Damasco, giardino dell’Eden
Nel 1867 Mark Twain salpa da New York per un viaggio che lo porterà in Europa e Medio Oriente. Dai resoconti scritti in questi lunghi mesi, poi riuniti in un unico volume, nasce The Innocents Abroad, che divenne uno dei libri di viaggio più diffusi del suo tempo. Oggi, a 150 anni di distanza, le pagine dedicate alla Terra Santa vengono riproposte in una nuova e appassionante traduzione in grado di restituire a pieno lo stile dello scrittore americano: ironico, scanzonato e spesso “politicamente scorretto”.
Ribaltando le entusiastiche descrizioni dei suoi predecessori, l’Autore stravolge il ritratto romantico e quasi mitico della tradizione letteraria per abbandonarsi a descrizioni anticonvenzionali. Caduta l’aura di sacralità che da sempre circonda questa terra, svelate le “pie menzogne” dei pellegrini, ecco emergere una Palestina arida, bruciata dal sole, popolata di accattoni e mendicanti. Una terra difficile e “repulsiva”, ma al contempo ricca di testimonianze, in cui lo scettico Twain ritrova gli stessi personaggi, le stesse case, le stesse abitudini del racconto biblico, arrivando a leggerlo sotto una luce diversa.
Viaggio in Palestina | Twain, Mark | Terra Santa | 2017 | pp. 272 | 15.00 euro
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Damasco è bella, vista dalla montagna. È bella persino agli occhi degli stranieri abituati alla vegetazione lussureggiante, e non fatico a comprendere quanto sia stupefacente per chi è abituato a vedere soltanto l’aridità e la desolazione della Siria, un posto che sembra dimenticato da Dio. Mi viene quasi da pensare che, trovandosi davanti questo spettacolo per la prima volta, un siriano vada in un’estasi folle.
Dal punto sopraelevato in cui si trova, l’osservatore vede, davanti e sotto di sé, un muro di montagne tetre, prive di vegetazione, che risplendono crudeli sotto il sole; la parete racchiude un deserto piatto di sabbia gialla, morbida come il velluto, solcata in lontananza da linee sottili che fungono da strade e punteggiata da acari striscianti che sappiamo essere carovane di cammelli e viaggiatori. Nel bel mezzo del deserto si stende una chiazza fluttuante di fogliame verde, che al centro custodisce la grande città bianca, come un’isola di perle e opali che luccica in mezzo a un mare di smeraldi. Questa è la scena che si spalanca ai vostri piedi, attenuata dalla lontananza, glorificata dal sole, con forti contrasti che ne accentuano l’effetto, circondata e pervasa da un’atmosfera sonnolenta di quiete che la rende spirituale e più simile al bel solitario di uno di quei mondi misteriosi visitati in sogno che al ricco possidente del nostro globo volgare e noioso. E quando pensate alle leghe di paesaggio degradato, dannato, sabbioso, roccioso, arroventato, brutto, rozzo e ignobile che avete dovuto attraversare a cavallo per arrivare fino a qui, siete convinti che questo sia lo scenario più bello su cui occhio umano si sia mai posato in tutto il vasto universo! Se dovessi tornare a Damasco, mi accamperei sulla collina di Maometto per circa una settimana, poi me ne andrei. Non c’è bisogno di varcare le mura. Quando rifiutò di calarsi nel paradiso di Damasco, il Profeta si dimostrò saggio senza saperlo1. Secondo un’antica e onorata tradizione, l’immenso parco in cui sorge Damasco ospitava il giardino dell’Eden, e gli scrittori moderni hanno prodotto capitoli su capitoli per dimostrare che era davvero così, e che il Parpar e l’Abana2 erano i “due fiumi” che bagnavano il paradiso di Adamo. Sarà anche vero, ma adesso è tutt’altro che un paradiso, e fuori dalle mura si sta quasi meglio di quanto si possa stare al loro interno. Damasco è così sbilenca, angusta e sporca che non ci si capacita di trovarsi nella splendida città intravista dalla cima della collina. I giardini sono nascosti da alte mura di argilla e il paradiso di prima si è trasformato in una vera e propria fogna, sgradevole e inquinata. A Damasco, però, l’acqua abbonda, pura e limpida, e tanto basta a convincere gli arabi che la città sia bella e benedetta. C’è ben poca acqua, nell’arida Siria. Noi facciamo correre la ferrovia di fianco alle grandi città americane; in Siria costruiscono strade piene di curve, in modo che lambiscano le misere pozze che qui chiamano “fontane” e che, mentre si viaggia, si incontrano al massimo ogni quattro ore. Ma a Damasco scorrono i “fiumi” Parpar e Abana citati nelle Scritture (semplici ruscelli) e così ogni casa e giardino ha la sua fontana zampillante e i suoi rivoli d’acqua. Grazie alla foresta verde e all’abbondanza di acqua, Damasco dev’essere una meraviglia per il beduino che arriva dal deserto. La città è semplicemente un’oasi, né più né meno. Per quattromila anni le sue acque hanno continuato a sgorgare senza prosciugarsi e la sua fertilità non è mai venuta meno. Adesso si capisce come mai sia sopravvissuta tanto a lungo: non poteva morire. Finché le acque l’attraverseranno nel bel mezzo di quel deserto di sventura, Damasco sarà una benedizione per gli occhi del viandante stanco e assetato.
«Per quanto antica come la storia, sei fresca come un alito di primavera, rigogliosa come i tuoi stessi boccioli di rosa e fragrante come i tuoi fiori d’arancio, o Damasco, perla dell’Oriente!»3.
Damasco risale a prima di Abramo ed è la città più antica del mondo. Venne fondata da Uz, il nipote di Noè. «Le origini di Damasco sono velate dalle nebbie di un’antichità ancestrale». Se tralasciate i fatti citati nei primi undici capitoli dell’Antico Testamento, nel mondo non è accaduto niente che valesse la pena di essere ricordato senza che Damasco ci fosse già, pronta a riceverne notizia. Risalite quanto volete nel lontano passato e troverete sempre Damasco. Negli scritti di ogni secolo, per più di quattromila anni, è stato citato il suo nome e sono state cantate le sue lodi. Per Damasco gli anni non sono che istanti, e i decenni fluttuanti inezie temporali. La città non misura il tempo in giorni, mesi e anni, ma attraverso gli imperi che ha visto sorgere, prosperare e cadere in rovina. È un esempio di immortalità. Ha assistito alla fondazione di Baalbek, di Tebe e di Efeso; ha visto questi villaggi diventare città potenti e sorprendere il mondo con la loro magnificenza, ed è sopravvissuta tanto a lungo da vederli desolati, deserti e abbandonati a pipistrelli e gufi. Ha visto osannare l’impero israelitico e ha assistito al suo annientamento. Ha visto la Grecia sorgere, prosperare per duemila anni e poi morire. Era già vecchia quando ha assistito alla costruzione di Roma; l’ha vista oscurare il mondo con la propria potenza; l’ha vista scomparire. Per l’antica, austera Damasco, le poche centinaia di anni di supremazia e splendore di Genova e Venezia sono un insignificante sfavillio che a malapena merita di essere ricordato. La città è stata testimone di tutto ciò che è accaduto sulla terra, ed è ancora qui. Ha posato lo sguardo sulle ossa rinsecchite di mille imperi e prima di morire vedrà le tombe di altri mille. Anche se un’altra reclama il suo nome, solo l’antica Damasco è di diritto la Città Eterna.
Abbiamo raggiunto le sue porte proprio al tramonto. Dicono che di notte si possa entrare in qualunque città fortificata della Siria in cambio del bakshish4, ma non a Damasco. Con i suoi quattromila anni di rispettabilità, Damasco ha abitudini da parruccona. Qui non ci sono lampioni e la legge obbliga chiunque esca dalle mura di notte a portare delle lanterne, esattamente come accadeva ai vecchi tempi, quando gli eroi e le eroine delle Mille e una notte percorrevano le vie di Damasco o fuggivano verso Baghdad sui tappeti volanti.
Pochi minuti dopo che avevamo varcato le mura è calato il buio; abbiamo cavalcato a lungo su viottoli incredibilmente tortuosi, larghi da due metri5 e mezzo a tre metri e stretti su entrambi i lati dagli alti muri di argilla dei giardini. Alla fine siamo arrivati in un punto in cui si vedevano le lanterne guizzare qua e là e ci siamo resi conto di trovarci in una città antica e curiosa. In una stradina stretta, ostruita dai nostri muli da soma e da frotte di arabi rozzi, siamo scesi di sella e, passando per una specie di buco nel muro, abbiamo fatto il nostro ingresso in albergo. Ci siamo ritrovati in un cortile ampio e pieno di bandiere, circondato da fiori e alberi di cedro e dominato, al centro, da un’enorme cisterna che raccoglieva l’acqua di numerose tubature. Abbiamo attraversato il cortile e siamo entrati nelle stanze allestite per quattro di noi. In un vano con il pavimento di marmo posto fra le due camere c’era una cisterna piena dell’acqua fresca e limpida che fuoriusciva dai rivoli provenienti da sei tubi. Niente, in questa terra rovente e desolata, appare più rinfrescante di quest’acqua pura che brilla alla luce della lampada; niente appare così bello, niente suona più piacevole di questo simulacro di pioggia a orecchie non più abituate a suoni di tale natura. Le nostre stanze sono grandi, ammobiliate in modo confortevole e hanno persino i pavimenti ricoperti di soffici tappeti dalle tinte vivaci. È stato bello rivedere i tappeti, perché non credo proprio che esista qualcosa di più uggioso dei salotti e delle camere di Europa e Asia con i pavimenti di pietra che sembrano lapidi: vi fanno pensare costantemente a un sepolcro. Su un lato di ogni stanza era collocato un divano molto ampio, decorato a motivi vivaci, lungo circa tre metri e mezzo, quattro metri, e di fronte a questo c’erano dei letti singoli con materassi a molle. Inoltre c’erano grandi specchi e tavolini con il ripiano di marmo. Tutto questo lusso ha fatto bene al fisico e ai sensi logorati da un’estenuante giornata di viaggio, proprio perché non ce l’aspettavamo; del resto non si sa mai cosa aspettarsi, nemmeno da una città turca di duecentocinquantamila abitanti6.
Non lo so con certezza, ma credo che la cisterna collocata tra le due stanze fosse usata per attingere acqua potabile; la cosa tuttavia non mi è venuta in mente finché non ho immerso la testa bollente nelle sue fresche profondità. Allora ci ho pensato e, per quanto quel bagno fosse meraviglioso, mi è dispiaciuto di averlo fatto e stavo per andare a riferirlo al proprietario. Ma proprio in quel momento è arrivato zampettando un barboncino riccioluto e profumato che mi ha morso il polpaccio, e senza pensarci due volte l’ho scaraventato sul fondo della cisterna e, quando ho visto un inserviente arrivare con una brocca, me ne sono andato e ho lasciato lì il cagnolino che cercava di risalire senza riuscirci un granché. Quello che mi occorreva per sentirmi perfettamente felice era proprio una bella vendetta e, quando quella prima sera a Damasco sono andato a cena, sentivo di averla ottenuta. Siamo rimasti a lungo su quei divani, dopo cena, a fumare narghilè e chibouk dal lungo cannello, e a parlare dell’orribile cavalcata di quel giorno, ed è stato allora che ho capito una cosa che in realtà avevo già intuito altre volte, e cioè che vale la pena sfiancarsi, perché poi ci si gode molto di più il riposo.
Al mattino abbiamo mandato un inserviente a prendere i muli, e mi preme sottolineare che, per una cosa del genere, abbiamo dovuto inviare una persona. Ho già detto che Damasco è un vecchio fossile, e infatti lo è. Da qualsiasi altra parte saremmo stati assaliti da una legione vociante di mulattieri, guide, venditori e mendicanti, ma a Damasco la vista di un forestiero cristiano è talmente invisa che la gente non vuole avere niente a che fare con lui; appena un paio di anni fa, nelle sue vie avremmo potuto correre qualche rischio. Questo è il purgatorio maomettano più fanatico che esista al di fuori dell’Arabia. Laddove da altre parti si vede il turbante verde di un solo Hajj (ossia il segno distintivo del fatto che quel signore ha compiuto il pellegrinaggio alla Mecca), credo che a Damasco se ne vedano dodici. I damasceni sono le canaglie più brutte e spaventose che abbiamo mai visto. Tutte le donne velate che abbiamo incontrato finora, o quasi, avevano gli occhi scoperti,ma a Damasco molte di loro nascondono completamente il volto sotto un velo nero e stretto che le fa sembrare delle mummie. E se mai abbiamo colto di sfuggita un occhio scoperto, è stato prontamente celato alla nostra vista impura di cristiani; i mendicanti ci passavano accanto senza chiedere il bakshish; i mercanti dei bazar non ci mostravano la mercanzia e non gridavano «Ehi, John!» e neppure «Guarda, Howajji!». Al contrario, ci hanno semplicemente rivolto uno sguardo torvo e non hanno aperto bocca.
Le stradine strette pullulavano come alveari di uomini e donne in strani abiti orientali, e i nostri asinelli li urtavano a destra e a sinistra mentre cercavamo di fendere la folla, incitati dai nostri spietati mulattieri. Quegli aguzzini corrono dietro alle bestie urlando e pungolandole per ore di fila; mandano sempre il mulo al galoppo, eppure non si stancano mai, né rimangono indietro. Ogni tanto i muli cadevano e ci scaraventavano a terra, ma non c’era altro da fare che risalire in groppa e proseguire di gran carriera. Siamo stati sbattuti contro spigoli aguzzi, facchini carichi di mercanzia, cammelli e altre persone, ed eravamo così concentrati nel tentativo di evitare collisioni o incidenti che non ci siamo potuti guardare intorno neanche un po’. Abbiamo attraversato mezza città e la celebre «strada chiamata Diritta» senza vedere praticamente niente. Avevamo le ossa al limite della lussazione per i colpi ricevuti, eravamo fuori di noi per il trambusto e con i fianchi doloranti per tutte quelle botte. Non mi piace per niente andare in giro sui tipici tram di Damasco.
Eravamo diretti alle celebri dimore di Giuda e Anania. Circa milleottocento o millenovecento anni fa, Saulo, nativo di Tarso, aveva il dente avvelenato con la nuova setta dei cristiani, perciò partì da Gerusalemme e attraversò il paese per combattere una crociata furibonda contro di loro. Avanzava «sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore»7.
«E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Rispose: “Chi sei, o Signore?”. E la voce: “Io sono Gesù, che tu perseguiti!”».
E quando capì che era Gesù a parlargli, tremò e fu colto da immenso stupore, e disse: «Signore, che cosa vuoi che io faccia?».
E il Signore gli disse di alzarsi e di recarsi nella città antica, e là gli sarebbe stato detto cosa fare. Nel frattempo i suoi soldati erano ammutoliti e sbalorditi, poiché avevano sentito quella voce misteriosa, ma non avevano visto nessuno. Saulo si alzò e si accorse che la luce soprannaturale lo aveva accecato e che non ci vedeva più, perciò quelli, «guidandolo per mano, lo condussero a Damasco». E Saulo si convertì.
Paolo rimase tre giorni a casa di Giuda, senza mangiare né bere.
Poi un cittadino di Damasco, di nome Anania, udì una voce che diceva: «Su, va’ sulla strada chiamata Diritta, e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco sta pregando».
All’inizio Anania non voleva andarci, perché aveva sentito parlare di quel Saulo e nutriva seri dubbi sul fatto che un simile «strumento eletto» potesse diffondere il Vangelo di pace. In ogni caso, ubbidendo agli ordini del Signore, si recò nella «strada chiamata Diritta» (come fece a trovarla e, una volta arrivato lì, come sia riuscito a venirne fuori, sono misteri che possono essere spiegati solo con l’ispirazione divina). Anania trovò Paolo, lo guarì e lo trasformò in un predicatore; e da quella vecchia casa che abbiamo scovato a fatica nella strada erroneamente chiamata Diritta, Paolo iniziò una baldanzosa carriera di missionario che portò avanti fino alla morte. Non si tratta della casa del discepolo che vendette il Maestro per trenta denari d’argento. Mi sento di dare questa spiegazione per rendere giustizia a Giuda, che era un uomo ben diverso da quello a cui ho appena accennato: un uomo di tutt’altra specie, che viveva in una casa molto confortevole. È un peccato che non si sappia altro di lui.
Nei paragrafi precedenti ho fornito alcune informazioni aggiuntive per coloro che non leggono la Bibbia finché non vengono costretti a farlo da stratagemmi come questo. Spero che nessun amante del progresso e dell’istruzione voglia ostacolare la mia missione.
La strada chiamata Diritta lo è più di un cavatappi ma meno di un arcobaleno. San Luca sta ben attento a non sbilanciarsi; non dice che la strada è diritta, ma parla della «strada chiamata Diritta». È un bell’esempio di ironia; credo sia l’unica annotazione arguta presente nella Bibbia. Abbiamo percorso la strada chiamata Diritta per un bel tratto, poi abbiamo svoltato e ci siamo fermati presso la casa dove si ritiene che abitasse Anania. Non vi è dubbio che parte della dimora originale sia ancora al suo posto; si tratta di un vecchio locale posto da tre metri e mezzo a quattro e mezzo sottoterra, dai muri palesemente antichi. E se ai tempi di Paolo non ci viveva Anania, senz’altro ci ha vissuto qualcun altro, quindi va bene comunque. Ho bevuto un po’ d’acqua dal pozzo di Anania e, fatto alquanto curioso, era fresca come se il pozzo fosse stato scavato ieri.
Siamo usciti e ci siamo diretti nella parte nord della città per vedere il luogo dove in piena notte i discepoli calarono Paolo al di là delle mura cittadine8: predicava il Cristo a Damasco in modo così temerario che la gente cercava di ucciderlo, proprio come farebbe oggi per lo stesso crimine, perciò fu costretto a fuggire e a rifugiarsi a Gerusalemme.
Poi ci siamo recati sulla tomba dei figli di Maometto e su quella che, a quanto si dice, appartiene a san Giorgio, l’uccisore del drago, e poi via di nuovo verso un avvallamento sotto a una roccia nel quale Paolo si nascose durante la fuga finché i suoi inseguitori smisero di cercarlo; e infine al mausoleo dei cinquemila cristiani massacrati a Damasco dai turchi nel 18619. Dicono che per quelle stradine strette il sangue sia scorso per giorni e che uomini, donne e bambini furono trucidati indiscriminatamente e lasciati a decomporsi a centinaia per tutto il quartiere cristiano; dicono anche che la puzza fosse terribile. Tutti i cristiani che poterono uscire fuggirono dalla città e i maomettani, dal canto loro, non vollero lordarsi le mani seppellendo i “cani infedeli”. La sete di sangue dilagò anche sulle alture del monte Hermon e dell’Anti-Libano, e in breve tempo furono massacrati altri venticinquemila cristiani, le cui proprietà vennero devastate. Quanto odiano i cristiani a Damasco! E anche in quasi tutto l’Impero ottomano. E come la pagheranno cara, quando la Russia punterà nuovamente i cannoni contro di loro10!
È così confortante insultare l’Inghilterra e la Francia per essersi intromesse cercando di salvare l’Impero ottomano dalla distruzione che si è ampiamente meritata nell’ultimo migliaio di anni. Vedere questi pagani rifiutarsi di mangiare il cibo cucinato per noi, da un piatto in cui abbiamo mangiato noi, o di bere da un otre di pelle di capra che abbiamo reso impuro con le nostre labbra cristiane ferisce la mia vanità; bevono solo dopo aver filtrato l’acqua con uno straccio o una spugna appoggiati all’imboccatura! Il mio disprezzo per i cinesi non è niente in confronto a quello che provo per questi turchi e arabi ignobili e, quando la Russia sarà nuovamente pronta a dichiarar loro guerra, spero che l’Inghilterra e la Francia non riterranno di dover intervenire per buona educazione o buonsenso.
A Damasco pensano che al mondo non esistano fiumi belli quanto i loro minuscoli Abana e Parpar. I damasceni ne sono sempre stati convinti: in 2Re 5, Nàaman si vantava di questi fiumi in modo esagerato, e sono passati tremila anni. Diceva: «Forse l’Abana e il Parpar, fiumi di Damasco, non sono migliori di tutte le acque di Israele? Non potrei bagnarmi in quelli per essere guarito?». Ma alcuni dei miei lettori potrebbero aver dimenticato chi fosse questo Nàaman vissuto tanto tempo fa: era il comandante dell’esercito siriano, favorito del re, e viveva nel lusso. «Era un personaggio autorevole (…). Ma questo uomo prode era lebbroso». Curiosamente, quella che oggi viene indicata come la sua dimora è stata trasformata in un lebbrosario, e i pazienti, ogni volta che entra uno straniero, mostrano le loro orribili deformità, sollevano le mani e implorano il bakshish.
È impossibile capire fino in fondo quanto sia spaventosa questa malattia finché non la si vede in tutto il suo orrore nell’antica dimora di Nàaman a Damasco. Ossa storte e deformi, noduli giganteschi che spuntano sul viso e sul corpo, giunture putrefatte che penzolano… è terribile!
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1) La leggenda vuole che Maometto, guardando Damasco dall’alto, si rifiutasse di vistarla perché era bella come il paradiso, ed era là che lui voleva goderne.
2) Si tratta probabilmente dell’odierno Barada, il fiume principale di Damasco.
3) La citazione ricorre nei testi di varie guide di viaggio dell’epoca di Twain, ed è attribuita a un ignoto autore siriano.
4) Mancia, elemosina.
5) Per chiarezza, si è scelto di convertire le unità di misura anglosassoni originali: i “piedi” in metri, i “pollici” in centimetri e le “miglia” in chilometri.
6) All’epoca in cui Twain la visitò, Damasco faceva parte dell’Impero ottomano e contava circa 140.000 abitanti.
7) Qui e nei capoversi successivi Twain riporta diverse citazioni dal capitolo 9 degli Atti degli apostoli.
8) Cf 2Cor 11,32-33.
9) I massacri avvennero in realtà nel 1860; le vittime furono circa un migliaio.
10) La guerra di Crimea fra l’Impero russo e quello ottomano (sostenuto da Francia e Gran Bretagna) cui fa riferimento Twain fu combattuta dal 1853 al 1856 e si concluse con la sconfitta del primo. Un secondo conflitto russo-turco (senza interventi da parte di Francia e Gran Bretagna) sarebbe scoppiato nel 1877, con esito opposto.