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Grazia Deledda Nobel tragico & meritato

di Ugo Collu

La scrittura intensa, a tratti arcana di Cosima Grazia Deledda (1871-1936) affonda le radici nel contesto arroccato e doppiamente isolato della Barbàgia di fine Ottocento, laddove ai giovani, e tanto più alle donne era frenato, perlopiù precluso, ogni vitale confronto con la modernità. Nel silenzio, e di nascosto, Grazia si conquistò un suo spazio fra i libri, i grandi autori cristiani, a cui poteva attingere con la compiacenza di uno zio sacerdote o i classici russi il cui romanticismo assume i contorni di un drammatico realismo. Ma altre forme di ispirazione furono per lei la splendida natura della Sardegna, il vento infaticabile e il mare indecifrabile, che prendevano vita nei racconti della narrazione focolare, popolati da angeli e demoni, o da creature fantastiche, la cui esistenza era tramandata di voce in voce la sera dai vecchi, davanti al focolare. Il risultato è un unico grande romanzo in cui ogni pagina è esaltazione della terra natìa in un impasto in cui Bene e Male si confrontano, confliggono. Abbiamo affidato l’invito alla rilettura della Deledda a uno dei suoi massimi esperti, Ugo Collu (Ballao 1940): tra le sue opere, il Saggio introduttivo sulla geografia della Letteratura in «Canne al vento» (Ilisso, Nuoro 2008) e la curatela del Convegno: Grazia Deledda nella cultura contemporanea (2voll., Consorzio per la pubblica lettura «S. Satta», Cagliari, 1992).

 

Nel 1871, quando la Deledda vi nacque, nessuno sapeva neppure dell’esistenza di Nuoro: quel borgo accovacciato dentro un groviglio di rocce e di alberi secolari che ancor oggi sembrano provenire dai limiti del tempo, superstiti della lotta titanica con il vento e con il fuoco. Proprio al centro della Barbàgia. Da Barbària. Luogo di barbari, di «stranieri». Barbària è la stizzosa denominazione geografica attribuita dai Romani a quel territorio per differenziarlo nettamente dalla Romània (il territorio conquistato), perché, nonostante i vari e feroci tentativi, mai (i Romani) riuscirono a sottometterla completamente. Chi non risiedeva sotto il loro dominio era barbaro: «balbuziente», secondo la radice etimologica greca, non solo nella lingua ufficiale latina, ma balbuziente in tutto, antropologicamente e socialmente, cioè incivile, selvaggio. L’isolamento rendeva diffidente la società barbaricina alla brezza della modernità sempre più insistente negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento.

Un tale ambiente era troppo stretto per contenere i sogni di chi, soprattutto i giovani, voleva studiare, confrontarsi, uscire e realizzarsi secondo il dettato interiore. Grazia ne prese coscienza presto. Una forza irresistibile la spingeva a scrivere, a «raccontare» con la scrittura. E scriveva senza sosta. Ma di nascosto. Perché l’ambiente intero le si rivoltava contro. Scrivere infatti non era ritenuto un affare per donne. Per una ragazza poi soltanto leggere novelle e romanzi era segno chiaro di perdizione. Una ragnatela di pregiudizi, insomma, la mortificava già all’interno della famiglia, impedendole di accedere alla realizzazione del suo sogno, a quella intellettualità, cioè, riservata al sesso maschile.

Una lotta doppia la sua, immane. Nell’animo, il conflitto naturale della propria adolescenza e la fatica per dileguarsi dall’infanzia; all’esterno la lotta epocale di chi decide di rompere le gabbie dei pregiudizi atavici, rischiando la totale emarginazione.

Le fonti della formazione

Il primo rifugio di Grazia fu la lettura. Nella ricca e accogliente biblioteca dello zio Sebastiano, sacerdote, fratello della madre. Lì divorò libri su libri, di tutto, con avidità e disordine.

E forse fu quella la sua àncora. La Bibbia, testi apologetici di stampo cattolico da Tertulliano a Chateaubriand, ma anche i grandi del realismo russo come Tolstoj e Dostojevskij. Quelle letture lasciarono il segno nella sua formazione.

La lotta fra il Bene e il Male, la colpa e l’espiazione, il peccato e l’ansia di redenzione, il delitto e il castigo… Grazia di tali conflitti impregnerà l’intera opera, creando spesso una cupa solennità da tragedia greca, qualche volta senza catarsi e senza redenzione.

Nei suoi racconti la solenne religiosità biblica. I nomi stessi ricorrenti provengono dai Libri Sacri sia del Vecchio sia del Nuovo Testamento (Noemi, Ruth, Lia, Paulo Maddalena…).

La seconda fonte della sua formazione furono i contos de fochile (racconti del focolare). Li narravano i nonni nelle lunghe notti invernali, davanti al camino delle grandi cucine che fungevano anche da soggiorno collettivo. Ed erano voci provenienti da molto lontano. La voce dei nonni come ultimo anello della catena umana di saggezza ancestrale, trasmissione di precetti e insegnamenti, exempla e pathos, innervati spesso di superstizioni, di presagi inibenti, stregonerie, magie e di miti popolari. Quei racconti, nella compresenza dei morti con i vivi, sconfinavano nelle religioni pagane del Mediterraneo e a un esame approfondito hanno rivelato con chiarezza le contaminazioni (e i compromessi) che la stessa dottrina cristiana ha dovuto saggiamente e criticamente «assorbire» in particolare dai miti e dai riti dionisiaci; forse questi i più diffusi, prima che il Cristianesimo attecchisse.

Sempre dall’oralità la scrittrice mutuava i riferimenti che animano luoghi e paesaggi fino a trasportare il lettore in atmosfere di grande suggestione.

Dalle leggende e dalle convinzioni secolari aveva assorbito un atteggiamento mistico-magico per cui tutto si lega a tutto, nel bene e nel male: uomini, animali e cose.

Mi sentivo così felice che mi pareva di formare una cosa stessa con la natura1;

Il padre di Jorgj in ogni pietra vedeva un ricordo, in ogni sussurrio di sorgente ascoltava una leggenda2.

Versi appassionati d’antiche canzoni echeggiavano nelle lontananze azzurre, fra le rocce dove ancora vagano gli spiriti dei vecchi poeti selvaggi3.

Un mondo inquietante, parallelo, ci accompagna, ci segue e forse disegna il nostro destino.

Siamo soggetti a forze invisibili che agitano le nostre vite, a spiriti buoni e cattivi che abitano nascostamente non lontano dalle stesse nostre case, alcuni forse in castigo per l’espiazione di colpe innominabili; o a diavoli tessitori di fatalità e di tragedie (nei monti si narrava di caverne collegate con l’inferno), sotto la regia di un destino implacabile che a fronte di pochi attimi di quiete, ci tormenta, appunto, come «canne al vento».

Una terza fonte della sua formazione è stata la natura. Ne era innamorata. Nella sua quasi-autobiografia, Cosima, pubblicata nel 1937 (un anno dopo la morte) ci ricorda come fin da bambina la «studiasse» con puntiglio, la osservasse e contemplasse persino dalla finestra di casa affacciata sul monte Ortobene (una pittoresca montagnola che si innalza fino a oltre 1000 metri, un po’ il simbolo della città), fino a dipingerla con parole di indugio compiacente. Amava viverla col fratello Andrea che la conduceva nel podere di famiglia, introducendola, da maestro, alla vita dei pastori e degli animali, alla storia, ai colori, ai poteri e profumi di erbe, fiori e piante. Ne vediamo gli effetti nelle descrizioni che si traducono nel visivo di tutte le sfumature cromatiche proprie della verginità primordiale delle nostre campagne.

Certo, in quel giorno Cosima imparò più cose che in dieci lezioni del professore di belle lettere…4.

La lezione della natura è quella più evidente nei romanzi, trapuntati di paesaggi, densi di pathos, mai banali e scontati.

Sappiamo bene che non si può osservare a «occhio nudo». Non esiste la tabula rasa per la mente umana. Ma lo sguardo di Grazia non era certamente «appesantito» dai gusti letterari o estetici del suo tempo. Autodidatta, non era condizionata da teorie o da ideazioni a tesi. Tatto, vista, udito, odorato: questi i «pregiudizi» delle sue narrazioni. Immersi comunque nel vissuto quotidiano della tradizione barbaricina.

Ecco perché «parla» cose. Scrive «a pelle», creando quella scrittura «sensuale» e quelle atmosfere arcane che il mondo le ammira.

Grazia & la Sardegna

Ha dovuto quindi affrontare un lungo corpo-a-corpo per dare forma alle aspirazioni profonde, per rispondere alla voce interiore che la chiamava irresistibilmente alla scrittura.

Contro la famiglia, ma soprattutto contro la piccola e chiusa società di Nuoro in cui il destino della donna non poteva oltrepassare il limite di «figli e casa, casa e figli».

Cosima-Grazia reagì, trasgredendo le antiche leggi. Rivelando così da protagonista il travaglio della crisi epocale del mondo patriarcale (contadino e pastorale), incapace ormai di contenere e di promuovere le istanze affioranti nelle nuove generazioni.

Il bisogno di realizzarsi in spazi sociali aperti e vasti, la progressiva coscienza delle proprie capacità e il confronto con modelli comportamentali diversi da quelli imposti la poteva indurre ad assumere altre identità. Ma questo rischio era lontano dai suoi intendimenti. Se l’identità da un lato non può pensarsi stagnante, immobile e senza relazioni nutritive, dall’altro assumere l’identità di un altro significa perdere la propria, dare l’identità a un altro significa sottrargli la sua.

Cosima-Grazia ha seguito una strada esemplare: ha fatto esplodere le contraddizioni di una società ormai in declino, ma senza tradirne la radice identitaria profonda che la distingue da tutte le altre. I nuoresi non le hanno mai perdonato di essere andata via. La sua ribellione è stata interpretata come un «tradimento».

Invece, tutta la sua opera testimonia l’opposto.

Ogni pagina è l’esaltazione della sua Terra. Ne canta le feste, le bellezze, i costumi, i paesaggi. Tiene vivo il patrimonio delle credenze ancestrali del mondo contadino-pastorale, dove tra uomo e natura non ci sono mediazioni e cesure – e tanto meno quelle fredde, dettate dai simboli matematici – ma un contatto sensibile diretto in sintonia empatica stretta. Al punto che nel romanzo le loro vite non si distinguono l’una dall’altra; si fondono e si confondono come elementi complementari di uno stesso gigantesco organismo. Gli uomini ascoltano la voce della natura, ne interpretano segni e suoni; e la natura sembra accompagnare l’esistenza umana in tutte le manifestazioni con una partecipazione viva e intenzionale che va dal brontolio del bosco, al mormorio del ruscello, al tocco lieve di una foglia caduta nel deserto del silenzio…5 o al linguaggio delle canne, che tremano, frusciano, mormorano, sospirano, sussurrano, gemono; oppure vigilano, avvertono, carezzano, pregano…6.

La sera poi, quando

la giornata dell’uomo lavoratore era finita, cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti…7.

Il lettore si sente afferrato da un coinvolgimento «panico», dentro un «tutto» dove scorre un dialogo sottile fra uomini e cose, ma come sotto la regia di presenze arcane «trascendenti» (spiriti, folletti, panas e janas)8 alitanti intorno, negli spazi misteriosi dove la scienza non ha ancora posato i suoi dissacranti armamentari.

Il vento

Un cenno di approfondimento su questa «corrispondenza di sensi» fra moti d’animo dei personaggi e palpiti della natura. Il vento, per esempio. Forse, la presenza più significativa. È vero che la nostra Isola di Sardegna è ventosa. Ma nei romanzi della Deledda ce n’è di più. Tanto vento… Vento che rivela la temperie interiore dei personaggi. Vento a volte diabolico, distruttivo. Altre carezzevole, convincente, alito di grazia che ferma la mano dell’assassino. Vento che spinge con veemenza verso il peccato. Talora di disperazione e di morte, tale da coinvolgere l’universale, sfiorando l’apocalittico.

Ne La madre, quando Paulo ritorna in casa dopo aver incontrato l’amante Agnese,

gli sembrava che il vento avesse qualcosa di vivo, di ambiguo; lo spingeva e lo respingeva… Allo svolto della chiesa, l’impeto del vento fu così forte che egli dovette fermarsi…gli mancava il respiro; provò un senso di vertigine… Dentro di lui in quel momento nasceva qualche cosa di terribile e grande; si accorgeva, per la prima volta con piena coscienza, che amava la donna di amore carnale e che si compiaceva di questo suo amore…9.

E così quando (ancora ne La madre) Maria Maddalena insegue il figlio Paulo che nella notte si reca all’incontro amoroso con Agnese:

Gli ontani in fila davanti al parapetto della piazza della chiesa si sbattevano furiosi al vento, neri e sconvolti come mostri; al loro fruscio rispondeva il lamento dei pioppi e dei canneti della valle: e a tutto quel dolore notturno, all’ansito del vento e al naufragare della luna fra le nuvole, si confondeva l’angoscia agitata della madre che inseguiva il figlio10.

Ma la notte dell’amplesso, il vento trascende la ristretta simbologia psicologica, assumendo una figurazione quasi metafisica:

Il vento fuori strisciava più intenso: il diavolo limava la parrocchia, la chiesa, il mondo tutto dei cristiani11.

Il peccato del giovane sacerdote Paulo, cioè, aveva riflessi sull’intera cristianità, se non addirittura sull’intera umanità; ma è il vento che lo rivela e sottolinea. In Canne al vento esso è il contrappunto costante delle vicende. Una lettura diretta di questo capolavoro, insieme a Elias Portolu, (due opere fondamentali) aiuta molto più di questa breve introduzione a entrare nel mondo della Deledda e a capirla in profondità.

Donna sarda, donna libera

Come Cosima-Grazia si dileguò dal costume di «sottomissione» ai precetti della tradizione, così in parallelo la società con cui ella interagiva fu costretta a prendere coscienza della propria inadeguatezza alle nuove esigenze generazionali. Ancora oggi, la maturazione individuale di Grazia si riverbera criticamente, fecondandola, nella vita della comunità di appartenenza.

C’è voluto molto tempo – accennavo – perché fosse accettata e capita nella sua terra. Non diversamente avvenne, purtroppo, anche nell’àmbito della cultura ufficiale nazionale, italiana.

Ha dovuto lottare ancora, ma lo ha fatto nella semplicità della sua indole, senza mai «appoggiarsi» ai potenti «ismi» di moda, dentro cui avrebbe potuto trovare facile protezione (ma pagando con la sottomissione). Si attirò gelosie e astio da parte di scrittori affermati che si vedevano sorpassati (lei senza titoli accademici, anzi autodidatta) dal suo successo editoriale. Pirandello (premio Nobel nel 1934) le dedicò addirittura un libello12 maliziosamente allusivo (Suo marito) nel quale attribuiva il successo letterario alle doti manageriali del marito più che a meriti personali.

Era una donna libera. Come ha ben sottolineato Carlo Bo (uno dei più stimati critici italiani) nel discorso commemorativo in Campidoglio per la celebrazione del 50° dalla morte,

ciò che aveva da dire lo ha detto, e nella maniera più disinteressata e più pura, non ha ceduto a tentazioni né al gusto delle speculazioni, epperò è stata la scrittrice più libera che il secolo abbia avuto13.

Il Presidente della Fondazione Nobel, prof. Heinrik Schuck nel discorso della premiazione, dopo aver richiamato la volontà di Alfred Nobel che voleva si assegnasse il Premio per la letteratura «a chi con le sue opere letterarie avesse dato all’umanità quel nettare che infonde salute e energia di vita morale», prima di leggerne la motivazione, nel suo discorso si soffermò sui caratteri dell’opera. Ne cito alcune espressioni:

più che nella maggior parte di quelli di altri autori, uomini e natura formano come un tutto. Si direbbe quasi che i suoi personaggi siano piante germogliate dal suolo stesso della Sardegna. In maggioranza sono popolani, semplici, primitivi nel loro modo di pensare e di sentire, ma con qualcosa in sé della grandiosità della natura sarda. Parecchi hanno quasi l’impronta di figure monumentali del Vecchio Testamento…

E ancora:

Da vera grande artista Grazia Deledda sa incorporare alle scene della natura le rappresentazioni dei sentimenti e delle costumanze del suo popolo.

Tutto ciò ben illustra la grandezza che ci piace di questa nostra scrittrice, ben sintetizzata dalla motivazione del Nobel. Si assegna il Nobel per la letteratura a Grazia Deledda: «Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano»14.

 

 

1 Grazia Deledda, Colombi e sparvieri, Ilisso, Nuoro 2005, p. 97.
2 Colombi e sparvieri, cit., p 84.
3 Grazia Deledda, La via del male, Ilisso, Nuoro 2007, p. 46.
4 Grazia Deledda, Cosima, Ilisso, Nuoro 2005, p. 79.
5 Clara Incani, Luoghi, paesaggi, uomini per voce di Grazia Deledda, Scuola Sarda Editrice, Cagliari 2007.
6 Grazia Deledda, Canne al vento, Ilisso, Nuoro 2005 pp. 28, 205, 211 (passim).
7 Canne al vento, cit., p 28.
8 Canne al vento, cit., pp. 28, 29.
9 Grazia Deledda, La madre, Ilisso, Nuoro 2005, p. 46.
10 La madre, cit., p. 30.
11 La madre, cit., p. 32.
12 Suo marito (1911).
13 Vedi Ugo Collu (a cura) Grazia Deledda nella cultura contemporanea, Consorzio per la pubblica lettura «S. Satta», Nuoro 1992, p. 41.
14 H. Schuck, «Discorso ufficiale per il conferimento del Premio Nobel a Grazia Deledda», Grazia Deledda Premio Nobel per la letteratura 1926, Fabbri, Milano 1966, p. 22.

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