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Comunicare o morire. In ricordo di Fatema Mernissi

Il viaggio, a un certo punto, diviene un atto necessario. Ineludibile, se si vuole affrontare la contemporaneità, arrivare alla fine del mondo, conoscere ciò che c’è oltre le colonne d’Ercole. Doveroso, se l’obiettivo è superare indenni i canti delle sirene. Il viaggio è riconoscere, con umiltà, che si ha bisogno di coloro che si incontrano lungo il cammino per leggere i segni della realtà, e comprendere dove sta andando il mondo.

Aveva – per questo – una bisaccia colma di miti e di storie, Fatema Mernissi. E uno sguardo limpido e aperto sulle strade, le segrete stanze, le periferie del suo Marocco. Fin troppo semplice – eppure così calzante – dedurre che il mito fondativo arabo di Shahrazād fosse stato un compagno fedele, nella vita di colei che ricorderemo come la più grande sociologa marocchina, una delle più grandi intellettuali mediterranee del XX secolo. I mille e uno viaggi della parola, costruiti con sapienza da Shehrazade, sono sempre stati il tratto distintivo dell’abilità affabulatoria di Fatema Mernissi, così come la cifra del suo lascito.

Il tema del viaggio – ricorrente a più livelli, anche attraverso i viaggi che la parola compie – sembra essere divenuto ancor più importante, quasi ossessivo, negli ultimi anni di Fatema Mernissi. La ragione fondante, a mio parere, sta in quella che lei definiva la vera rivoluzione degli ultimi anni. La rivoluzione digitale, una vera e propria rivoluzione antropologica. Ben prima che l’Occidente si accorgesse (in ritardo) dei giovani arabi attraverso le rivolte/rivoluzioni del 2011, Fatema Mernissi li aveva già individuati come i protagonisti della nuova epoca. Ne aveva seguito i percorsi nascosti, sconosciuti, periferici nei suoi viaggi attraverso il Marocco, narrati per esempio nel suo Karawan. Dal deserto al web, forse il meno conosciuto dei suoi testi, eppure il più visionario.

Visionaria lo era parecchio, quella sua indagine su una periferia marocchina, fatta di villaggi e località decentrate, che veniva considerata così ininfluente per le sorti sia del paese sia della regione. Lungi dal sentirsi soffocata dagli eventi che dall’11 settembre hanno sconvolto il mondo e la regione araba, Fatema Mernissi era al contrario convinta che “la rapida crescita della società civile umanizza lo spazio pubblico”, e lo scriveva pochi mesi dopo l’invasione anglo-americana dell’Iraq che, a cominciare dal marzo 2003, aveva segnato un prima e un dopo (terribile) nella storia araba. Lo scriveva da Essaouira e Marrakech, da Casablanca e Zagora. A prima vista, una scelta intimista. A ben guardare, l’affermazione visionaria che dalle periferie nascerà il futuro, perché è in quelle periferie, così lontane dai centri nevralgici del potere, che è possibile riacquistare una dimensione umanizzata delle relazioni sociali.

Sembra paradossale, è vero, dirlo oggi, all’indomani di un’altra dolorosa cesura nella storia, stavolta del mediterraneo. La vita e le carte d’identità degli attentatori del 13 novembre 2015 a Parigi parlano di periferie, e di un cortocircuito prevedibile nelle città europee. Eppure, la lezione di Fatema Mernissi si trova proprio in quell’indagine sul campo, su quella conoscenza diretta di ciò che si muove nelle tante “città invisibili” classificate da Italo Calvino.

Affascinata, come sempre, dalla commistione tra i miti antichi e la realtà più fisica e terrena, Fatema Mernissi ci ha in sostanza lasciato, con il suo viaggio carovaniero, il testamento culturale più difficile da onorare. E cioè seguire, nelle trame della periferia, il filo del futuro possibile. Proprio oggi, proprio qui, in uno spazio mediterraneo cui difetta la sapienza dei secoli passati. La visionaria Mernissi non era affatto naive: si rendeva conto della fase difficilissima in cui ci troviamo, non da mesi e non da pochi anni, ormai. Credeva necessari gli sconfinamenti, verso nord e verso sud, in nome di una interazione, di una osmosi, di una contaminazione che non è mai stata arrestabile. E che nel Mediterraneo è sempre stata realtà: tra Ulisse e Sindbad, per intenderci.

“Il confine ha sempre a che vedere con la violenza e l’esclusione”, diceva in una bellissima intervista rilasciata a Luciano Minerva a margine del Festivaletteratura di Mantova, edizione 2002. “Ogni volta che c’è un limite, se qualcuno mi dice che quel limite non va superato io dico: ah, qui c’è della violenza e dell’ineguaglianza. Qualcuno sta per dividersi il denaro o il potere per toglierlo a qualcun altro, ed per questo che è necessario creare una frontiera”. La frontiera di Lampedusa, delle banlieu. La frontiera dei conflitti feroci e reali. Il confine tracciato nei talkshow volgari e ringhiosi per dividere noi e loro, crocefissi e mezzalune. La frontiera di Brancaccio e di Molenbeek. La frontiera delle “zone verdi” e dei Palazzi. Il confine oltre il quale ci sono i presepi viventi, le famiglie dei rifugiati rifiutate dall’Europa.

Fatema Mernissi era visionaria, certo, perché non poteva far altro. “Io ho paura, certo, ma è proprio perché ho paura che voglio trasformare il mondo. E come me ce ne sono milioni”, diceva nella stessa intervista del 2002. Era convinta che la rivoluzione digitale fosse il dato nuovo in un mondo postindustriale, postmoderno, post-tutto. “Comunicare o morire sembra essere il destino di tutti i cittadini del mondo che non sono disposti a imbracciare un fucile”, scriveva nel suo Karawan, ormai più di un decennio fa, con una carica profetica che – oggi – fa rabbrividire.

Comunicare o morire, attraverso le mille trame della Rete che mettono insieme non solo psicopatici e terroristi, ma molto più spesso persone alla ricerca di un senso comune, di giustizia e diritti. Comunicare o morire, un imperativo categorico, legato con un volo per nulla pindarico a quel filo lontano, telepatico, con cui Penelope tesseva per riportare a casa il suo uomo, Ulisse, e proseguire la storia di Itaca. È proprio qui, in quel filo che Penelope tesseva e che tessevano – con altrettanta pazienza – le donne marocchine per fare i loro tappeti, che Mernissi rintraccia, ancora una volta, il pesante compito delle donne mediterranee. Il compito, duro e difficilissimo, di ricostruire una trama, e così facendo guidare verso la via d’uscita. Shahrazād, Penelope, Fatima, alla guida di una carovana stanca e afflitta, lungo sentieri invisibili, sino alle porte del mercato.