In Pakistan rinasce il patriarcato letterario
Quando il romanzo emerse per la prima volta come forma letteraria, molti lo guardarono con sospetto. Il timore era che la lettura per diletto, diversamente dai testi religiosi scritti con un proposito morale, possedesse una natura sovversiva capace di creare dipendenza.
Alle donne, in particolare, era proibito leggere romanzi. Quando si ribellavano alla famiglia, rifiutavano di sposarsi o non ricoprivano il ruolo arrendevole che si pretendeva da loro nell’Inghilterra vittoriana, la colpa veniva data ai romanzi, o meglio all’amore delle donne per i romanzi.
All’epoca si credeva che pensieri “sbagliati” nella testa femminile causassero la fine della moralità, influenzassero il carattere dei bambini e la sacralità della vita domestica a cui le donne erano relegate.
L’emancipazione perduta
Nei suoi primi anni di vita, il romanzo urdu si era effettivamente dato il compito di essere sovversivo. Il subcontinente era occupato dai britannici e la società musulmana era generalmente demoralizzata, incapace di credere nella possibilità di un cambiamento o nella mutazione delle proprie condizioni. I primi romanzi urdu rappresentano una testimonianza e una cronaca dell’epoca e degli sforzi degli autori per catturarne i sentimenti e instillare l’idea di cambiamento. Munshi Premchand e Nazir Ahmad ci hanno lasciato ottimi esempi.
In tempi più recenti, quando l’India stava per essere divisa a metà e presero in mano la penna grandi donne come Ismat Chughtai e Qurratulain Hyder, il piano sovversivo è diventato subito il piano del femminismo. Shama, la coraggiosa eroina di Terhi Lakeer, di Ismat Chughtai, è un’icona di ribellione, decisa a non permettere che i costumi di una società stagnante determinino la sua vita o le sue scelte. Una femminista prima del femminismo.
Oggi il romanzo urdu presenta ancora protagoniste femminili. La scrittura contemporanea di Umera Ahmed e Nimra Ahmed, spesso adattata per la televisione, introduce come personaggi principali donne che scivolano dentro e fuori le scene attorno a loro. Ma sono donne molto diverse da quelle dell’epoca di Shama. Anziché essere ribelli o offrire un’alternativa ai costumi dominanti della contemporaneità, incarnano un clima reazionario. Queste donne sbagliano e soffrono, e il loro destino ci ricorda cosa accade alle donne che non s’inchinano alla moralità tradizionale.
La religione incombe costantemente, e la debolezza di queste donne deriva spesso dal fatto che non ne seguono il credo alla lettera e nello spirito. La prima moglie che non permette al marito di prenderne una seconda non è un normale essere umano, ma una creatura che manca di devozione e che, incapace di sposare i princìpi della sua fede, provoca innumerevoli sofferenze alle persone che la circondano.
La doppia prigione
Le donne non sono le uniche a scrivere questo genere di storie di finzione urdu, ma le più importanti autrici di questi romanzi meritano particolare considerazione per il semplice fatto che, da donne, utilizzano le loro parole per limitare le possibilità delle altre donne.
Prendiamo, per esempio, la prima scena di una storia di Umera Ahmed intitolata Bas ik dagh nadamat (Solo una macchia di vergogna). La protagonista, Momal, apre il cancello di una casa (che un tempo è stata la sua casa) ed entra dentro. Si siede in veranda e comincia a piangere pensando ad altri ritorni meno tristi. Il lettore ci mette un po’ prima di scoprire la causa della sua tristezza e quanto tempo è rimasta lontana da casa.
Per ottenere questa informazione, facciamo conoscenza con due cognate di Momal, che fanno capolino dalla finestra della veranda e subito le infliggono crudeltà e punizioni. Momal manca da casa da tre giorni. Dicono che è “scappata” anche se lei ripete di essere stata rapita. Il concetto di fondo è che non importa quale sia la verità. La macchia resta. Una ragazza che, per qualsiasi motivo, manca da casa per così tanto tempo, infanga la sua reputazione e quella della famiglia, dei suoi fratelli lavoratori e delle loro idee moraleggianti.
Scene simili si ripetono sugli schermi televisivi tutti i giorni, tutto il giorno, prodotte dalle decine di canali dedicati interamente a questo tipo di finzione e pagate da inserzionisti che vogliono vendere sapone, creme schiarenti, olio da cucina, caramelle e tutti gli altri prodotti che comprano le donne.
L’obiettivo di tutta questa finzione è creare donne arrendevoli talmente ossessionate dalle proprie imperfezioni da presumere che gli uomini attorno a loro, in confronto, siano perfetti. La fede e la morale sono somministrate in dosi massicce. Il sapore dominante è dato dalla volontaria sottomissione e dal riconoscimento delle proprie inevitabili mancanze. Ogni sforzo di ribellione provoca terrificanti conseguenze. L’unica opzione è il pentimento. La castità (eterno presupposto dell’innocenza) non può mai essere ripristinata, ma alla fine il prodotto venduto è un’eroina disperata che “ha imparato la lezione”.
Non tutti i romanzi raggiungono lo schermo, ma come ha sottolineato l’autrice e studiosa Ayesha Siddiqa in un recente saggio sulla letteratura di finzione urdu, hanno un pubblico vasto. I singoli volumi hanno un prezzo che varia delle cinquecento alle cinquemila rupie.
I vittoriani temevano che il romanzo facesse venire strane idee alle donne sulla possibilità di prendere autonomamente le proprie decisioni, scegliersi il marito e determinare la propria istruzione. I pachistani, soprattutto le donne, dovrebbero preoccuparsi e non poco, perché oggi i romanzi urdu più popolari distruggono queste idee nella mente delle donne che li leggono (e anche la possibilità che queste idee esistano). Una brava moglie è una moglie obbediente, la cui vita trascorre al servizio della mentalità patriarcale che ha governato il Pakistan fin dai suoi albori e che ora ha soggiogato una forma letteraria un tempo sovversiva.