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Forse che sì, forse Queneau

di Stefano Rossini

Passiamo la maggior parte degli anni della scuola a convincerci che la letteratura sia qualcosa di estremamente serio e importante. Chi, poi, prosegue gli studi umanistici anche all’università, si trova a passare per i lunghi corridoi dell’Ateneo guardato dai busti o dai ritratti dei grandi autori di romanzi e poesie, imparruccati e avvolti da pesanti toghe scure, con occhi torvi e grossi tomi sottobraccio.
Non si scherza con la letteratura, non ci si diverte, non si gioca. Perché la vita è una cosa seria, e, a fortiori, la vera letteratura con la L maiuscola, che si occupa proprio della vita e dei suoi drammi, deve essere seria.

Ma in ogni sistema c’è un elemento anarchico e incontrollabile, la cui funzione è proprio quella di rendere evidenti le contraddizioni e le incoerenze dell’insieme di cui fa parte, e il mondo delle lettere non sfugge a questa impietosa legge matematica! Ci sono autori che giocano con la letteratura. Sacrilegio! Anzi: sacrebleu, dato che uno dei principali esponenti di questa corrente giocosa della letteratura è un francese: Raymond Queneau.

Scoprire Queneau è come accendere una miccia che fa subito saltare in aria un esplosivo potenziale: quello delle parole e delle frasi con cui interpretiamo il mondo in cui siamo immersi. Parole che non sono più solo un mezzo per raccontare un fatto, ma diventano elementi rimescolabili che ci permettono di cambiare continuamente il punto di vista (che è quello che dovrebbe fare la letteratura, sempre).
Ma le parole, gli elementi con cui si decostruisce la frase della letteratura seria per ricostruire quella della letteratura giocosa, seguono regole precise: perché la letteratura giocosa è una cosa seria. Prendiamo l’opera più famosa di Queneau: gli Esercizi di stile. Un libro gustoso, godibile e nel contempo difficile e complesso.

“Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa ventisei anni, cappello floscio con una cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glielo avessero tirato. La gente scende. Il tizio in questione si arrabbia con un vicino. Gli rimprovera di spingerlo ogni volta che passa qualcuno. Tono lamentoso, con pretese di cattiveria. Non appena vede un posto libero, vi si butta. Due ore piú tardi lo incontro alla Cour de Rome, davanti alla Gare Saint-Lazare. È con un amico che gli dice: «Dovresti far mettere un bottone in piú al soprabito». Gli fa vedere dove (alla sciancratura) e perché”.

Questo è il primo capitolo del libro, a cui ne seguono altri 98 in cui questo semplice testo viene declinato in altrettante variabili: lipogrammi (scritture senza una lettera in particolare), litoti (figura retorica che consiste nel dire: non molti per pochi), metafore, sinchisi (modifica dell’ordine sintattico), ma anche in versione onirica, o come fosse un telegramma, un pronostico, un’ode, una commedia, o ancora tutta al presente, al passato, al passato remoto, in un’orgia di versioni in cui non si racconta niente di nuovo ma è solo il modo di raccontare che cambia.

Ma il modo di raccontare una storia non è secondario al contenuto della storia. Per tornare agli anni accademici (almeno ai miei), i formalisti russi asserivano che contenuto e forma sono assolutamente inseparabili e l’una incide e influenza l’altra. Ma allora cosa succede qui?
Tutto questo accumulo, la ripetizione, l’insistenza e la gragnola di parole ci portano all’alienazione. Una storia banale diventa un delirio. Siamo nel cuore del caos, in un big bang di suoni e significati sul punto di esplodere per dare vita ad un universo incontrollabile.
Il caos di queste parole è il caos delle nostre vite, perché il linguaggio è il mondo. O almeno, il nostro mondo, la sua voce più recondita.

E questo Queneau lo sa. Lui che ha esordito con i surrealisti, poeti che chiudevano gli occhi e andavano a pescare le parole nell’inconscio, così come erano suggerite dal caso (che guarda caso è un sinonimo di caos), con le associazioni che saltavano in mente. Ma, da sempre, Raymond ama le liste, le enumerazioni, gli inventari, le statistiche. Una delle sue poesie, L’erba: sull’erba non ho niente da dire suona — pressappoco — così:

“L’erba: sull’erba non ho niente da dire […]
Il vento: sul vento non ho niente da dire […]
La quercia: sulla quercia non ho niente da dire […]
Il topo: sul topo non ho niente da dire […]
La sabbia: sulla sabbia non ho niente da dire […]
La roccia: sulla roccia non ho niente da dire […]
La stella: sulla stella non ho niente da dire […]
La luna: sulla luna non ho niente da dire […]
Il cane: sul cane non ho niente da dire […]
La città: sulla città non ho niente da dire […]
Il cuore: sul cuore non ho niente da dire […]”

Se l’alba del XX secolo porta con sé la scoperta della psicanalisi, l’inconscio e la libertà della parola, il caos che si agita dentro ognuno di noi, la prima metà del secolo ci avvisa che questo caos, anzi, il caos, è matematica. Indovinate? La matematica è uno dei grandi amori di Queneau. Più ancora della matematica tout-court, l’autore francese cercherà tutta la vita di trovare la quadra tra letteratura e matematica, tra letteratura e scienza.
La matematica diventa per lui uno stimolo per la creazione letteraria, un modo serio di giocare con la letteratura. Soprattutto quella parte della matematica che si diverte a svelare i paradossi della realtà (il Novecento è anche il secolo di Gödel e del suo teorema di incompletezza, e di Schrödinger e del suo famoso gatto vivo e morto allo stesso tempo).

Questo amore per la letteratura e la matematica porta Raymond Queneau a fondare, insieme a François Le Lionnais, nel 1960, l’OuLiPo (acronimo di Ouvroir de Littérature Potentielle; ce ne parla Sanzia Milesi in un altro articolo di questo numero de Il Colophon n.d.r.), cioè l’Officina di letteratura potenziale: un gruppo di scrittori e matematici che utilizza tecniche vincolate (come ad esempio il lipogramma) per creare opere letterarie.

Dovendo semplificare l’evoluzione della sua euristica, Queneau passa dall’approccio più naïve e ingenuo dei surrealisti a quello rigoroso e metodico della matematica. Con le parole non si smette di giocare, ma lo si fa seguendo regole ben precise. In questo, forse, Queneau, nel suo percorso eclettico è un autore estremamente moderno, che ha saputo cogliere il disorientamento a cui la società è stata sottoposta negli anni delle grandi scoperte scientifico-matematiche.
Forse anche per questo si è lanciato nella scrittura della Piccola cosmogonia portatile, un poema sulla falsariga del De rerum natura di Lucrezio in cui esplora l’astronomia, la chimica, la biologia e le principali scienze umane.

Ma l’occhio di Queneau, anche quando si focalizza sulla scienza, lo fa da eretico. Nei primi anni ’50 diventa infatti membro del Collegio di ‘Patafisica. La ‘Patafisica secondo la descrizione che Alfred Jarry dà nel suo Gesta e opinioni del dottor Faustroll, patafisico, è “la scienza di ciò che si aggiunge alla metafisica […] la scienza del particolare, per quanto si dica che non vi è scienza se non del generale. Studierà le leggi che reggono le eccezioni e spiegherà l’universo supplementare a questo; o meno ambiziosamente descriverà un universo che si può vedere e che forse si deve vedere al posto del tradizionale”

Come ci si può immaginare, anche la ‘Patafisica ama utilizzare il nonsense, l’ironia, l’assurdo e il paradosso. Un altro importante letterato e patafisico, Boris Vian la definì così: “È forse quello che spiega il rifiuto che manifestiamo di ciò che è serio, di ciò che non lo è, poiché per noi, è esattamente la stessa cosa… è ’Patafisica”.

Anche in questo caso, Queneau ci mostra con leggerezza che si possono fare cose serissime giocando, e che anzi, il gioco è forse una delle attività più serie e complicate che abbiamo a disposizione. Come disse Lorenzo Trenti, giornalista italiano e autore di giochi: “Siamo qui per giocare, non per divertirci”. Ironia, paradosso, non-sense.

Abbiamo parlato tanto di gioco in queste righe, e forse varrebbe la pena provare a chiedersi che cosa sia il gioco, facendolo dire ad uno dei più importanti studiosi del settore: Johan Huizinga. Il grande studioso olandese propose questa definizione: “Considerato per la forma si può dunque […] chiamare il gioco un’azione libera: conscia di non essere presa «sul serio» e situata al di fuori della vita consueta, che nondimeno può impossessarsi totalmente del giocatore; azione a cui in sé non è congiunto un interesse materiale, da cui non proviene vantaggio, che si compie entro un tempo e uno spazio definiti di proposito, che si svolge con ordine secondo date regole, e suscita rapporti sociali che facilmente si ammantano di mistero o accentuano mediante travestimento la loro diversità dal mondo solito”.

Sembra di leggere Queneau, ma anche Italo Calvino, Umberto Eco, Jorge Luis Borges, Julio Cortàzar e tanti altri autori che a modo loro si sono divertiti a mescolare serietà e gioco, mistero e realtà, letteratura e matematica. Eppure, con le parole di Huizinga nelle orecchie viene da pensare ai koan, gli indovinelli non sense tipici del buddismo zen che possono all’improvviso spalancare le porte dell’illuminazione con un paradosso e una contraddizione non esprimibile, ma solo intuibile.
E allora, dovendo prendere la vita meno sul serio, immersi nel mistero in cui siamo, questa letteratura diventa la chiave migliore per interpretarla; per provare ad affrontare il senso recondito delle cose, l’ironia beffarda che ci circonda, ma anche l’inesplicabilità e la giocosità delle cose.

Può essere una risposta? Forse che sì, forse Queneau (“Forse che sì, forse Queneau” è un verso della poetessa italiana Giulia Niccolai che ha partecipato al Gruppo 63 e oggi è monaca buddista).

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