Rebecca libri

Storia della mia copertina

Una copertina vive di due aspetti complementari:  ha una valenza iconica di richiamo e seduzione nei confronti del lettore, ma è anche e forse soprattutto la prima informazione- un compendio, una summa grafica- di ciò che si trova all’interno del testo. Raggiungere un equilibrio spesso è difficile, così le librerie sono piene di copertine molto attraenti che non dicono nulla del libro o, al contrario, di copertine iper-corrette rispetto al contenuto ma di poco o nessuno appeal immediato. Per un momento Gli autunnali ha rischiato d’incorrere nel secondo difetto, quando in una prova si era pensato di poter utilizzare la fotografia di Jeanne Hébuterne, la stessa foto di cui si innamora perdutamente il protagonista del romanzo (il quale usa la compagna di Modigliani come un antidoto- in chiave feticistica- al suo matrimonio borghese e rassegnato). La foto della Hébuterne è molto forte, per di più metterla in copertina avrebbe significato dotare il lettore dello stesso strumento attraverso cui il protagonista impazzisce (o cerca d’impazzire), ma l’immagine (molto nota) rischiava di far assomigliare il romanzo a un saggio: un rischio che in casa editrice nessuno voleva correre.

Eppure all’inizio scegliere la copertina de Gli autunnali sembrava facilissimo. L’autunno a Roma può vantare una sterminata iconografia, da cui si può attingere con estrema libertà e creatività. Mi ero dovuto ricredere abbastanza presto. Sia l’autunno sia Roma vivono infatti dello stesso rischio: lo stereotipo. E’ quasi impossibile imbattersi in un’immagine davvero interessante, che non sia stata già vista o, al limite, anche solo già immaginata (meglio, supposta). Questo grande limite di una bellezza banalizzata- e perciò involgarita- mi obbligò a un fondamentale cambiamento percettivo rispetto alla scelta della copertina. Sia l’autunno che Roma (l’autunno romano, appunto) non sarebbero dovuti essere i diretti protagonisti della copertina, bensì restare sullo sfondo, o ancora più efficacemente essere soltanto evocati. Le primissime ipotesi riguardarono i dipinti di Gustav Klimt dedicati all’autunno, dove le foglie boschive diventano tappeti persiani, si trasformano in immagini che rasentano la pittura astratta, o anche alcuni lavori di Egon Schiele in cui la stagione viene stilizzata in modo che perda quel senso immancabile di déjà vu figurativo da “panchina con foglie cadute”. Dopo qualche riflessione però sia i quadri di Klimt che quelli di Schiele furono ritenuti, non a torto, troppo visti.

Dovetti tornare al libro, al suo senso profondo, alle sue ambizioni nascoste. Gli autunnali in fondo che cos’era, che cosa voleva? Era il tentativo di restituire, sfidando nientepopodimeno che Madre Natura, il ritmo di una stagione che diventa un tutt’uno con i protagonisti della vicenda amorosa posta in primo piano. L’amore, a dire la verità, cominciò a farsi largo e a reclamare tutto lo spazio, così mi indirizzai verso i grandi fotografi umanisti del secolo scorso e in particolar modo su Édouard Boubat. Alla fine però lo accantonai perché il suo lavoro non riusciva a comunicare l’eccezionalità dell’amore che viene raccontato ne Gli autunnali, un amore al tempo stesso carnale e spirituale, reale e immaginario (ad esempio la celebre foto di Boubat che ritrae una coppia abbracciata sulle spallette di un ponte racconta di un amore appassionato ma convenzionale, sebbene la posa renda i due innamorati, grazie anche ai soprabiti gualciti, una specie di gigantesca foglia d’acero in caduta libera sulla Senna). Per la stessa ragione, dopo averle seriamente prese in considerazione, scartai le fotografie di Mario De Biasi. Anche in quel caso, si dava conto solo di una dimensione dell’amore, quella naturalista, mentre Gli autunnali come detto si colloca tra mondo dei vivi e mondo dei morti, ed è una esperienza romantica, sì, ma è anche il superamento delle convenzioni tipiche del romanticismo. 

A seguito di alcune notti in bianco, finalmente spuntò lo scatto di Saul Leiter. Non era del tutto sconosciuto- io stesso l’avevo già visto in qualche gallery su internet- ma era l’incarnazione perfetta della storia d’amore e fantasmi che avevo scritto. Sunday Morning at the Cloisters (1947), questo il titolo, è una foto d’arte in bianco e nero, architettata in modo che tutto sembri naturale, quasi un lavoro da street photography anziché una messinscena. Il punto di vista è quello di un uomo- di lui vediamo solo una scarpa e la sua ombra- che incombe sopra una donna stesa a terra, la quale resta inerte, con un’espressione neutra, con un occhio tenuto aperto e sbarrato, e una mano a coprire il resto del volto (per ripararsi dal sole? Per proteggersi dall’uomo? Non lo sappiamo). Tutt’intorno, come sfondo, un campo senza fiori, con gli steli d’erba bruciati dal gelo (le due figure indossano bei vestiti autunnali). Ecco la tensione spinta al limite nei rapporti tra maschile e femminile, un uomo quasi invisibile (ma che c’è ancora di più proprio perché non si vede) e una donna che non è morta ma non è neppure viva, un perfetto revenant.

Dalla Fondazione Leiter mandarono una mail cordiale in cui dicevano che acconsentivano all’utilizzo dell’opera a patto che restasse esattamente com’era, non potevamo né ruotarla né scriverci sopra  (niente titolo e nome dell’autore, logo della casa editrice e via discorrendo). Le alternative che frettolosamente vennero trovate risultarono più deboli, meno giuste e meno incisive rispetto a Leiter, così la soluzione finale fu di ricorrere a un passepartout. Non restava che scegliere il colore della cornice. Il bianco era decisamente elegante ma forse avrebbe evocato uno scenario più invernale, mentre il colore rosso teneva insieme molto efficacemente la stagione autunnale e la passione amorosa, l’impasto di foglie e desiderio (e poi non era vero che avevo appena finito di leggere, restandone impressionato, L’odore del sangue di Goffredo Parise?).

Un ultimo dettaglio riguarda i materiali con cui è fatta la copertina. Per il passepartout è stata scelta una carta opaca e, all’opposto, per la foto una carta traslucida, in modo che la cornice non anneghi l’immagine, e che a sua volta quest’ultima restituisca l’idea di una fantasticheria, di una essenza materiale e immateriale al contempo (non solo alla vista, ma anche al tatto). Un effetto iconografico cangiante, ardente, non disgiunto da un certo gusto per la fumisteria.