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Caro Dio fa’ che io veda le tue profezie

di Fernanda Rossini

Caro Dio fa’ che io veda le tue profezie

Il diario inedito di Flannery O’Connor

 

«Caro Dio, fa’ che io possa espandere la mia capacità di sentirTi…», scrive così nel suo diario di diciottenne Flannery O’Connor (foto, Savannah, 1925 – Milledgeville, 1964), autrice di romanzi come La saggezza nel sangue e Il cielo è dei violenti che l’hanno portata nel Pantheon della Letteratura statunitense del ’900. Alcune pagine di quel diario, che lascia trapelare tutta l’intensità della futura scrittrice, sono state recentemente riscoperte nel suo archivio e pubblicate dalla rivista americana Image per la cura di Mark Bosco, S.J., regista, con E. Coffman, del film documentario Flannery, che l’anno scorso ha vinto il prestigioso premio Library of Congress/Lavine-Kern Burns. Le pagine ci vengono presentate in prima traduzione italiana da Fernanda Rossini, ricercatrice dottorale presso l’Università di Monaco di Baviera.

A colui che volesse mai vagabondare qui attorno,
Tra le sacre pagine di questo tomo
Meglio se ti cerchi un’altra passione,
O questa sarà davvero l’ultima occasione
Che avrai per morbosamente inebriarti,
Nel farti gli affari degli altri. Amen.

È una rara prova in rima che la diciottenne Mary Flannery O’Connor appunta sulla prima pagina del diario che tiene tra il dicembre 1943 e il febbraio 1944 e che in copertina, per distrarre occhi curiosi, intitola «Higher Mathematics I», dal nome di un suo corso universitario. Nota per le graffianti storie in cui racconta l’uomo moderno in lotta con Dio, la scrittrice è un autore cardine della letteratura del Novecento negli Stati Uniti. Proponiamo in prima traduzione italiana alcuni scorci di questo diario1: tra righe accorate, ironici affreschi di vita quotidiana e prove di scrittura la giovane O’Connor mostra già i tratti distintivi della scrittrice che diventerà. Sono una manciata di pensieri confessati con vivacità e immediatezza: nelle sfumature inedite della sua voce divertita e decisa, ma anche malinconica e critica, rintracciamo la sua ricerca di sé stessa all’ombra della fede.

Se le condizioni fossero tali da non avere superiori, critici o parenti stretti che ostacolano i miei progressi…

Mentre tiene il diario Mary Flannery2 vive a Milledgeville, una cittadina del profondo Sud rurale degli Stati Uniti, dove la segregazione razziale è un dato di fatto, la vita è regolata da convenzioni sociali e tradizioni indiscutibili e la religione protestante è il fulcro costitutivo. Si è trasferita qui con i genitori per far fronte alle difficoltà dovute alla Grande Depressione e alla malattia del padre, che ne causa la morte nel 1941. Abita con gli zii nella storica villa di loro proprietà da generazioni. Protetta dalla accogliente solidità sociale ed economica della famiglia, che appartiene alla minoranza bianca cattolica della città, per lei il conflitto mondiale è solo lo «strano rumore» della «milizia locale» che marcia per le strade e l’eco dell’«analisi serale della situazione della guerra» nei commenti dello zio. Nella cerchia dei famigliari, che «stanno diventando vecchi alla svelta», è l’unica giovane ed è sempre in lotta per la propria indipendenza:
Comincio a chiedermi se Regina3 riuscirà mai a considerarmi cresciuta a sufficienza per spegnermi il gas da sola. Vivo nella speranza.
Il rapporto con la madre, che «è una donna da imperativi. (Imperativi positivi, imperativi negativi, imperativi con la doppia negazione)» è complesso. Se riconosce che il proprio comportamento «ha un effetto irritante su Regina, a cui lei dà voce nei più forti imperativi possibili», ammette anche che i modi della madre la stanno «portando a quel punto di fusione dal quale è impossibile recedere. È come un braccio che prude. Non vorresti perderlo per niente al mondo, ma continua a prudere». Comunque, il loro legame è profondo ed esclusivo: «Provo un tale affetto per me stessa. È secondo solo a quello che provo per Regina. Nessun altro gli si avvicina». Il pensiero di poterla perdere le fa venire gli «occhi lacrimosi», ma si ricorda del suo compleanno solo «dopo che lei ha osservato che C.K. le ha inviato un fazzoletto carino e un rossetto abominevole». E allora fa irruzione «nel magazzino tutto-a-dieci-centesimi» e acquista «tre cose davvero carine». La madre è un punto fermo nei progetti della ragazza:

se solo potessi far soldi – abbastanza per essere indipendenti, io e Regina – se ci riuscissi, allora potrei dedicare la mia vita all’arte, alla religione e – le mie inibizioni premono con forza – all’amore.

Lo sarà per tutta la sua vita. A venticinque anni Flannery sta mettendosi alla prova lontano da casa, proprio come aveva sperato, quando si ripresenta la malattia, che già aveva fatto capolino tra le pagine del diario:

Penso che mi sto stufando dell’artrite. Mi piacerebbe che fosse così. Forse, se mai tornerà indietro – se mai vorrà proprio me – sarò cresciuta abbastanza per incontrarla.

L’inaspettato ritorno del lupus la sconvolge, ma la madre la protegge mentre lei impara a convivere con dolori e cure che le devastano il fisico e con la consapevolezza di una morte precoce, come già era successo al padre. Nelle lettere4 Flannery descrive con affettuosa ironia la forza di Regina che le garantisce la necessaria indipendenza intellettuale per coltivare le sue potenzialità di scrittrice, così che, dovendo «scrivere con la testa non con le stampelle», può ammettere: «Ho abbastanza energie per scrivere, e siccome non ho altro da fare, con un occhio guercio, posso considerare tutta la faccenda come una benedizione».

«Voglio vivere, non funzionare»

A Milledgeville Mary Flannery frequenta il Georgia College for Women, una scelta quasi obbligata per le giovani della città, e lei vi si adegua polemizzando:

Sono disgustata dal modo in cui questo processo di scolarizzazione formale mi sta circondando e sono almeno un po’ disgustata di me stessa perché mi adeguo.

Fin da piccola è stata abituata a leggere, scrivere e disegnare in modo critico e così mal sopporta le ore trascorse in una «assunzione superficiale di conoscenza pre-digerita». Ammette che forse è ciò di cui ha bisogno, ma non ciò che le consente di «svilupparsi», perché, protesta:

Dovrei essere impegnata a scrivere e leggere e ad assorbire le cose che mi circondano, non a memorizzare il numero di giorni piovosi e di sole in Georgia. Sono stanca. Sono disgustata. Voglio vivere – non funzionare.

«A volte agisco e reagisco come un’idiota»

L’Università che frequenta è a pochi isolati da casa, per cui non risiede nello studentato. I compagni la descrivono arguta, mai indisponente o altezzosa, una personalità decisa e solitaria. Al diario Mary Flannery confida:

Il mio cervello è insolitamente funzionante. Sono solo una ragazzina intelligente o sono una persona arguta con potenzialità artistiche raffinate, acculturate, super sofisticate? A volte agisco e reagisco come un’idiota.

Irritata con sé stessa, è conscia della propria timidezza che le appare come un ostacolo insormontabile:

A volte preferirei essere un successo a livello sociale piuttosto che scrivere una riga, ma sembra così assolutamente impossibile che io possa mai ottenere un facile successo con le persone che anche il solo pensiero mi fa tornare indietro di corsa in me stessa, come un coniglio impaurito.

Anche quando riesce a «ottenere un piacevole successo» per un commento ironico durante una lezione, pensa di non meritarsi «un tale credito», perché non ritiene «il commento straordinariamente acuto». Se soddisfatta ammette: «Questo è il tipo di me che mi sforzo davvero di costruire – Arguta, Fantastica, Sofisticata, Intelligente», subito dopo realisticamente riconosce «comunque, l’imbranata impacciata e confusa il più delle volte sopraffà la AFSI» [acronimo per Arguta, Fantastica, Sofisticata, Intelligente – ndr]. Forse davvero troppo timida per farlo di persona, con sorridente autoironia racconta al diario di aver ricevuto una lettera «di apprezzamento di cinque pagine» e di aver trascorso la giornata desiderando «qualcuno a cui molto casualmente accennare che nell’ultima lettera John diceva questo e quello» e immaginando che:

Quelli si sarebbero probabilmente meravigliati e avrebbero detto: «Chi è John, tuo cugino?» e io: «Oh, no. Solo un amico», e dopo avrebbero fatto qualche piacevole commento, perché avevano sentito dire che di recente io avevo stretto delle interessanti amicizie, e che avrei fatto meglio a stare attenta. «Oh, davvero, niente del genere», avrei detto, con l’aria di chi sta cercando di nascondere l’imminente cerimonia nuziale.

Ma la fantasia sfuma e lei conclude con la disperazione di chi non vede via d’uscita:

Perché? Non lo capisco – o invece sì? Ho sempre avuto carenze in quella sfera della mia vita. C’è un grande vuoto in mezzo e tutte le altre cose si sono costruite attorno; e non ho avuto nulla con cui riempire quel buco se non la mia immaginazione – e ancora non ce l’ho. Ogni volta che faccio cadere qualcosa giù nel profondo, posso sentire il clank che colpisce il fondo. L’immaginazione è solo un gas che lo riempie per un po’, poi fuoriesce e viene sostituito. Spero di non dover lasciare cadere tutta la vita tazze di metallo per riempirlo. Sono sul mercato per una balla di cotone.

«Peccato che non possa ricevere le mie lettere»

Crescendo imparerà a superare la propria timidezza, senza vincerla mai del tutto. Già scrittrice affermata prima di un’intervista televisiva ammetterà di non riuscire sicuramente «a pensare a nulla da dire se non “Eehh?” e “Non saprei!”». E prevede che: «Quando torno dovrò trascorrere almeno tre mesi giorno e notte nel pollaio per contrastare queste influenze malefiche […] le galline non sanno che ho pubblicato un libro». In questo periodo Mary Flannery inizia a collaborare con i giornali universitari, sui quali pubblica articoli, storie e disegni in cui ironizza sulla vita del college. Il diario raccoglie la soddisfazione: «Ho scritto tutto il giorno e sono giunta alla fine – e sono felice», e i compiaciuti auto-apprezzamenti:

I miei poteri epistolari mi ammaliano. È un peccato che non possa ricevere le mie lettere. Se a destinazione producono la stessa sincera e appassionata approvazione che hanno prodotto all’origine, dovrebbero davvero essere in grado di mantenere la mia memoria viva – e in salute.

Una previsione quasi profetica. Infatti, le lettere, che dal silenzio doloroso della fattoria scriverà quasi quotidianamente, rimangono la testimonianza della sua vita quotidiana con la madre, della sua curiosità intellettuale, delle sue certezze spirituali e della sua peculiarità di scrittrice cattolica. Intanto però fantastica sulle sue passioni:

Oggi mi immagino caricaturista – xilografa di fama nazionale. Guadagno quattrocentomila dollari prima di laurearmi al college e con questi in tasca mi predispongo per una comoda vita da letargica accademica e viaggiatrice. […] Se non dovessi preoccuparmi del mio stato finanziario – se avessi caricature per libri commerciali – potrei stabilire una routine per leggere e scrivere. […] Quello che accadrà, temo, è che sarò obbligata moralmente a uscire e a lavorare (insegnare – come detesto anche solo il pensiero), a stabilire una deliziosa monotonia e a vivere e morire come la signorina O’Connor, Professoressa Assistente di Rigirarsi le Dita.

«Diventerò realista. Prenderò nota delle cose intorno a me»

Come temeva, non pubblicherà più disegni dopo gli esperimenti universitari. Continuerà però a dipingere per piacere personale fino a quando la malattia le renderà doloroso reggere il pennello o, come sorridendo si giustificherà, perché ormai le pareti di casa erano al completo. L’abitudine a osservare per scovare il dettaglio significativo le è indispensabile anche quando scrive:

Oggi mi dedico al realismo. Diventerò una realista. Prenderò nota delle cose attorno a me – accuratamente. Mi chiedo: qualcuna di queste cose mentali, emozionali, sociali che mi stanno succedendo e le persone attorno a me possono cristallizzarsi in un romanzo? Devo scrivere un romanzo.

Una dichiarazione d’intenti appuntata sull’onda dei primi riconoscimenti ottenuti, ma che diverrà la sua caratteristica distintiva. Da adulta confermerà che «più nitida è la luce della fede, più vivide saranno le storture che lo scrittore vede nella vita attorno a sé» e continuerà con puntigliosa precisione a «dipingere con le parole» il suo Sud in bilico tra la sicurezza delle tradizioni e le allettanti proposte della modernità. Quadri di vita nelle cui pieghe si disvela la presenza devastante ma salvifica di Dio, che interviene con la violenza che «la Grazia esercita su un personaggio poco disposto ad assecondarla» per strapparlo dal «territorio del diavolo». Le brutali epifanie del divino ai suoi personaggi, deformati nel fisico, violentati nelle loro fatue certezze, reietti ed emarginati, sono le rappresentazioni che le consentono di «scioccare» il lettore imbolsito dalle comodità moderne e forzarlo almeno a intuire la presenza di Dio. Solo lette come la trasposizione narrativa di profonde comprensioni teologiche, le sue storie acquistano valore e spessore inaspettati che le rendono ancora attuali. Alle critiche feroci che hanno sempre accompagnato la sua narrativa definita assurdamente violenta e grottescamente ironica, Flannery O’Connor ha risposto definendola «realista» come lo è il disegno di un bambino che «non distorce ma disegna esattamente ciò che vede, il suo sguardo è diretto, vede le linee che creano movimento», per lei le «linee del movimento spirituale»5.
Quando racconta delle «frivole cose» che le «frullano nella testa» la giovane mostra che deve solo affinare qualità narrative che già possiede. Si colgono nella freschezza delle pagine in cui descrive il piacere del cibo, il momento della colazione, la preoccupazione per quella «miserabile cosa che ha gocciolato» tradendo che scrive in segreto, la «metamorfosi» dei suoi occhiali «che si sono evoluti in una molto più intellettuale montatura di corno» e lo scherzo di nascondere un tuorlo d’uovo d’anatra in un guscio d’uovo di gallina, «dove si è confortevolmente sistemato proprio come lo Zio con la poltrona». L’ironia è già presente quando immagina i suoi genitori che nel momento della sua nascita scoprono l’«etichetta del prezzo» che dovranno pagare o quando racconta la tristezza di una cena durante la quale «le lacrime continuano a mantenere il nostro cibo umido», ma non può «dire se è a causa della tua assenza o delle maledette cipolle dello zio». Rivela l’abilità di creare con le parole quando ammette il disordine che le impedisce di trovare il negativo di una fotografia «ad almeno un metro e mezzo sotto la superficie della scrivania», per cui la madre ha programmato «uno scavo» e lei sta «considerando di far esplodere tutto» così che «il negativo dovrebbe comparire durante la battaglia», ma soprattutto quando descrive la sua stanza, rivelandosi:

La mia scrivania è il monumento alla mia mente, e da come essa appare, la mia mente deve avere una stretta relazione con i bidoni della spazzatura e – non c’è nessun altro lavoro che si avvicina. Non vivo alla giornata. Vivo al secondo. Ciò che di sgradevole posso posporre per un altro secondo, lo pospongo. Se servono quattro o cinque massacranti passi per appendere la gonna anziché appoggiarla sulla spalliera della sedia, la appoggio alla spalliera della sedia – in attesa di essere appesa più tardi. Mentre i giorni passano e la catasta di vestiti sulla spalliera diventa sempre più alta e le montagne di carta e libri sulla scrivania si innalzano, le pareti della stanza gradualmente rimpiccioliscono fino a quando non ne rimarrà che un esiguo bordo attorno al soffitto. […] La stanza è estremamente incoerente. Sopra la mensola del camino, di un grigio molto pastoso un’immagine che invecchia di Cristo – gentile e benigno, caritatevole e però severo, e che sembra appena appena divertirsi. Deve essere così spesso. Sulla scrivania una stampa marrone in una spessa cornice di legno: l’Iliade di Omero. Quattro tipi epicurei sdraiati – probabilmente dèi – che ascoltano uno che sta leggendo da un rotolo – un gruppo tranquillo. Loro non hanno mai sentito parlare dei setti vizi capitali. Appeso a lato della porta, il diavolo – strabico, magro, malvagio – una mia creazione. Lui è un pezzo da parete particolare, ma non mi disturba. Sopra la libreria, un’anatra di porcellana diretta verso lo spazio infinito – sperando solo che possa trovare una riva prima che si indebolisca e caschi dritta nel mare.

Ai primi successi seguono anche riscontri negativi e allora la ragazza si interroga:

Mi chiedo se la mia carenza nel saper scrivere sia in realtà una carenza nel saper pensare – o nel non avere nessuna esperienza sociale dalla quale trarre il mio materiale. Non so come potrò fare una qualsiasi esperienza a meno che non me ne vada a scuola, al lavoro o a trovare qualcuno.

Si convince che andarsene da casa per trovare la propria strada, oltre che la propria indipendenza, sia davvero necessario:

Sta proprio cominciando in questi giorni a venirmi in mente che presto, molto presto, non sarò più un’abitante di questo particolare albero, o di questo particolare buco in questo particolare albero. Adesso sono un uccello adulto – da qualche tempo sto scavando i miei vermi; ma non sono mai andata a Sud (o intendevo a Nord?).

Solo la malattia la costringerà a ribaltare i propri progetti. Scrittrice ormai affermata, confesserà che, nonostante sia stato per lei fondamentale allontanarsi, «le cose migliori» le ha scritte osservando e ascoltando la gente della sua terra.

«Il pessimismo sembra il mio fidato compagno»

Tra casa e Università, sogni e realtà, Mary Flannery trascorre giornate in un altalenarsi di pensieri, per cui non sa se essere «felice o triste o solo confusa e incerta». Un attimo si «vede sulla soglia di qualcosa o vicino a essa», e quello dopo si sente intrappolata in un «groviglio» che «va allentato». Il «muro di mattoni» da «smantellare pietra dopo pietra» da sola perché «nessun tipo di dinamite potrebbe resistere negli umidi recessi della mia indole» sono le immagini forti del suo sentirsi costretta in una realtà che avverte opprimente. Il lutto per la morte recente del padre, al quale era particolarmente affezionata, le difficoltà di una convivenza e dipendenza economica dai parenti si sommano alle paure per il futuro:

Il pessimismo sembra essere il mio fidato compagno di questi giorni. Sono impaurita e tuttavia impaziente, ansiosa di arrivare al centro di tutto questo – di farne un successo – o di rassegnarmi al mio fallimento. Vorrei che questi giorni fossero più lunghi. Sono preziosi, e stanno scivolando via.

Trascorre comunque momenti in cui si adagia nell’indolenza: «Se solo potessi superare la mia pigrizia – se riuscissi a penetrarla perché è più piacevole sognare a occhi aperti che lavorare». E altri in cui si costringe a «infilare a forza la mia mente allentata dentro la sua tuta da lavoro e iniziare». Senza trovare soluzione definitiva: «Ora mi piacerebbe scrivere, ma preferirei dormire – solita situazione». Ammette:

Il mio più grosso problema nel vendere un manoscritto deriva dal fatto che non l’ho mai spedito. Mi viene accettato, attraverso un glorioso periodo di congratulazioni e di guadagni e di eccellenti offerte – tutto prima che io abbia battuto a macchina il manoscritto. Ho intenzione di cambiare il mio modo di lavorare, e se non fosse abbastanza…

Lo farà solo qualche anno dopo, a Iowa. Lontana dall’idea romantica dell’artista guidato dall’ispirazione per Flannery O’Connor lo scrittore, se non ha del «genio», ma solo del «talento», si deve impegnare a fondo perché: «[esso] deve essere decisamente sostenuto da abitudini mentali e fisiche altrimenti inaridisce». Convinta che in quanto cattolica non possa permettersi di «essere niente di meno che un’artista» si impone il rigore quasi ascetico di «abitudine» (nel senso di habitus) alla scrittura: scrive tutti i giorni alla stessa ora, anche nei momenti più bui, per il tempo che la malattia le concede. Un impegno che la coinvolge completamente, per il quale addirittura «le tremano i polsi e le cadono i capelli» e per il quale limiterà le attività quotidiane per risparmiare energie. Mary Flannery dubita solo delle proprie capacità, mai della certezza della presenza Dio. Fin dalla prima pagina il diario è un profondo atto di fede in Dio:

Non sono soddisfatta di me stessa ma sento che Dio ha svuotato la mia vita a proposito, perché io possa riempirla in qualche altro meraviglioso modo – la parola «meraviglioso» mi spaventa. Potrebbe essere qualsiasi altra cosa, tranne che meraviglioso.

Mentre da bambina si è messa a «fare a pugni con l’angelo custode» sicura di «riuscire almeno a insozzargli le piume», ora confida:

Questo potrebbe davvero essere il prologo del nuovo anno: Caro Dio, fa’ che io possa espandere la mia capacità di sentirTi, e con questo fa’ che la espanda per ogni cosa per cui valga la pena così che un giorno io possa vedere il compimento delle Tue profezie e condividere la beatitudine del tuo regno.

Il diario rivela già come per la ragazza Dio sia il punto di riferimento assoluto:

Dio deve volere che io impari qualcosa da tutto questo, ma non saprei dire cosa, a meno che sia – no è – non so che cosa sia. Più ci penso, più mi confondo. Dio, per favore, disinfetta la mia mente.

«Devo pregare. Non penso che Dio mi deluderà»

Una richiesta d’aiuto che si ripete, in particolare quando la ragazza esplora il mondo attorno a sé:

Quello che scrivo tradisce la mia confusione. Devo pregare. Attribuisco ogni cosa che ho fatto alla preghiera. Non penso che Dio mi deluderà in futuro se prego, se mi sforzo di credere. Oh caro Dio, per favore fa’ che io non venga coinvolta dall’immensa nonchalance6 con la quale il mondo socialmente scientifico guarda all’eternità.

In cerca di risposte, inizia una combattuta ricerca personale. Solo pochi anni dopo, a Iowa, tiene un Diario di preghiera7 in cui testimonia la sua continua lotta per diventare «lo strumento per le storie di Dio» come la macchina da scrivere lo è per lei. Uno sforzo intellettuale e di fede che la porterà a confrontarsi con la ricchezza di pensiero che spazia dai Padri e Dottori della Chiesa – legge ogni sera qualche pagina della Summa di san Tommaso – ai teologi e filosofi del Novecento, dagli scrittori antichi ai suoi contemporanei, rimanendo sempre «un’intellettuale spigolosa e orgogliosa che si avvicina a Dio un passo alla volta digrignando i denti». Per lei credere è l’impegno quotidiano di riconoscere nel Mistero di Cristo Crocifisso la speranza sconvolgente della Redenzione, per questo sprezza ogni forma di «pio sentimentalismo», di «vaporizzazione» del senso religioso, ogni tentativo di ridurre la fede a «comoda soddisfazione psicologica». I quaranta giorni del diario sono un attimo nella vita della giovane Mary Flannery, ma sono abbastanza per aprire uno scorcio dal quale si intravedono, nell’apparente normalità della sua vita di ragazza, i primi bagliori della peculiare «scrittrice per Dio» che diventerà.

 


1 Il quaderno è stato ritrovato tra i materiali inediti durante la preparazione del film-documentario sulla vita dell’autrice. Il prof. Mark Bosco, S.J., lo ha pubblicato sulla rivista americana Image, numero 94, Autunno 2017.
2 È il nome completo della scrittrice. In calce agli scritti universitari lei pone un logo di sua creazione in cui le iniziali MFOC si uniscono a formare l’immagine di un uccello in volo. Durante il master a Iowa, in vista delle prime pubblicazioni, ottiene dalla madre il permesso di omettere il primo nome e di firmarsi solo come Flannery O’Connor.
3 La madre.
4 Fino alla morte la scrittrice vivrà nella casa che la madre ha predisposto per il suo fisico malato nella fattoria Andalusia nella campagna di Milledgeville. Da qui la O’Connor si manterrà in contatto epistolare con il mondo letterario di cui fa parte. Alla sua morte le lettere vengono edite nel volume a cura di Sally Fitzgerald The Habit Of Being, Farrar, Straus and Giroux, New York 1979. Una selezione è stata tradotta in Sola a presidiare la fortezza, Einaudi, Torino 2001 e, in ristampa, Minimum Fax, Roma 2012.
5 La scrittrice esprime le sue riflessioni sullo scrivere dal punto di vista cattolico in vari testi che prepara per convegni e conferenze. Questi sono stati editi postumi nel volume: Flannery O’Connor, Mistery and Manners, a cura di S. and R. Fitzgerald, Farrar, Straus and Giroux, New York 1969.
Una selezione è stata tradotta in: Nel territorio del diavolo, Teoria, Santarcangelo di Romagna (RN) 1993, a cui sono seguite altre edizioni.
6 In francese nel testo.
7 Flannery O’Connor, A Prayer Journal, Farrar, Straus and Giroux, New York 2013. In italiano è stato tradotto integralmente in Diario di Preghiera, Bompiani 2016. Si veda il mio commento in Studi cattolici, n. 664, giugno 2016.

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