistica, ponendo la scrittura al confine tra corporeo e incorporeo: «Two Bodies – therefore be – / Bind One – The Other fly – // The Eagle of his nest / No easier divest – / And gain the Sky / Than mayest Thou» («Due corpi abbiamo allora – / Lega uno – l’altro vola – // L’aquila del suo nido / Più in fretta non si priva – / Di quanto possa tu – ivi, vv. 7-12).

Su questi stessi versi Gardini fonda la sua regola compositiva e morale, assimilando all’aerea visione dell’aquila la sua volontà di rendere altrettanto dinamica questa Dickinson italiana, senza paura di rinunce e di ostacoli insormontabili. Se per Natalia Ginzburg tradurre imponeva una doppia andatura, “essere cavallo e formica insieme”, per Gardini il paradosso è trasceso dall’ambizione di librarsi come l’aquila. E in questo compito tanto audace il rigore formale deve considerarsi l’altra faccia di quell’“l’impegno civile” che per Gardini è un elemento irrinunciabile del tradurre. Come lui stesso lasciava intendere in un originale saggio in versi, interamente dedicato all’argomento (Tradurre è un bacio, Ladolfi Editore, 2015), non si può essere traduttori senza innamorarsi dell’altro, ma neanche senza rivendicare per se stessi l’unicità (e la necessità, in quel dato momento) delle proprie scelte (si veda la poesia Basia, ivi, p. 115).

Cosa ha, dunque, spinto Gardini a ritornare alla tanto amata Dickinson, tradotta per la prima volta nel 2001 (Buongiorno notte, Crocetti Editore)? La presenza cospicua di nuove traduzioni e i cambiamenti apportati alle 12 poesie recuperate dal precedente volume, se da un lato danno conto del piacere dell’avventura, dall’altro impediscono al traduttore di sostare nostalgicamente su quel primo incontro, immortalato, peraltro, in un ricordo siciliano: «…Ah! gioia / Di tradurre la prima / Quartina e poi / La seconda da cima // A fondo e, infine, / L’intera poesia / Come ne stessi / Componendo una mia» (cfr. Emily a Mondello, in Tradurre è un Bacio, op. cit. pp. 24-25). Il movente dovrà cercarsi piuttosto nella sfida a raggiungere nuovi livelli di comprensione e di intimità grazie a una maturata etica della rinuncia.

Gardini rimane fedele all’idea di una metrica chiusa e al primato del ritmo, che già nel 2001 esercitava su uno spettro di risorse linguistiche e stilistiche ampliate dal contatto con le lingue antiche. Ma in questa seconda prova sembra più incline a riconoscere varie componenti ritmiche e varie modulazioni sonore: non solo accenti e sillabe, ma anche parole e pause, vuoti e pieni. Il confronto con i pochi doppioni mostra una maggiore attenzione alla sintassi e ai famosi trattini in modo che possano rendere, come lui stesso scrive, quella «musica minima», quel «ronzio» che sta prima dei messaggi verbali. Accanto a forme inconsuete, mantenute dalla prima edizione («La verde gente ne ha memoria / Nel caso che non muoia – / E foglie già perente / A postere stagioni – ridiranno – ») o a vigili slittamenti di senso lungo parentele etimologiche (come quell’“ignorant” giustamente reso con “ignaro”), in queste traduzioni Gardini non teme le rime, che talora si rincorrono a cascata, ed è attratto da componimenti iterativi di cui sa imitare la cantilena. Si vedano per esempio le due quartine del testo 111:

L’ape di me non ha paura.
La farfalla io conosco
Il bel popolo del bosco
Mi accoglie con premura –

Più forte ride il rivo quando vengo –
Le brezze giocano più spensierate;
Perché m’offusca gli occhi quel tuo argento,
Perché, giorno d’estate?

I ritmi infantili ben restituiscono il senso di sorpresa, da cui Gardini ammette di essere rimasto folgorato, e allo stesso tempo costruiscono un controcanto ingenuo e ridente al misticismo più cupo. Regina dell’ossimoro, infatti, Emily Dickinson muove i tasti dello stupore e del terrore sullo sfondo della natura, alternando dettagli minuti per evocare l’idea grandiosa dell’eterno e della morte. Tematicamente questa scelta di Gardini rivela anche la sua competenza in materia di fiori e piante, e un’adeguata sensibilità a raccontarne la bellezza, su cui ha probabilmente inciso la frequentazione intensa e purtroppo breve con la scrittrice, esperta di giardini, Pia Pera, alla cui memoria il libro è dedicato. Estremo tributo a questa amicizia, e desiderio di prolungarne il dialogo, è proprio la poesia 50, I haven’t told my garden yet, in cui Pia Pera aveva trovato il coraggio di raccontare la sua malattia (Al giardino ancora non l’ho detto, Ponte delle Grazie, 2016). Scorrendo queste pagine, si sente, dunque, che Gardini ha tradotto anche per e con l’amica scomparsa. Così, infine, l’impressione diffusa della grazia, di cui parlavo all’inizio, diventa una delicata e commossa pietasin grado di filtrare l’autobiografismo del traduttore e abituare gradualmente il lettore all’esperienza della perdita e del lutto. Con Emily Dickinson e con Pia Pera, Gardini ci regala una lezione di profondo stoicismo, attraversando il giardino fino ai boschi più incolti, ma insegnandoci comunque a riconoscere la bellezza nel fiore più umile: «Non noteremmo un tale fiorellino – / Non fosse che riporta  / All’erba zitto zitto / Quel poco che perdemmo di giardino».

Emily a Mondello

Che cosa assurda
Guardarla da lontano
Per anni e un giorno
Afferrarne la mano

E non volerla
Più lasciare e con quella
Incominciare
A dire: “Avevo nella

Mente…” Ah! gioia
Di tradurre la prima
Quartina e poi
La seconda da cima

A fondo e, infine,
L’intera poesia
Come ne stessi
Componendo una mia.

E non ci siamo
Separati un momento,
Nemmeno in sogno,
Finché furono cento

In poco tempo
Le poesie tradotte
E la mia casa
Si presero la notte

E il paradiso
E il topo e la genziana
E il vento e il ragno
E qualche folle rana.

(da  Tradurre è un bacio, Ladolfi Editore, 2015)

81

Non noteremmo un tale fiorellino –
Non fosse che riporta
All’erba zitto zitto
Quel poco che perdemmo di giardino

Così fragrante accenna un sì il garofano –
Così ubriaca va sbandando l’ape –
Così argentini cento flauti
Si spandono da un centinaio d’alberi –

Chi vede questo fiorellino
Rià l’apparizione
Dei bobolink intorno al trono
E agli aurei denti di leone.

255

Morire – ci si mette poco –
Dicono che male non faccia –
Si perde forza – piano piano –
E poi – nessuna traccia –

Un nastro scuro – per un giorno –
Un crespo sul cappello –
E poi il bel sole  torna –
E ci cancella il cervello –

L’assente – mistica – creatura –
Che non ci fosse stata tanto amica –
Arresa si sarebbe – al sonno eterno ­–
Senza fare fatica