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Jane Eyre e il contagio

di Francesca Massarenti, dottoranda in anglistica presso l'Università Ca' Foscari di Venezia e coautrice di Ghinea, newsletter femminista.
Fonte: Il Tascabile

Jane Eyre e il contagio

Come un classico della letteratura inglese può aiutarci a vivere nella pandemia.

di Francesca Massarenti, dottoranda in anglistica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e coautrice di Ghinea, newsletter femminista

Immagine tratta da “Jane Eyre”, Cary Fukunaga. 2011

Prima di diventare istitutrice, prima di isolarsi nella villa di campagna di Mr. Rochester, Jane Eyre sopravvive a un’epidemia. Dopo appena una manciata di capitoli, il romanzo eponimo (1847) di Charlotte Brontë conduce la protagonista, orfana e mal sopportata dai parenti adottivi, presso un’istituzione caritatevole, un collegio per bambine e ragazze di pochi mezzi. Lowood è un edificio insalubre, eretto sul fondo di una conca umida e isolata da una cappa boschiva. Il corpo docente fa del proprio meglio per insegnare rudimenti di storia, francese, disegno e cucito, nonostante le risorse irrisorie. Il direttore, Mr. Brocklehurst, vieta la distribuzione di sufficienti aghi da rammendo, ma si lamenta dei buchi nelle calze stese ad asciugare. Un solo colletto a settimana deve bastare, e tutte le trecce che escono dalle cuffie devono essere tagliate. In mensa le porzioni sono risicate, e il cibo è pessimo: porridge bruciato, patate insapori con sfilacci di carne rancida, per cena tozzi di pane e caffè e, come premio della domenica, una fetta, intera, di pane imburrato.

Gli ambienti sono lasciati alla temperatura stagionale: a gennaio l’acqua dentro i catini ghiaccia, e le alunne non possono lavarsi il viso e pulirsi le unghie. L’unico caminetto è troppo piccolo per scaldare tutte, e le più deboli restano ai margini del cerchio che si assiepa vicino alla fiamma per scaldarsi. Nonostante le privazioni di Lowood, Jane è animata dalle migliori intenzioni: vuole studiare e creare amicizie – e ci riesce, con Helen Burns, una sorta di santa tredicenne che parla come un libro stampato. Il loro primo incontro avviene nel giardino della scuola – circondato da mura così alte che ostruiscono la vista del paesaggio – dove le alunne passano la loro ora d’aria anche d’inverno, il capo coperto da un cappello di paglia.

Helen Burns legge al riparo di una tettoia, e spesso dà colpi di tosse. Helen è malata di tubercolosi, la patologia che Susan Sontag, in Malattia come metafora (1978) chiama “una malattia del tempo: accelera la vita, le dà risalto, la spiritualizza”. “La letteratura ottocentesca è piena di descrizioni di morti beatifiche di TBC, esenti da terrori e quasi da sintomi, soprattutto di giovani […]” nota Sontag. Al capezzale di Helen, Jane Eyre osserva “la sua faccia pallida, emaciata, però composta”: la consumption letteraria non ripugna e non mortifica la dignità, né della paziente né di chi l’assiste. “È disgregazione, febbrilizzazione, smaterializzazione, è una malattia di liquidi […] e di aria, il bisogno di un’aria migliore” scrive Sontag.

La tubercolosi è anche la malattia che decimò la famiglia Brontë – le sorelle maggiori Maria ed Elizabeth morirono nella primavera del 1825, Branwell morì a settembre 1848, Emily a dicembre 1848 e Anne a maggio 1849 – cronicizzandosi nei polmoni di Charlotte. Si pensa che le Brontë maggiori avessero contratto la TBC durante il loro breve soggiorno presso Cowan Bridge, un austero collegio per figlie di sacerdoti, dove alla frugalità richiesta alle alunne non corrispondeva un’adeguata attenzione all’igiene in cucina. Un’epidemia di tifo – probabilmente febbre tifoide causata da acqua e cibo contaminati dal batterio della salmonella, non il tifo esantematico trasmesso dai pidocchi infettati dal batterio rickettsia – motivò il ritiro di Maria ed Elizabeth dalla scuola, e ispirò la storia che Brontë avrebbe inventato per Jane Eyre.

Il contagio a cui Jane Eyre scampa a Lowood, infatti, è tifo, la malattia che fa salire la febbre fino al delirio, e che la mente vittoriana associa a spazi poveri, insalubri e affollati. La valle in cui sorge Lowood è “culla di nebbie portatrici di epidemia”, che con l’arrivo della primavera permeano aule e dormitori gremiti, e trasformano “la scuola in un ospedale”. In anticipo sui postulati della microbiologia sul ruolo dei microorganismi nella diffusione di patologie, Brontë descrive – affidandosi all’antica dottrina miasmatico-umorale – un ambiente contaminato, in cui la malattia è causata dal miasma dell’aria, e rintracciabile dal cattivo odore.

Le “necropolitiche” sono capaci di costringere gruppi e masse di persone a forme di vulnerabilità, pauperizzazione e precarietà tali da confondere il margine tra vita e morte.

Vapori, nebbie, umidità portano, da fuori, il morbo, ma Brontë intuisce che, dentro la scuola, inedia e negligenza nel ripararle dal freddo hanno indebolito le ragazze. I rimedi adottati dalla scuola per allontanare il tanfo – canfora, aceto bruciato, preparati aromatici fumiganti – sortiscono scarsi risultati. Di ottanta allieve, la metà si ammala: alcune muoiono a scuola, altre tornano a casa solo per morire in famiglia. Per quelle immuni, intanto, le lezioni si interrompono e le regole si allentano: Jane trascorre le giornate girovagando per boschi e campi e, per la disattenzione della nuova cuoca, mangia di più e meglio (un’intera fetta di pasticcio freddo!). La vecchia cuoca e gestrice avara della dispensa scappa per paura del contagio, così come il direttore Mr. Brocklehurst si tiene lontano da Lowood, trascurando l’amministrazione ordinaria del collegio. Le insegnanti, invece, si improvvisano infermiere.

Nel saggio Necropolitics (2003) (Necropolitica, 2016), Achille Mbembe amplia il concetto foucaultiano di “biopotere” – sovranità che si esprime nella capacità di dirigere e ottimizzare la vita – descrivendo il suo rovescio: un potere capace di discriminare, con impunità, chi può vivere da chi deve morire. Mbembe descrive le condizioni materiali che consentono al soggetto detentore di potere di uccidere, ferire, lasciar vivere o lasciar morire. In pratica, quali tecnologie e prassi consentono la formazione di “necropolitiche”: la capacità di costringere gruppi e masse di persone a forme di vulnerabilità, pauperizzazione e precarietà tali da confondere il margine tra vita e morte.

La “morte-nella-vita” – che Mbembe osserva nell’istituto della schiavitù, nella storia coloniale, nell’organizzazione dei campi di sterminio e nel conflitto israelo-palestinese – si appoggia a pratiche violente che causano “la condizione permanente di ‘vita di dolore’”. Per esempio: umiliazioni e offese pubbliche, dimostrazioni di violenza, pestaggi, sorveglianza, confisca di oggetti personali, coprifuoco, revoca di servizi e sequestro di beni primari. In Jane Eyre, l’urgenza sanitaria a Lowood scoperchia un sistema condotto allo stremo delle risorse e basato su un meccanismo interno di repressione e controllo. Il nonnismo delle allieve più grandi contro quelle piccole – cui viene rubato il cibo e incapaci di scaldarsi vicino al fuoco – non è condannato. Apposite figure “monitorano” il decoro delle compagne, frugando nei loro cassetti per denunciare le più disordinate. Le alunne che svengono dopo la camminata di due miglia per la messa domenicale sono costrette a stare in piedi al centro della stanza. Unghie sporche valgono una punizione davanti a tutta la classe. È celebre la scena in cui Mr. Brocklehurst invita tutta la scuola a non rivolgere più la parola a Jane Eyre.

Lo stesso Mr. Brocklehurst che vuole rendere le sue collegiali “robuste, pazienti e modeste” a forza di austerità e denutrizione si fa accompagnare nelle sue rare visite a Lowood da moglie e figlie “abbigliate di velluto, seta e pelliccia”, il capo coperto da un cappello di castorino da cui pendono trecce e riccioli. Con l’arrivo del tifo le visite si interromperanno: chi ha il potere di salvarsi ha anche il potere di scegliere chi proteggere e chi lasciare vulnerabile all’infezione. Se la vita delle orfane è poco preziosa, la loro morte è di conseguenza meno dolorosa, il lutto di chi le piange meno acuto? C’è qualcosa di sinistro nella presunzione che la scomparsa di vite ordinarie, oscure e povere non abbiano alcun impatto sulla qualità delle esistenze che continuano. Cancellare nomi e numeri, privatizzare il dolore, nasconderne gli effetti sul corpo, autorizzare il lutto solo in relazione a certi legami, in proporzione a una precisa distanza fisica o comunità di sangue può mantenere integre le apparenze, ma non prepara alla vita che continua. Nel saggio del 2003 “Violenza, lutto, politica” – contenuto in Vite precarie (2004) – Judith Butler scrive: “Ammettiamolo. Ci disfiamo l’uno con l’altra. E se non ce lo concediamo, ci perdiamo qualcosa”. Il testo si prefigge di indagare esattamente quello che Butler elenca nel titolo, la triangolazione tra violenza, lutto e politica. “La perdita ci rende un ‘noi’ tenue”: se da una parte Butler rivendica l’importanza di ogni corpo nella composizione di un gruppo sociale, è cosciente di quanto differiscano i segni del lutto – alcune vite appaiono meglio vissute, a certe morti segue un dolore più grande.

Rifiutare l’idea del lutto come un’esperienza privata, solitaria, apolitica (Butler scrive proprio “depoliticizing”) significa riformulare l’automatismo con cui accettiamo l’anonimato di certe morti. Jane Eyre ricorda e rimpiange l’amica Helen Burns, per anni sa come ritrovare la sua tomba senza lapide nel cimitero della scuola.

Insieme alla perdita avviene la trasformazione: di sé, dell’ordine delle cose, dei legami tra le persone. Il trauma collettivo, Butler auspica, può diventare un collante per la comunità: non come un lutto da superare insieme, ma come una forma di dolore che riverbera nelle nostre prassi politiche, perché impresso nella memoria. Dalla coscienza della propria vulnerabilità può derivare una forma di responsabilità collettiva, in cui ognuno si prende cura dell’altro. L’epidemia di Lowood, alla lunga, si placa, ma non prima che “la sua virulenza e il numero di vittime avessero attirato l’attenzione pubblica sulla scuola”. Jane Eyre segnala le numerose inchieste avviate per verificare le condizioni della scuola: “il risultato fu mortificante per Mr. Brocklehurst, ma vantaggioso all’istituzione”.

Insieme alla perdita avviene la trasformazione: di sé, dell’ordine delle cose, dei legami tra le persone.

Con la raccolta di nuovi fondi privati, Lowood può essere sanificata e ammodernata, l’ufficio repressivo di Mr. Brocklehurst sostituito da un comitato capace di combinare “ragionevolezza e rigore, agio ed economia, compassione e rettitudine”. Jane Eyre completa i suoi studi a Lowood in sei anni, e resta altri due come insegnante, lodando il valore della scuola. Che l’esito positivo per il collegio di Jane Eyre sia stato conquistato a caro prezzo informa la costruzione della vita sociale dopo il disastro: per Jane Eyre è fondamentale la presenza di Miss Temple, insegnante e poi collega, punto di riferimento sia durante l’emergenza che dopo, tanto che Jane non si sente più la stessa dopo la sua partenza dalla scuola.

Con Lowood, però, Brontë ha inventato un sistema capace di funzionare – garantendo vivibilità, costruendosi una buona reputazione, suscitando senso di appartenenza di chi lo compone, desiderio di cura reciproca – in maniera indipendente dalla presenza di certe figure in carica: Mr. Brocklehurst, infatti, per via “del suo patrimonio e connessioni di famiglia”, non viene allontanato da Lowood, ma demansionato a tesoriere. Soprattutto, la tragedia non sembra aver reso Lowood oggetto di speculazione, al contrario, ogni investimento ha portato un beneficio comunitario. Riqualificazione, per Brontë, non equivale a gentrificazione.

Il memoir di Sarah Schulman The Gentrification of the Mind. Witness to a Lost Imagination (2013) (“Gentrificazione della mente. Testimonianza di un’immaginazione perduta”, inedito in Italia) riesuma la storia dell’epidemia di AIDS negli Stati Uniti dal 1981 al 1996: per omaggiare il ricordo di chi è morto, ma soprattutto per collegare alla loro scomparsa lo sviluppo edilizio che ha cambiato aspetto e demografia di New York. Schulman esplora le conseguenze reali – e opposte a quelle che Brontë immagina – che un’epidemia innesca nel tessuto sociale, economico e urbano che ha contagiato. L’arrivo del virus HIV fu una coincidenza tragica, ma cruciale per l’accelerazione del piano di riqualificazione che la municipalità di New York aveva intrapreso dagli anni Settanta. Ovvero, politiche di detassazione a favore di imprenditori immobiliari interessati a riconvertire proprietà poco redditizie situate in quartieri a basso reddito per attirare acquirenti e affittuari più benestanti. Il fatto che migliaia di inquilini lasciassero sfitti, morendo di AIDS, appartamenti ad affitto bloccato generò un influsso di proprietà disponibili, riqualificabili, e affittabili a canoni di mercato maggiorati.

La gentrificazione che Schulman lamenta non è solamente edilizia – “Il processo di sostituzione era così meccanico che potevo davvero sedermi sui gradini del mio ingresso e osservarlo svolgersi” – è culturale, ed è una crisi di gestione e immaginazione politica. La negligenza che, mantenendo intatti gli ostacoli per i malati – “povertà, dipendenza e sottosviluppo, i migliori amici dell’HIV” – all’inizio della crisi ha permesso al virus di diventare pandemia, dopo la crisi è diventata vaghezza, defezione di responsabilità, oblio di nomi e volti di chi non c’è più. “Il vero privilegio della supremazia – l’abilità di negare che le altre persone sono reali – diventa il difetto fatale che ci trattiene dall’integrità collettiva come società”.

Schulman scrive che l’abitudine a vedere così tanti amici trentenni dentro bare e urne ha cambiato la sua visione della mortalità, e possiamo solo speculare che Charlotte Brontë abbia affrontato qualcosa di simile, sotterrando tutte le sue sorelle. Da entrambe impariamo che, per chi sopravvive a un’epidemia, sopravvivere al lutto richiede risorse che la propria forza da sola non può garantire. L’oltraggio per la morte evitabile è un’ansia sterile se si materializza in un memoriale, un mausoleo, una campagna di prevenzione, ma non pretende il tempo per incontrare il lutto, lo spazio per tenerlo a mente quando si riprende a vivere. Accettare la frattura con il passato è imprescindibile, se chi vive vuole onorare il morire, prima del tempo, di tanti.

Fonte: Il Tascabile
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