La smania di pubblicare i libri ripudiati dagli autori
Virgilio poco prima di morire chiese che l’Eneide, priva degli ultimi ritocchi, venisse distrutta nel caso non fosse riuscito a completarla. Boccaccio, verso la fine della vita, colto da una crisi religiosa, si narra volesse bruciare ogni suo scritto, incluso il Decameron. E Franz Kafka si fece promettere dall’amico Max Brod di distruggere le sue opere incompiute. Oggi dobbiamo ringraziare coloro che disubbidirono agli autori. Ma di fronte ad alcuni recenti casi di cronaca editoriale – la pubblicazione del sequel del Buio oltre la siepe di una Harper Lee che non si capisce quanto sia in grado di intendere e volere, e l’uscita negli Stati Uniti dei racconti giovanili che Truman Capote non si sognò mai di raccogliere in volume – è utile chiedersi se pubblicare sempre e tutto di tutti sia la scelta migliore. Certo, da una parte esiste un diritto dei lettori a godere di ogni testo che l’Autore ha lasciato dietro di sé. Dall’altra c’è il dovere di studiare l’opera omnia, in qualsiasi sua forma, da parte della filologia «riesumatrice». E dall’altra parte ancora appaiono legittime le esigenze commerciali di editori ed eredi (a volte benemeriti, altre sciacalli). Ma il dubbio rimane.
Forse alcune pagine inedite, pur di prestigiose firme, sarebbe meglio rimanessero tali. Esempi? Parecchi. In sostanza tutto ciò che il figlio di Tolkien, Christopher, oggi novantunenne, ha pubblicato mettendoci più o meno pesantemente mano a partire dal 1977 con Il Silmarillion, che il padre non avrebbe voluto fosse dato alle stampe. Infatti finché fu in vita lo tenne nei cassetti. Certo, non si tratta di opere esplicitamente rigettate, ma di appunti, pagine abbozzate, testi incompleti che il padre del Signore degli anelli, pignolo e perfezionista, non aveva previsto per la pubblicazione. Libri utili agli studiosi per capire come lavorava Tolkien, benedetti dai fan golosi di inediti, ma (forse con l’eccezione de I figli di Húrin, composto da due parti per le quali il figlio Christopher ha scritto un raccordo «logico») poco significativi dal punto di vista letterario. Stesso discorso per i romanzi realistici di Philip K. Dick dati alle stampe dopo la sua morte nel 1982: scritti prima del suo straordinario successo con i libri di fantascienza, se li vide rifiutare da tutti gli editori a cui mai più li sottopose, neppure quando ormai vendeva moltissimo. E vista la bassa qualità di quei titoli, fece bene. Ogni volta che ne esce uno ci guadagnano gli eredi, ma ci perde Dick.
A proposito di figli ed eredi. Vero all’alba, romanzo autobiografico di Ernest Hemingway, fu composto (per alcuni abbozzato) fra il 1954 e il 1956 al ritorno da un safari in Kenya. Il dattiloscritto, custodito per molti anni nell’archivio delle opere non consultabili della Kennedy Library di Boston, fu recuperato dal figlio Patrick che ne curò personalmente un’edizione nel 1999. L’operazione suscitò dubbi e polemiche. Così come lasciò perplessi la decisione di Dmitri Nabokov, figlio di Vladimir, di pubblicare nel 2009, postumo e incompleto, il romanzo L’originale di Laura cui stava lavorando il padre all’epoca della morte, nel 1977, disobbedendo alle indicazioni che lo stesso Nabokov aveva seminato tra le righe del meraviglioso La vera vita di Sebastian Knight: «… perché egli apparteneva a quel raro genere di scrittori i quali sanno che nulla deve più rimanere tranne l’opera compiuta: il libro stampato; che la concreta esistenza del libro è incompatibile con quella del suo spettro, del manoscritto grezzo che ostenta le proprie imperfezioni ; e che per questa ragione gli scarti della bottega, nonostante il loro valore sentimentale o commerciale, non devono mai sopravvivere». Scarti di bottega, dice così. Ogni commento è superfluo.
Ed è stato superfluo o essenziale pubblicare i dieci racconti a tema irlandese raccolti sotto il titolo Finn’s Hotel scritti (ma mai dati alle stampe) da James Joyce subito dopo l’uscita dell’Ulisse e prima di addentrarsi nella impenetrabile foresta letteraria di Finnegans Wake? Nel 2013 Denis Rose, un veterano della critica joyciana, scaduti i diritti d’autore, tirò fuori i racconti inediti dai cassetti e li fece pubblicare dall’editore Ithys Press (in Italia uscirono da Gallucci, in una peraltro ottima edizione). L’operazione, neanche a dirlo, fu venduta alla stampa, e da questa rilanciata, come una sensazionale «scoperta letteraria». Ma la critica più accreditata la contestò duramente: i racconti erano «brutte copie» che l’autore non desiderava pubblicare.
E a proposito di giganti del ‘900, cosa succederà quando inizieranno a uscire gli inediti finora nelle mani degli eredi di J. D. Salinger? Davvero ogni cosa che verrà alla luce ha avuto il benestare dello scrittore? Quando, nel 1997, una minuscola e sconosciuta casa editrice italiana, la Eldonejo, pubblicò il racconto lungo Hapworth 16, 1924 apparso fino ad allora solo sul New Yorker il 19 giugno 1965 (e poi mai più ristampato per volontà dello stesso Salinger), si scatenò l’inferno. Il libro, tradotto da una ragazza laureatasi con una tesi su Salinger e stampato senza diritti di pubblicazione, fu ritirato dopo la prima edizione di duemila copie e sparì dal mercato. E forse, ancora una volta, è meglio così. Testamenti traditi. Milan Kundera ha scritto molto su come e perché alcuni scrittori siano stati traditi. Da biografi, traduttori, critici. E una forma di tradimento è anche pubblicare pagine di chi in vita quelle pagine non volle dare in pasto al pubblico.
Il Libro Rosso di Carl Gustav Jung non avrebbe mai dovuto essere pubblicato secondo l’autore, eppure è uscito in pompa magna in mezzo mondo nel 2009. Andrea Emo non intendeva lasciare nulla: ma da anni leggiamo i suoi libri. E La volontà di potenza di Nietzsche curata dalla sorella? E i nostri scrittori? Nel 1993 Einaudi pubblicò i racconti scritti da Cesare Pavese tra i 17 e i 25 anni, nati dal romanzo appena progettato ma mai scritto Lotte di giovani. L’italianista Ermanno Paccagnini sul Domenicale del Sole-24 ore, sotto il titolo Inediti e inutili, li stroncò duramente: «Una raccolta di pessimi racconti che lo scrittore ebbe l’intelligenza di non pubblicare ma non la lungimiranza di distruggere». Stessa cosa potrebbe valere per il primo romanzo di Guido Piovene, Il ragazzo di buona famiglia, apparso da Rizzoli nel 1998, testo che forse può dire qualcosa agli studiosi, non certo al lettore comune. E stessa cosa, ancora, per il romanzo postumo di Goffredo Parise L’odore del sangue: scritto di getto («bozzetto primitivo», disse certa critica) nell’estate del 1979, fu subito impacchettato, piombato con ceralacca e nascosto in un cassetto. Lì rimase dimenticato e rimosso, fino al 1986. Quell’anno Parise aprì il pacchetto, rilesse il libro, non toccò nulla. E morì poco dopo. Nel 1997 il romanzo uscì da Rizzoli con prefazione di Cesare Garboli. E molti si chiesero se fosse davvero quello che Parise desiderava.