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I traduttori sono autori?

di Tim Parks

Un traduttore è o non è coautore di un testo? Se sì, ha o non ha diritto a ricevere delle royalties come accade per gli autori? Dopo una presentazione a Berlino ne discuto con due traduttrici esperte, Ulrike Becker e Ruth Keen. In Germania gli editori sono tenuti a concedere le royalties ai traduttori, ma nonostante ciò a Ruth è successo solo una volta di ricevere somme significative, in seguito all’inaspettato decollo di un libro su Napoleone: 10.000 euro. A Ulrike invece è toccato qualche migliaio di euro quando un romanzo si è imposto tra i bestseller. Altrimenti, spiccioli.

Perché? In quasi tutti i paesi i traduttori vengono remunerati con una tariffa a pagina, che, in presenza di royalty, è considerato un anticipo sugli eventuali guadagni. Se un traduttore statunitense, per esempio, viene pagato 8mila dollari per una traduzione e gli è riconosciuta una royalty dell’1% su un prezzo di copertina di 20 dollari, il libro deve vendere 40mila copie prima che incassi qualcosa di più. E 40mila sono tante.

In Germania però la legge stabilisce che il compenso iniziale non sia da considerarsi un anticipo. Al massimo gli editori possono fissare una soglia, solitamente a 5mila o 8mila copie, sotto la quale non vengono pagate le royalties, che qui si aggirano intorno allo 0,8 percento. Dato che in Germania i libri tradotti che vendono più di 8mila copie sono pochi, non sono molti i traduttori che beneficiano di questi accordi.

Ma anche un solo colpo di fortuna sarà meglio di niente, potremmo dire. O forse no. Ulrike mi racconta la storia di Karin Krieger, ex traduttrice di Baricco. Quando negli anni Novanta Baricco iniziò a vendere bene in Germania, Krieger cercò di convincere la casa editrice a onorare una clausola contrattuale che le garantiva «una giusta quota dei profitti» (ai tempi le royalties non erano obbligatorie). La casa editrice reagì facendo ritradurre i libri di Baricco da qualcun altro con un contratto a loro più favorevole.

Questa mossa fa riflettere. Piper non potrebbe mai privare Baricco delle sue royalties, dato che senza di lui non ci sarebbero stati né libri né vendite. Ma, per quanto fossero buone le traduzioni della Krieger, l’editore credeva di poter ottenere lo stesso risultato commerciale con un altro traduttore. Non che tradurre sia facile, ma raramente richiede un talento unico.

Gli argomenti a sostegno della lotta dei traduttori per il diritto alle royalties sono due. Il primo è di natura pratica: dato che gli editori sono sempre restii a concedere ai traduttori una paga consona alle loro competenze professionali e alle tante ore di lavoro, la royalty garantirebbe, quantomeno nel caso di un bestseller, di godere di una parte dei profitti. Il secondo è di natura concettuale: ogni traduzione è diversa e richiede una certa creatività, quindi la traduzione è una “proprietà intellettuale” alla stregua dell’originale.

Il problema con il primo argomento è evidente. Se prendiamo due traduttori con le stesse qualità e mettiamo il caso che uno traduca Cinquanta sfumature e l’altro i racconti di uno scrittore polacco sconosciuto, il primo guadagnerà una fortuna e l’altro qualche spicciolo. Si potrebbe obiettare che lo stesso vale per gli autori, ma in quel caso sono loro che decidono cosa scrivere; si esprimono come vogliono, sapendo benissimo come funziona il mercato.

Questo non vale per il traduttore, per cui tradurre un mega bestseller con una royalty è una manna dal cielo. Non devono neanche imbarazzarsi per i contenuti. Si racconta di un incontro in cui furono chiamati a raccolta i traduttori di Dan Brown per affidargli il romanzo Inferno e fornirgli qualche dritta su eventuali problemi traduttivi. I traduttori dei Paesi in cui gli editori sono costretti a concedere una royalty erano felicissimi. Agli altri invece non restava che l’amara riflessione per cui, quali che fossero le vendite, loro più di qualche migliaio di euro non avrebbero guadagnato.

Il secondo argomento è più interessante ma ugualmente problematico. Che la traduzione richieda creatività, è innegabile. Essendo io stesso un traduttore, non metterei mai in discussione la dignità del mestiere. Ma questo tipo di creatività può davvero essere considerato “autoriale”? Ecco tre versioni dell’incipit di Memorie dal Sottosuolo di Dostoevskij:

Sono un malato… Sono un malvagio. Sono un uomo odioso. Credo d’aver male al fegato. Del resto non so un corno della mia malattia e non so con precisione dove ho male. Non mi curo e non mi son mai curato, sebbene tenga in gran conto la medicina e i medici. Inoltre sono estremamente superstizioso, comunque abbastanza superstizioso da tenere in gran conto la medicina. (Son colto quanto occorre per non esser superstizioso, ma lo sono). No, non voglio curarmi per malvagità. Ecco una cosa che certo voi non vi degnerete di capire. Be’, ma io la capisco. Tommaso Landolfi, 1962

Io sono un uomo malato… Un uomo cattivo, sono. Un brutto uomo, sono io. Credo di essere malato di fegato. Però non capisco una mazza, della mia malattia, e forse non so neanche cos’è che mi fa male. E non mi curo e non mi sono mai curato, anche se stimo la medicina e i dottori. Oltretutto, sono superstizioso, moltissimo; be’ perlomeno tanto da stimare la medicina (ho studiato abbastanza da non essere, superstizioso, però sono superstizioso). No, ve’, io non voglio curami per cattiveria. E questo, probabilmente, è quello che non vi degnate di capire. Be’, invece io lo capisco. Paolo Nori, 2012

Sono un uomo malato… Sono un uomo cattivo. Un uomo sgradevole. Credo di avere mal di fegato. Del resto, non capisco un accidente del mio male e probabilmente non so di cosa soffro. Non mi curo e non mi sono mai curato, anche se rispetto la medicina e i dottori. Oltretutto sono anche estremamente superstizioso; be’, almeno abbastanza da rispettare la medicina. (Sono abbastanza colto per non essere superstizioso, ma lo sono.) Nossignori, non voglio curarmi per cattiveria. Ecco, probabilmente voi questo non lo capirete. Be’, io invece lo capisco. Viviana Faranga, 2015

Si possono fare mille considerazioni riguardo a queste traduzioni. Tre “sono” a inizio di frase per Landolfi, retoricamente molto forti; tre “sono” in posizioni diverse per Nori, suggerendo un atteggiamento più giocoso. Solo due “sono” per Faranga, in una versione più leggera. “Odioso”, “brutto” e “sgradevole” rimandano a tre qualità diverse; quale tra queste è più fedele all’originale? La traduzione più moderna introduce l’antiquato “Nossignori” dove la più vecchia ha solo “No” e Nori invece il colloquiale-regionale “No, ve’”. Ecc.

Ma nonostante le infinite sfumature diverse, è innegabile che le principali strategie stilistiche di Dostoevskij emergono in tutte e tre queste versioni. Anzi, più traduzioni abbiamo, più ci rendiamo conto di chi è Dostoevskij.

Allora, royalties sì o no? E se no, come retribuire degnamente i traduttori per il meraviglioso lavoro che svolgono? Per quanto mi riguarda, il problema è meno complesso di quanto non si pensi: non sarebbe, credo, impossibile mettere insieme un editore, un traduttore e, per così dire, un esperto nelle traduzioni di questa o quella lingua per stabilire quanto è impegnativo un testo, quanto tempo si richiede per tradurlo e quale sarebbe un compenso ragionevole. Forse le associazioni di traduttori farebbero meglio a concentrarsi su questo tipo di accordi, invece di impantanarsi nella controversa questione di autorialità e royalties.

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