Rebecca libri

Perché leggere?

Qual è il fine della lettura? La parola contenuta nel testo biblico possiede la capacità di operare una trasformazione, un mutamento nella persona e nella vita di colui che legge e che ascolta. Leggere è, infatti, accettazione di una ricerca, di una discussione, di un confronto che include la convinzione di non essere possessori della verità: è vivere un momento di passaggio, un’aporia, una crisi. Leggere significa accettare un’ospitalità, richiede la disponibilità allo stupore, implica infine la gratitudine. Ecco qui un percorso alla scoperta della lettura e del rapporto con il libro, attraverso la sapienza degli antichi.

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INTRODUZIONE
Ti chiedo di non disprezzare, da ingrato, la fatica dello scrivere, l’energia che ci vuole per salmodiare, l’applicazione e la cura necessarie per la lettura. Queste parole di Rabano Mauro, dotto monaco carolingio, testimoniano di un atteggiamento fondamentale cui è chiamato il lettore, ogni lettore: quello del non disprezzo e dunque, sostanzialmente, della gratitudine. Gratitudine forse da intendersi in un duplice senso: sia nei confronti di chi ha compiuto la fatica di scrivere, e del quale il lettore può beneficiare, sia nei confronti della possibilità stessa, per il soggetto che legge, di poter scrivere e quindi di poter essere letto. Tale gratitudine si manifesta anche attraverso l’applicazione (studium) e la cura, la custodia, la diligenza, la responsabilità nei confronti delle parole che si scrivono e che si leggono, come una sorta di atto con cui si prendono in carica, con attenzione e rispetto anzitutto per il significato di cui sono portatrici e per l’aiuto che esse possono offrire a chi le legge.

Non solo, ma per Rabano Mauro le parole in quanto lette manifestano il loro valore anche solo per il fatto che implicano un coinvolgimento dell’umano più completo di quanto, invece, possano supporre le immagini, le raffigurazioni, i dipinti: questi ultimi, infatti interpellano solo la vista, mentre le lettere dell’alfabeto coinvolgono le orecchie, le labbra, lo sguardo. Forma che invita a un’assunzione responsabile, estetica che implica un’etica.

È questa gratitudine e questa consapevolezza della dignità e del valore della scrittura e della lettura che è rinvenibile anche in un altro scritto, anch’esso di un dotto monaco, italico, del vi secolo: Cassiodoro, il quale esprime tale suo apprezzamento mediante la lode di quello che è stato uno dei principali supporti per la scrittura dell’antichità, e che sembra fosse ancora tale nell’Italia di quel periodo: il papiro.

L’ingegnosa Menfi concepì un’opera veramente bella: rivestire tutti gli archivi con ciò che l’elegante fatica di un unico luogo aveva tessuto. Sorse nel Nilo una selva senza rami, un bosco senza fronde, un campo di acque, una bella chioma di paludi, più tenera dei virgulti, più dura delle erbe, non so di quale vacuità piena e di quale pienezza vuota, tenerezza che si imbeve, legno spugnoso, che generalmente ha nella corteccia il vigore di un frutto, nel midollo un che di tenero, un’altezza leggera ma che si contiene, bellissimo frutto di una brutta inondazione.

Che cosa nasce, infatti, di simile in un qualsiasi genere di coltivazione, ove vengano conservati i pensieri di gente accorta? Erano in pericolo, prima di esso, le cose dette dai sapienti e i pensieri degli anziani, poiché, per quanto velocemente potessero venire scritti, quanto poteva giovare l’inadatta durezza della corteccia? Certo, l’ardore del cuore sopportava gli inopportuni indugi, ma mentre le parole venivano differite era inevitabile che l’intelligenza perdesse slancio.

Per questo nell’antichità anche gli opuscoli degli avi vennero chiamati “libri”; e anche oggi definiamo abitualmente “libro” le pellicole di un legno verde. Lo confesso, era indecoroso affidare dotti discorsi a tavolette non levigate, e imprimere su rami vecchi e secchi quanto un’intelligenza raffinata poteva trovare. A causa delle mani affaticate colui al quale una tale pagina si offriva istruiva il pensiero con poche cose, né si sentiva invitato a dire di più. Ma questo fu quanto si addiceva agli inizi, quando il rude principio dovette avere uno strumento tale da stimolare l’ingegno dei posteri. Si parla molto dell’invitante bellezza delle carte là dove non si teme che la materia di [cui tratta la presente] clausola venga sottratta.

Essa, infatti, con il suo dorso candido apre uno spazio a quanti parlano, è sempre copiosamente disponibile e, affinché sia maneggevole, la si raccoglie avvolgendola in se stessa, mentre viene svolta per [contenere] lunghi trattati. Giunture senza fessure, continuità quanto ai dettagli, parte bianca più interna di erbe rigogliose, superficie scrivibile che accoglie il nero come ornamento, dove, mediante i pregevoli tratti delle lettere, il fecondissimo terreno delle parole, seminato, produce per le menti un frutto soavissimo tante sono le volte che il desiderio del lettore l’avrà rinvenuto: conserva la fedele testimonianza delle azioni umane, parla di quelle passate ed è nemica dell’oblio. La nostra memoria, infatti, anche se trattiene le cause, muta le parole; lì, invece, viene riposto con sicurezza ciò che sempre può essere udito in modo uguale.

Queste parole sono un inno al papiro in quanto disponibile supporto perché chiunque potesse tracciarvi i segni di ciò che ha nel pensiero o nel cuore, e questi segni, queste lettere, potessero essere lette e comprese, e il loro contenuto trasmesso, e attraversare il corso degli anni, vincendo così l’usura del tempo e, in definitiva, lo scacco della morte.
Questo cammino indicato da Cassiodoro è quello che cercheremo di percorrere in questa opera sul tema della lettura, chiedendoci anzitutto che cosa vuol dire leggere e come alcuni testimoni dell’antichità classica latina e più o meno noti esponenti della tradizione ecclesiale in occidente dal iii al xiii secolo hanno percepito l’importanza della lettura.

 

Perché leggere?

Perché leggere? Qual è il fine cui si tende attraverso l’atto della lettura? Se le lettere – poiché ci occuperemo solo della scrittura alfabetica, la quale, diversamente da quelle ideografiche o sillabiche, è stata inventata una sola volta nella storia dell’umanità – sono segno dei suoni, cosa vuol dire e a cosa rinvia il leggere? Quale viene a essere il rapporto dello scritto con il linguaggio? Se le lettere sono state concepite non solo come segno dei suoni, ma – e primariamente – come segno delle cose, raffigurazioni di esse poi evolutesi e stilizzatesi, forse che l’atto stesso del leggere non diventa anche un modo per incontrare il mondo delle cose, il reale?

E poi: leggere che cosa? È il medesimo atto di lettura che si compie leggendo un romanzo, una formula matematica, un fumetto, la Bibbia?

È stato detto da molti che un momento cruciale nella storia della lettura sembra sia stato quello del progressivo e graduale passaggio dal volumen (“rotolo”) 10 di papiro al codex (“codice”) di pergamena, passaggio che ha comportato non solo il mutamento del supporto scrittorio, ma anche un diverso rapporto con il testo, il quale diventava consultabile e fruibile immediatamente in qualunque circostanza, a differenza di quanto permetteva il rotolo, che aveva bisogno di essere svolto e riavvolto per ogni passaggio cercato.

Tuttavia, personalmente, sarei dell’opinione che il vero discrimen, il crinale decisivo, l’elemento di differenza in base al quale si può parlare di un “prima” e di un “dopo” nella storia della lettura nell’occidente latino, non sia tanto il passaggio dal papiro alla pergamena e dal rotolo al codice, né – come si può forse pensare – quello dell’invenzione della stampa, ma, piuttosto, si tratta di un elemento di diversità che è caratterizzabile non tanto come rottura e passaggio da un momento a un altro in senso cronologico, ma piuttosto di una differenza di tipo qualitativo e che risulta molto intrigante per il genere di lettore cui essa si rivolge. Mi riferisco al rapporto peculiare tra lo scritto che ha preso forma a partire dall’viii secolo a.C. fino al i secolo d.C. e che è passato all’uomo contemporaneo sotto il nome di “Bibbia” (termine greco che significa “Libri”) e coloro che erano chiamati a esserne i lettori.

Ciò che è proprio del rapporto con il testo biblico, infatti, non è tanto un eventuale carattere sacro di quest’ultimo, proprio anche ai testi di altre religioni, né il fatto che mediante la lettura del testo scritto si intendesse creare un rapporto con la persona della divinità, che ne era considerata all’origine, poiché ogni atto di lettura in realtà implica anche un rapporto con la persona e il pensiero dell’autore che sottende al testo e che ne è la fonte.

Lo scritto biblico ha un carattere ulteriore, una “pretesa” che gli altri scritti non hanno e non possono avere: il credente che si accosta al testo biblico cercandovi il contenuto, la parola che esso esprime, vi si accosta compiendo un preciso atto di fede nel fatto che quella parola possa trasformarlo, possa operare in lui quello che essa enuncia, poiché, in quanto parola di Dio, è parola viva ed efficace, è parola creatrice, è parola che porta in sé una forza tale da poter operare un reale cambiamento in colui che la accoglie con fede.

Ecco allora che anche l’atto della lettura, della meditazione, dello studio del testo biblico assume due peculiari caratteristiche: la prima consiste nel fatto che tali atti aprono alla relazione con una persona che non solo è vivente (questo può accadere anche con qualsiasi autore ancora vivente), ma che è anche presente all’atto di lettura del lettore. È questo il motivo per cui molti autori cristiani hanno parlato contemporaneamente di lettura e preghiera, che si alternano e si succedono, che aprono l’una all’altra e che si implicano a vicenda. Non a caso – credo – la regola che più ha dato forma alla preghiera monastica occidentale, la Regola di Benedetto afferma che il primo gradino dell’umiltà non consiste solo nello stare sempre alla presenza di Dio – anzi, più esattamente, alla presenza della sua parola, dei suoi comandamenti –, ma il primo gradino dell’umiltà, la condizione senza la quale il monaco non può camminare ulteriormente, è dato anzitutto dalla situazione inversa, quella cioè in cui il monaco ha coscienza e consapevolezza che è Dio che sta alla sua presenza, alla presenza di lui, del monaco; Dio, infatti, lo ha sempre presente, lo conosce e non si dimentica mai di lui, ma sempre se ne ricorda e lo custodisce e se ne prende cura!

La seconda caratteristica, che è stata già enunciata, consiste nel fatto che la parola contenuta nel testo biblico possiede la capacità di operare – a condizione di essere accolta con fede e in una disponibilità alla conversione – una trasformazione, un mutamento nella persona e nella vita di colui che legge e che ascolta, in quell’ascolto accogliente e fattivo che la Scrittura chiama “obbedienza”. Significativamente in questo stesso contesto della Regola di Benedetto si menziona anche la vita di conversione, nella vigilanza e nella lotta contro le tentazioni, che deve accompagnare l’atteggiamento del monaco nel suo rapportarsi con quel Dio che, come si è visto, sempre lo ha presente.

Ulteriore aspetto implicato, in maniera sottesa ma direi necessaria da quanto si è fin qui detto, è che la comprensione della parola contenuta nella Scrittura è anzitutto frutto dell’azione dello Spirito santo nella mente e nel cuore del credente/lettore; ed è, infatti, menzionando lo Spirito santo come colui che presiede all’intero cammino di umiltà del monaco che Benedetto conclude questo capitolo 7 della sua Regola.

Tale apertura imprescindibile alla dimensione relazionale con Dio attraverso il testo scritto implica anche che il cristianesimo non possa essere definito “una religione del libro”, poiché il libro, per quanto santo, non è la parola ultima e definitiva di colui che lo ha ispirato, ma è solo rimando alla relazione personale con lui e, soprattutto, per il cristiano è rinvio alla persona storica di quel Gesù di Nazaret nel quale la rivelazione divina si è pienamente compiuta.

Da tali considerazioni scaturisce inevitabilmente una serie di interrogativi: può il non credente comprendere le Scritture? La Bibbia può essere solo pregata ed essere oggetto del pensiero e dello studio solo in vista di una sua assunzione esperienziale, o è possibile anche una sua reale ed effettiva comprensione attraverso lo studio e il ricorso alla razionalità ed eventualmente a discipline estranee a quelle supposte in modo immediato dal testo biblico, quali potevano essere, nelle università del xii-xiii secolo, quelle della logica e della dialettica di derivazione aristotelica? Atteggiamenti, questi due, che a mio avviso non è possibile separare, nei diversi autori medievali, in maniera netta, poiché il processo di distinzione fu lento e graduale, e vi sono autori che per lungo tempo contemperarono in sé entrambe le esigenze.

Non solo, ma il problema – se di problema si deve parlare – non sempre e non da tutti veniva visto come tale, poiché vi erano autori, che possiamo considerare tutt’altro che degli scolastici, …