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Eric-Emmanuel Schmitt, l’incontro con l’altro nello specchio del sacro

di Guido Caldiron

Parla l’autore di «La sfida di Gerusalemme», edito da e/o e Libreria editrice vaticana. Un diario di viaggio in Terrasanta che interroga le radici comuni e la cultura dei popoli della regione. «Indago la religione da un punto di vista umanista: per capire come gli esseri umani vivono, pensano e riflettono sulle loro stesse esistenze»

Allievo di Jacques Derrida all’École normale supérieure di Parigi, studioso di Diderot e dell’Illuminismo, lo scrittore e drammaturgo francese Eric-Emmanuel Schmitt ha però intrecciato a più riprese il proprio percorso con la religione, o meglio con le culture dei monoteismi nati nel Mediterraneo come delle fedi fiorite nell’Oriente più lontano, dall’India al Giappone. Non stupisce perciò che sia a lui, che ha raccontato il suo incontro con il cristianesimo nel deserto del Sahara, dopo un’iniziale interesse intellettuale per la fede, in La notte di fuoco (e/o, 2016), che è giunta dal Vaticano la proposta di recarsi in Terrasanta e di redigere un diario di quell’esperienza. Il risultato, La sfida di Gerusalemme (pubblicato dalle edizioni e/o e dalla Libreria editrice vaticana, pp. 156, euro 17), che si conclude con una lettera di papa Francesco all’autore, non ha però né il tono celebrativo dei classici di Chateaubriand o Lamartine, che hanno imposto il racconto della Terrasanta come un autentico genere letterario, né del semplice resoconto di un pellegrinaggio. Schmitt nel descrivere l’intimità delle proprie emozioni di fronte al sacro, e ai luoghi dove il cristianesimo ha preso forma, riflette sul sogno di fraternità e sui quesiti che la storia della Terrasanta evocano per l’intera umanità. Se la «sfida» è quella di incontrare Dio, alla fine del suo percorso l’intellettuale francese ci parla in modo inequivoco e soprattutto dell’uomo.

A Gerusalemme, di fronte al Santo Sepolcro, al termine del suo viaggio, scrive: «Sto rendendo visita a un’assenza». Vale a dire?
Il cristianesimo è la storia di un corpo che è scomparso, quello di Gesù, e che non è mai stato ritrovato. È un romanzo poliziesco senza soluzione. Perché? Ma perché non si tratta di un enigma, bensì di un mistero. E ciò che è stato straordinario al Santo Sepolcro, è che ho vissuto per l’appunto la presenza di un’assenza. La presenza vivente di un essere che è morto 2000 anni fa. Qualcosa che ha completamente trasformato il mio rapporto con il cristianesimo che era decisamente intellettuale ed è divenuto totalmente carnale.

La sua opera si contraddistingue fin dall’inizio per i riferimenti alle religioni, come il sufismo in «Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano» (2001). Qual è il percorso che conduce un allievo di Deridda e uno studioso di Diderot fino a Gerusalemme?
C’è da dire che i miei maestri, sia Diderot su cui ho fatto il mio dottorato, che Deridda che era mio professore, da veri maestri di filosofia non mi hanno insegnato a pensare come loro, ma con la mia testa: è questo il cuore della filosofia. Così, è stato grazie agli strumenti che mi sono stati offerti da degli intellettuali atei che ho potuto costruire il mio personale rapporto con la religione. Credo di poter dire che sono affascinato dalla presenza dell’invisibile nella condizione umana: avvolgiamo la nostra esperienza del mondo visibile ricoprendola con un mondo invisibile che è quello del senso, del significato che attribuiamo ad ogni cosa. Perciò, guardo a tutte le culture religiose da un punto di vista umanista, per cercare di capire come gli esseri umani vivono, pensano e riflettono sulle loro stesse esistenze. Per questo nelle mie opere intreccio diverse spiritualità e culture religiose. E lo faccio con grande rispetto: ho una mia casa che è il cristianesimo ma questo non mi impedisce di visitare con rispetto e attenzione la casa degli altri.

Concretamente le cose non vanno sempre così. Una volta giunto a Gerusalemme lei parla di un luogo al tempo stesso «verticale» e «orizzontale» dove non mancano le contraddizioni.
Si, a queste due definizioni corrispondono rispettivamente la Gerusalemme «divina» e quella «umana». Dio ha parlato tre volte in questa città. Ha fondato il primo monoteismo, l’ebraismo, perché il Tempio si trovava lì. Quindi ha formato il secondo monoteismo, perché è qui che Gesù ha compiuto il suo destino. Infine, Gerusalemme è altrettanto importante per l’Islam, perché è ancora una volta da questa città che Maometto è asceso al cielo. Quindi si tratta di un luogo dove si recano i pellegrini delle tre fedi con la medesima legittimità. Questa è la città «verticale», nella quale Dio si è rivolto a tutti gli uomini e ha detto loro: «Ascoltatemi!». Ora, credo che abbia però cambiato completamente discorso e a quegli stessi esseri umani dice: «Ascoltatevi reciprocamente e cercate di capirvi». E qui ci troviamo nell’altra dimensione, quella della città «orizzontale» dove convivono, non senza contrasti, cristiani, ebrei musulmani, atei… Eppure, da questo punto di vista, Gerusalemme è un luogo estremamente stimolante, perché ci obbliga in qualche modo a capire che siamo fratelli, condividiamo una medesima storia, dobbiamo puntare sul nostro spirito di fraternità piuttosto che sulle spinte fratricide. E quand’è che negli uomini prevale la spinta al fratricidio? Quando dimenticano le loro origini comuni, la loro storia comune. Questa amnesia è all’origine di ogni violenza. Per vivere davvero insieme dobbiamo ricordarci che noi tutti siamo il seguito di una qualche storia, e apparteniamo ad altre storie. «La sfida di Gerusalemme» che dà il titolo al mio libro è racchiusa in questa speranza e in questa possibilità.

La «sfida» potrebbe essere enunciata anche così: a Gerusalemme l’uomo, e nel suo caso anche lo scrittore, cerca Dio e finisce per incontrare gli altri uomini?
Mentre camminavo per le strette strade della città, sentivo che il luogo non cessava di pormi domande, di interrogarmi sul senso del mio viaggio. Le risposte le ho trovate nella mia identità di cristiano e, nello stesso momento, in questo continuo misurarmi positivamente con l’alterità. Riconoscendo me stesso e ciò che provo accoglievo gli altri. E, ancora una volta, è la storia stessa di Gerusalemme a condurci a tutto ciò.

Il suo itinerario l’ha però condotta anche davanti al muro costruito a partire dal 2002 dalle autorità israeliane e che separa lo Stato ebraico dai territori palestinesi. Lei ne parla come del «simbolo del disastro» che proprio a Gerusalemme nega questa identità plurale.
È così, ma non si tratta solo del disastro degli israeliani nei confronti dei palestinesi, ma di quello dell’intera umanità. Da secoli, tutti coloro che si sono occupati di Gerusalemme hanno fatto lo stesso. Da Nabucodonosor II passando per i Romani, fino al modo in cui, dopo la Seconda guerra mondiale, non si è cercato un compromesso, una concertazione tra gli ebrei che ritornavano e i palestinesi che vivevano lì. Il muro dimostra come l’uomo non sappia gestire i propri conflitti che attraverso la violenza e non con il dialogo: segnala uno scacco che coinvolge tutti noi. Mostra l’opporsi reciproco di due punti di vista giustificati che non riescono a conciliarsi. Ognuno ha ragione dal suo punto di vista, ognuno ha torto dal punto di vista dell’altro. Il muro separa due legittimità, la legittimità degli ebrei che hanno il diritto di tornare su questa terra, la legittimità dei palestinesi che vivono qui da migliaia di anni. Credo che questi due popoli siano fratelli. È lo stesso sangue che scorre da entrambi i lati. Come dicevo, si devono riscoprire le radici comuni per poter plasmare il presente. E per battere definitivamente la violenza.

Anche se può essere presentato come una sorta di pellegrinaggio, è nella dimensione del «viaggio» che si coglie appieno il senso della sua esperienza a Gerusalemme. In fondo, anche in uno dei suoi romanzi più celebri, Monsieur Ibrahim, ispirato dai sufi, intraprende con il piccolo Momo, il bambino ebreo cui si è legato a Parigi, un viaggio verso l’Oriente. È questa la via per l’incontro e, forse, per la pace e il dialogo tra gli uomini?
Assolutamente. Si deve partire. Predisporsi a poter lasciare tutto: le proprie abitudini, il proprio comfort, il proprio modo di pensare. E non è facile. Solo così si può pensare di ambire a diventare uomini nuovi, certo più fragili, perché il viaggio rende vulnerabili, ma in grado di incontrare davvero gli altri. Vanno in qualche modo smontate le nostre certezze per costruirci nuovamente in base a questa possibilità verso il confronto e la scoperta. Credo di poter dire che devo le cose più importanti della mia vita e forse ciò che sono a questa idea del viaggio e al modo in cui l’ho messa in pratica da tanto tempo.

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