Rebecca libri

Ho trovato Dio attraverso i suoi poveri, Dorothy Day, Libreria Editrice Vaticana, 2023

Nota del curatore

Questo primo libro di memorie sulla conversione di Dorothy Day fu edito nel 1938 da Preservation of the Faith Press. Attirò poca attenzione e finì per essere oscurato dalla pubblicazione, nel 1952, di Una lunga solitudine, la sua autobiografia più conosciuta. In essa Dorothy Day inserì questo breve riferimento alla sua opera precedente: «Quando scrissi la storia della mia conversione, dodici anni fa, lasciai da parte tutti i miei peccati e raccontai tutte le cose che portarono a Dio, le cose belle, i ricordi di Dio che mi avevano perseguitata, inseguita per anni; e così, quando nacque mia figlia, in gioiosa gratitudine mi rivolsi a Dio e divenni cattolica».1

Se letto alla luce del suo libro di memorie più famoso, è giusto considerare questo testo come una sorta di prima stesura. I due libri trattano una tematica simile: i primi anni di vita della Day, il coinvolgimento nei movimenti radicali del tempo e la successione degli eventi, tristi e gioiosi, che l’hanno portata a convertirsi al Cattolicesimo.

Questo primo libro di Dorothy Day, che il lettore ora ha in mano, non tace tutti i suoi peccati. Invece c’è un’omissione molto sorprendente, ovvero la scelta di concludere la narrazione prima del suo incontro fatale con Peter Maurin e del lancio del «Catholic Worker Movement», storia che invece occupa la terza parte di Una lunga solitudine. Ma quando scriveva questo libro di memorie, Dorothy Day aveva un intento più specifico. Rivolgendosi ai suoi ex compagni di sinistra, nella persona di suo fratello, cercava di spiegare come mai avesse abbracciato la fede cattolica, ovvero un atto che per loro era equivalso a un tradimento della causa radicale.

In questa conversione hanno giocato un ruolo molti fattori, tra cui l’esempio di alcuni cattolici che Day incontrò sulla sua strada. Fin da piccola aveva percepito che qualcosa le mancava: un senso di equilibrio e di ordine, l’apertura al trascendente. Per tutta la vita, scrive Day, era stata «tormentata da Dio» e dalla sensazione che l’esistenza dovesse contenere una dimensione più profonda e spirituale. Lo sperimentava nei momenti di sconforto, come per esempio i periodi di isolamento trascorsi in carcere, così come in momenti di gioia come la nascita della propria figlia. Fu quest’ultima esperienza, raccontata qui e annotata nei suoi diari del tempo, che alla fine la condusse all’atto di fede. Aveva trovato la perla preziosa per la quale era disposta a sacrificare tutto.

Ma tra le tante «cose che l’avevano portata a Dio», Day attribuisce un’importanza speciale alle sue esperienze vissute nel movimento radicale. Per anni si era mossa in una eclettica cerchia di socialisti, anarchici, letterati bohémien e ribelli di ogni specie, uniti soprattutto dall’opposizione allo status quo e dal desiderio di un mondo migliore. Diventando cattolica, Day decise di non voltare le spalle a tutto ciò che in questi principi era buono e nobile: lo spirito di solidarietà, il rispetto per i poveri e gli oppressi, la stima per la dignità del lavoro, la disponibilità a soffrire per una causa, lo spirito dell’idealismo e la capacità d’indignazione. Alla luce dei Vangeli, tutti questi aspetti trovavano un riferimento più ampio.

In una delle sue dichiarazioni più memorabili, Day afferma: «Meglio dire che l’ho trovato [Dio] attraverso i suoi poveri e in un momento di gioia mi sono rivolta a Lui. Ho detto, a volte con leggerezza, che la massa compiaciuta dei borghesi cristiani che negavano Cristo nei suoi poveri mi ha spinto verso il comunismo e che sono stati i comunisti e lavorare con loro a farmi rivolgere a Dio».

Sussiste qualche dubbio sul fatto che Day sia mai stata del tutto soddisfatta del titolo originale di questo libro. Suggeriva un abisso tra il mondo degli attivisti radicali, sintetizzato nel toponimo “Union Square”, e il mondo della fede, mentre in realtà la vita di Dorothy Day li ha messi in comunicazione. E il lancio stesso di «The Catholic Worker»,2 il 1° maggio 1933, avvenuto durante un raduno comunista a Union Square, ne è l’emblema più eloquente. 

Ma Day scelse di riservare quella storia a un altro libro. Simone Weil ha scritto un saggio su quelle che ha definito «le forme dell’amore implicito di Dio», tra cui l’amicizia, l’amore verso il prossimo, la bellezza del mondo e la pratica religiosa. In tutto ciò, ha affermato, sono contenute la grazia di Dio e la capacità di elevare l’anima, anche se Dio non viene esplicitamente riconosciuto. Tutte queste forme “implicite” sono presenti nella storia di Dorothy Day. Tuttavia in queste pagine lei ne aggiunge altre: la devozione verso i poveri e la passione per la giustizia. Citando il romanziere François Mauriac, Day scrive: «Non è in potere di alcuno, tra coloro che portano la carità nel cuore, di non servire il Cristo. Taluno che crede odiarlo gli ha consacrato la vita; poiché Gesù è travestito e mascherato in mezzo agli uomini, nascosto nei poveri, negli infermi, nei prigionieri, nei forestieri».3

In questo libro Dorothy Day delinea i passi attraverso i quali questo amore implicito di Dio si è esplicitato e come l’ha portata fino ad accettare la fede che le è stata «sempre nel cuore». Eppure, in ogni conversione c’è un elemento di mistero, un fattore che non può essere motivato o spiegato facilmente. Quanti suoi “fratelli” siano stati convinti da questo esercizio apologetico è impossibile a dirsi. Il mistero sta oltre le parole, come Day ha accennato in questa singolare attestazione che assomiglia da vicino a un enigma Zen: «L’esaltazione del raziocinio offusca il fatto che a questo mondo milioni di persone sentono e in qualche modo vanno avanti con coraggio anche se non sanno parlare o ragionare brillantemente. Tanto discorrere può offuscare tutto ciò di cui ora non sappiamo nulla, e chissà che invece non sia il silenzio a schiarirlo». 

Robert Ellsberg

1 D. Day, Una lunga solitudine. Autobiografia, 3a ed., Jaca Book, Milano 2020, p. 26.
2 «The Catholic Worker» è il nome del movimento fondato nel 1933 da Dorothy Day insieme a Peter Maurin, dedicato all’accoglienza dei poveri e senzatetto, e impegnato nella causa della giustizia sociale, cazione dell’omonimo giornale, di cui Dorothy Day è stata direttrice fino alla sua morte (1980).
3 F. Mauriac, Vita di Gesù, Mondadori, Milano 1974, p. 182

2
L’infanzia

Mi chiedi come sia accaduta questa svolta verso la religione e ne parli come se avessi dato le spalle alla vita, mentre ne ha fatto parte da sempre.

«Per tutta la vita sono stato tormentato da Dio», dice un personaggio in un libro di Dostoevskij. Anche a me è andata così. Noterai che cito molto spesso questo autore russo, lo faccio perché entrambi lo abbiamo letto. Inoltre lo menziono perché ha avuto una profonda influenza sulla mia vita, sul mio modo di pensare.

Devo tornare all’inizio, ai miei primi ricordi di Dio. Ci vorrà molto tempo per raccontarli. Ci riuscirei meglio nel corso di una di quelle lunghe passeggiate che tu e io amavamo fare attraverso l’East Side, lungo il fiume, a tarda notte, sulla neve e sul ghiaccio in inverno, camminando rapidi come se avessimo una meta; e invece l’unica meta che avevamo era di risolvere qualche nostro problema interiore. Ci sono state anche quelle giornate autunnali, giù in campagna, quando andavamo sul molo a pescare e ci stendevamo là, sul pontile, ad ascoltare lo sciabordio dolce delle onde sotto, nel buio. Bisognerebbe avere un’ambientazione di quel genere, per una storia così lunga.

È cominciato tutto in California, un anno dopo che la famiglia ci si era trasferita da New York. Vivevamo a Berkeley in una casa arredata, in attesa che i nostri mobili aggirassero Capo Horn. È stato una domenica pomeriggio, in soffitta. Ricordo che quel giorno c’era molto freddo, sebbene il giardino abbondasse di rose, viole e calle in fiore. Mia sorella12 e io ci eravamo fatte delle bambole con le calle, in cima all’elegante fiore allungato avevamo appoggiato dei boccioli di rosa a mo’ di testa. Poi avevamo estratto un profumo dai fiori, sminuzzandoli in una bottiglia con un po’ d’acqua. Ancora rammento quell’aroma particolare, delizioso, pungente.

E ricordo che dopo eravamo in soffitta. Ero seduta dietro un tavolo. Fingendo di essere l’insegnante, leggevo ad alta voce da una Bibbia che avevo trovato. Lentamente, mentre leggevo, in me si impresse una nuova personalità. Stavo per essere presentata a qualcuno e capii quasi subito che stavo scoprendo Dio.

So che davvero l’avevo appena scoperto perché ero enormemente entusiasta. Era come se la vita fosse più piena, più ricca, più emozionante da tutti i punti di vista. Era lì, Qualcuno che non avevo mai conosciuto, eppure sentivo che non lo avrei mai dimenticato, non me ne sarei più allontanata. Forse quel rapporto avrei potuto finire per metterlo da parte, o forse avrebbe assunto nuovi significati, nuovi aspetti, ma la vita non sarebbe mai più stata la stessa. Avevo fatto una grande scoperta.

Naturalmente avevo sentito parlare di Lui prima di quell’evento. Quando, prima di trasferirci in California i tuoi fratelli maggiori e io andavamo a scuola a Bath Beach, ogni mattina l’insegnante leggeva qualche passo dalla Bibbia. Noi chinavamo la testa sui banchi e recitavamo il Padre nostro. Avevo dimenticato questo dettaglio fino a questo momento, in cui lo sto scrivendo. All’epoca la cosa non mi impressionò e ora ricordo soltanto che nel rialzare la testa dopo la preghiera vedevo il mio fiato dissolversi sulla scrivania verniciata.

Nella nostra famiglia il nome di Dio non è mai stato menzionato. Mamma e papà non sono mai andati in chiesa, nessuno di noi figli era stato battezzato e parlare dell’anima era considerato sconveniente, più o meno come esporre alla luce qualcosa che era meglio rimanesse nascosto.

Ricordo tante impressioni vivide della prima infanzia. Immagini, suoni e odori. Mi sono piaciuti molto i miei primi anni. C’era così tanto da fare, giocare, divertirsi e leggere. Mi vengono in mente anche sofferenze acute, rimorsi per peccati infantili.

Ma di tutti quei primi anni non ricordo niente di Dio, se non quel rito abitudinario a scuola e quella preghiera recitata senza sentirla. È il ricordo di quella domenica pomeriggio che ora mi si staglia nella mente, in quella soffitta buia, quella sensazione ricca e profonda di avere in mano un libro che sarebbe stato con me per tutta la vita.

Già da molto mi ero appassionata ai libri, fin da quando avevo quattro anni. Ricordo i volumi che ho letto, le storie per bambini, l’affascinante Le mille e una notte che mi godetti quando avevo sei anni. Ma quella era la prima Bibbia che avessi mai visto. Era giunta insieme alla casa ammobiliata, e anche allora volevo tenerla sempre con me.

Poi nella memoria c’è un salto. Dev’essere stato poco dopo esserci trasferiti da Berkeley Oakland, sempre in California. I nostri mobili erano arrivati, ci eravamo stabiliti in un bungalow vicino a campi aperti e boschi. Le finestre davano verso le colline e gli incendi boschivi profumavano l’aria (sembrava che ce ne fossero di continuo) e coprivano di foschia i profili delle alture.

Non avevo portato con me la Bibbia. Di fatto sarebbero passati alcuni anni prima che ne riavessi una. Ma in una delle case accanto, lungo la strada, c’era una bambina di nome Naomi Reed. Aveva giusto la mia età e sua madre gestiva un negozio di alimentari vicino a casa sua. Aveva fratelli e sorelle, ma nessun padre. La signora Reed era vedova (la prima che avessi mai conosciuto).

Erano metodisti e frequentavano regolarmente la chiesa, e non molto tempo dopo iniziai ad andarci anch’io e a partecipare alla scuola domenicale con Naomi. Lì c’era anche una biblioteca che metteva a disposizione libri di devozione. Ma, soprattutto, c’era il canto degli inni. Mi deliziava il suono di una chiesa piena di voci che innalzano cori tristi o vivaci, ma sempre fervorosi. Mi entrava fino al midollo, mi faceva venire la pelle d’oca sulle braccia e mi provocava una sensazione di prurito sulla nuca. Diventai una frequentatrice assidua della chiesa.

Era quasi altrettanto bello sentire la signora Reed e i suoi figli quando cantavano l’inno serale, prima di andare a letto. Li amavo e li ammiravo tutti. Li vedevo come una famiglia esemplare per pace, unità e amore. Apprezzavo perfino la loro convinzione compiaciuta di essere tra i salvati, mentre noi, i non praticanti, eravamo nelle file dei dannati (insomma, sotto sotto non ci credevo affatto, ma faceva parte dell’atmosfera e come tale la prendevo). Riconoscevo che in loro c’era qualcosa che a noi mancava: un credo, una fede, e di conseguenza l’ordine e la tranquillità che derivavano da questa convinzione.

Poi Naomi smise di giocare con me perché qualcuno mi aveva sentito rivolgere una parolaccia a mio fratello maggiore (gliene avevo dette di tutti i colori) mentre litigavamo su di chi fossero certi porcellini d’India. Fui gettata nelle tenebre esterne. Non ero più benvenuta in chiesa. Non potevo più giocare conNaomi. Trovai rifugio in una tosta banda di ragazzi che avevano le case piene di carte divertenti, scappavano a Idora Park, restavano fuori dopo il tramonto e non si curavano delle loro madri; e fu un gran divertimento.

La sensazione fresca e deliziosa di annoverarmi tra i salvati non poteva durare. Era difficile tenere testa a tutta la mia famiglia. In ogni caso, non volevo essere salvata da sola. Forse era solo un gioco, un mantello, un indumento che la gente si mette e si toglie. Mi levai quel pensiero. Da allora non mi preoccupai più della Chiesa e della fede, fino a un anno più tardi, quando incontrai il mio primo cattolico. 

Siamo rimasti in California fino a dopo il terremoto che ci ha sbattuti verso est. Vivevamo a Oakland in quel periodo e, nonostante ricordi di aver pregato piena di paura qualche anno dopo, durante un temporale, non rammento di averlo mai fatto durante quel cataclisma, il terremoto. È un ricordo nitido. Avevo otto anni. Iniziò poco dopo le due del mattino, con un ruggito spaventoso dal profondo della terra. Durò due minuti e venti secondi, un tempo più che sufficiente a morire di paura, eppure non ricordo la paura. Probabilmente credevo di stare sognando o ero semicosciente. Quadri che cadevano dalle pareti, il letto che sobbalzava da un’estremità all’altra del pavimento lucido. Mio padre fece uscire i miei fratelli all’esterno e mia madre riuscì a portare mia sorella, Dio solo sa come, fuori dal bungalow. Credo che la prima scossa fosse finita prima che tornassero a prendere me.

Quello che ricordo più chiaramente del terremoto sono stati il calore umano e la gentilezza di tutti, dopo. Per giorni i rifugiati si riversarono fuori da una San Francisco in fiamme e si accamparono a Idora Park e al campo sportivo di Oakland. La gente arrivava in pigiama; c’erano anche neonati.

Fino allora la mamma si era sempre lamentata di quanto i californiani fossero gente chiusa, brontolava che se provenivi dall’Est ti snobbavano ed erano restii a fare amicizia. Ma dopo il terremoto la carità cristiana aveva allargato il cuore di tutti. La dura crosta della riservatezza e della diffidenza era caduta. Ogni persona era come un bambino traboccante di cordialità e di calore.

Mia madre e tutti i nostri vicini erano occupati dalla mattina alla sera a cucinare pasti caldi. Avevano regalato ogni indumento in più che possedevano. Per dare si spogliarono fino all’osso, senza curarsi del domani. In quella crisi, le persone si amavano. Si erano rese conto della loro impotenza mentre la natura «gemeva e soffriva». Era come se si fossero unite nella solidarietà cristiana. Viene da pensare quanto le persone potrebbero, se volessero, prendersi cura l’una dell’altra nei periodi difficili, senza giudicarsi, con pietà e con amore.

* * *

È stato a Chicago, dove ci trasferimmo in seguito, che ho incontrato il mio primo cattolico. Per la prima volta eravamo veramente poveri. Abitavamo in un appartamento sopra un negozio, in Cottage Grove Avenue. Era su un solo livello, non c’era un giardino, era opprimente. Il caseggiato si estendeva per tutto l’isolato e sul retro c’erano verande e cortili lastricati, senza mai un angolo di verde. Ricordo quanto agognavo i campi verdeggianti nella lunga estate calda che seguì. C’era una zona non edificata vicino al lungolago, dove spesso andavo con mia sorella e mi fermavo, in estasi, a sentire l’odore caldo e dolce del trifoglio selvatico e ad ascoltare il suono sonnacchioso dei grilli. Ma quello stesso desiderio di bellezza mi dava un piacere doloroso. Mi affinava i sensi e rendeva più avida e determinata la mia ricerca. La trovavo nel lago color grigio acciaio che si estendeva oltre i binari della Illinois Central. La trovavo in quel solitario campo di trifoglio. E ho incontrato un assaggio di bellezza soprannaturale nella signora Barrett, madre di Kathryn e di altri sei piccoli Barrett, che vivevano al piano di sopra.

È stata la signora Barrett a darmi il primo impulso verso il Cattolicesimo. Erano circa le dieci del mattino quando andai a chiamare Kathryn per dirle di uscire a giocare. Nella veranda e in cucina non c’era nessuno. I piatti della colazione erano stati lavati. Ogni stanza dava su quella successiva e quindi, convinta che i bambini si trovassero di là, mi precipitai nelle camere da letto.

Nell’ultima della serie, quella che si affacciava sul davanti, c’era la signora Barrett, in ginocchio, intenta a dire le sue preghiere. Si voltò per dirmi che Kathryn e i bambini erano andati al negozio e riprese a pregare.

Provai verso la signora Barrett un’esplosione calda di amore che non ho mai dimenticato, un sentimento di gratitudine e di felicità che riscalda ancora il mio cuore quando ripenso a lei. Aveva Dio e nella sua vita c’erano bellezza e gioia.

Quello che stava facendo me lo sono portato con me per tutta la vita. E anche se sono stata oppressa dal problema della povertà e dell’ingiustizia, anche se mi sono afflitta per l’orribile sorte che tocca a tante persone, anche se per lunghi anni mi sono aggrappata alla filosofia del determinismo economico per spiegare il destino dell’uomo, ci sono comunque stati dei momenti in cui, in mezzo alla miseria e alla lotta di classe, la vita è stata attraversata dalla gloria. La signora Barrett, nel piccolo e squallido appartamento di quel caseggiato, aveva finito di lavare i piatti della colazione alle dieci del mattino e si era messa in ginocchio per pregare Dio.

Anche la famiglia Harrington viveva in quel comprensorio di case popolari e contava nove figli, la più grande dei quali dodicenne. Era una bambina operosa, e mi veniva naturale provare grande ammirazione nei suoi confronti a causa della vita rigorosa che conduceva. Mi era venuto un desiderio, me lo ricordo, di fare una vita rigorosa. Avevo otto anni e avevo cominciato ad aiutare mia madre. Quella era stata la prima volta in cui la nostra famiglia (che per me era numerosa anche se eravamo solo in sei) aveva dovuto fare a meno di una domestica, e io e mia sorella fummo obbligate a contribuire alle faccende casalinghe, con la pulizia dei piatti e della casa. Ricordo la gioia che provai nel partecipare alle preoccupazioni della famiglia, nel fatto che i miei dipendessero da me per il mio aiuto. Presi molto sul serio la mia attività di lavapiatti e mi ricordo che strofinavo i rubinetti fino a farli brillare. Il lavoro era faticoso, naturalmente; non sempre aveva l’aspetto di un gioco. Ma andava fatto e dopo sei mesi mi ero ben abituata al dovere di fare la mia parte.

Ma godevo comunque di una enorme quantità di libertà rispetto alla piccola Mary Harrington, più grande di me. Poteva venire fuori a giocare la sera non prima di avere finito di rigovernare.

Spesso era talmente stanca che ci limitavamo a stenderci nella lunga veranda posteriore, a guardare il cielo. Ci mettevamo lì, lo sguardo verso l’alto, a contemplare la sola bellezza che la città aveva da offrirci, e parlavamo e sognavamo.

Non ricordo di che cosa parlassimo, ma rammento che una volta mi raccontò la vita di un santo. Non rammento quale, né alcuno degli avvenimenti che lo riguardavano. Ho in mente solo la sensazione di entusiasmo che provai e che il mio cuore quasi ardeva dal desiderio di prendere parte a una impresa così alta. Mi torna spesso in mente un versetto dei Salmi, rimodulato così da sant’Agostino: «Allarga il mio cuore, o Signore, affinché tu possa entrarvi»13. È stata una di quelle occasioni in cui il mio piccolo cuore si è allargato. Lo sentivo gonfiarsi di amore e di gratitudine verso un Dio così buono da darmi un’amicizia come quella con Mary, per il fatto di conversare con lei in quel modo, ed ero piena di elevate ambizioni di essere santa, era un protendermi spontaneo, il riconoscimento emozionante delle possibilità di un’avventura spirituale.

Anch’io volevo fare penitenza per i miei peccati e per quelli di tutto il mondo, perché avevo un acuto senso del peccato, dell’imperfezione naturale e umana. Spesso ho avuto la nitida sensazione di essere deliberatamente cattiva nei miei atteggiamenti, allo stesso modo in cui riconoscevo chiara la verità quando mi ci imbattevo. E il brivido di gioia che più e più volte ha smosso il mio cuore quando mi sono imbattuta nella verità e nella bellezza spirituali non è mai venuto meno, non mi ha mai lasciato mentre crescevo.

È triste che lo si incontri così di rado. La bontà naturale e la bellezza naturale portano gioia e innalzano lo spirito, ma non sono sufficienti, non sono la stessa cosa. Le emozioni speciali di cui parlo le ho provate solo ascoltando la Parola di Dio. Era come se ogni volta che sentivo parlare del nostro Signore mi riempisse una calda sensazione di gioia. Era come sentir parlare di qualcuno che ami e che ti ama.

12 Si tratta di Della, nata nel 1899. In questo libro l’autrice ha però scelto di alterare alcuni nomi di familiari. Quando Della verrà nominata, sarà designata come Grace, che in realtà è il nome della madre. Nella successiva autobiografia Una lunga solitudine, in questo e in altri casi Day utilizzerà i nomi effettivi.
13 «Allarga il mio cuore angosciato, liberami dagli affanni» (Sal 25,17). Sant’Agostino ne prende spunto per pregare: «Angusta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: allargala dunque» (Confessioni I, 5.6).