Rebecca libri

La fedeltà del traduttore. Conversazione con Maurizia Balmelli

di Isabella Mattazzi

Tu sei la voce italiana di Cormac McCarthy, Àgota Kristòf, Emmanuel Carrère, Aleksandar Hemon, J.M.G. Le Clézio, per citare soltanto alcuni tra gli autori che hai tradotto. Qual è il tuo rapporto con uno scrittore al di là del suo testo?

A questa domanda posso rispondere con due esempi opposti: il mio rapporto con Noëlle Revaz e quello con Aleksandar Hemon. Noëlle Revaz l’ho contattata prima di iniziare a tradurre il primo dei suoi libri (Rapport aux bêtes, in italiano Cuore di bestia, Keller editore) perché era evidente che la lingua con cui aveva costruito quel romanzo era un lingua creata da lei, nata con lei, un sistema a me ignoto e a se stante, retto da regole interne. E dal momento che io dovevo rapportarmi a quel preciso sistema e in qualche modo restituirlo, mi sono detta che forse lei avrebbe potuto darmi una chiave, suggerirmi una modalità di accesso a un testo così complesso. Così le ho scritto una mail-SOS – cui ne sarebbero seguite tante altre piene di frasi a me oscure, punti interrogativi, sospensioni. La sua riposta, molto semplice, è stata: “Sì, è vero, ho creato una lingua, quindi adesso a te tocca scrivere”.

Con Aleksandar Hemon, di cui sto traducendo il quarto libro, (The Making of Zombie Wars), le cose sono andate in maniera ben diversa. Hemon non è una persona molto facile da approcciare, è spigoloso, ha una qualità del carattere che definirei “minerale”. Ci siamo incontrati per la prima volta al premio Von Rezzori che aveva vinto con Il progetto Lazarus, il primo tra i suoi libri da me tradotto per Einaudi. In quell’occasione è stato tutto abbastanza faticoso, io ero tesa, legata, lui non mi aiutava granché, insomma, tra noi c’era una bella barriera. Poi, nel tempo, una traduzione dopo l’altra, Hemon ha forse cominciato a seguire il mio lavoro, mi ha conosciuta “per interposta persona” potremmo dire – i suoi libri tradotti – e il suo atteggiamento nei miei confronti mi è sembrato cambiare. La mattina dopo l’attentato a Charlie Hebdo, ero a casa, a Parigi, e mi è arrivato un suo messaggio: “Signora, are you in town?”. Stavo partendo per Torino e per un soffio ci siamo mancati, ma lì ho capito che si era aperta una via. Aveva fatto un passo verso di me. Questa estate è tornato a Parigi, mi ha scritto, ci siamo visti. Mi aspettava leggendo Elena Ferrante appoggiato a un semaforo, quando sono arrivata – non lo vedevo dal 2011 e soprattutto non ci eravamo mai realmente parlati – ha detto “Hey”, ha sorriso e abbiamo cominciato a parlare fitto fitto, come se si fosse concretizzata all’improvviso una relazione, un dialogo che c’era già in potenza, ma che non si era mai attivato. Adesso ho la sensazione di avere un legame molto profondo con lui, una sintonia che però non deriva soltanto da quell’incontro parigino, ma da una vera e propria svolta all’interno del mio percorso di lavoro sulla sua scrittura. Traducendo Amore e ostacoli, il suo terzo libro, mi sono accorta a un certo punto che avevo definitivamente superato un confine, ero entrata nel suo territorio, nella sua terra, e al di là delle parole che stavo traducendo, al di là della parola del testo, ho avuto una vividissima sensazione di vicinanza. Questa cosa si avvicina molto al mio concetto di fedeltà traduttiva. Tra le varie declinazioni del termine, la fedeltà del traduttore per me è anche e soprattutto una fedeltà all’intenzione dell’autore. Con Hemon ho la netta impressione di essere fedele al testo anche se paradossalmente mi prendo parecchie libertà. Hemon è uno scrittore dotato di notevole umorismo, che se non della sua vita è sicuramente uno dei motori della sua scrittura, ma si tratta di un umorismo molto secco, witty, spesso non immediatamente accessibile. E io, che ho un senso dell’ umorismo un po’ décalé, credo di avere finalmente colto il suo. Tanto che, quando traduco, ho talvolta il sospetto di ricorrere a inflessioni umoristiche che in quel preciso punto nell’originale non ci sono, ma che sono comunque “sue”.

Mi diverte molto la risposta di Revaz alla tua mail: “ho creato una lingua, quindi adesso a te tocca scrivere”. Qual è il tuo rapporto con la scrittura intesa come pratica letteraria?

Vengo da una scuola di scrittura. Il mio punto di partenza è la scrittura. In seguito il mio percorso ha virato verso la traduzione, ma la scrittura letteraria rimane sempre per me qualcosa che “esiste”, che c’è, anche se sottotraccia. Dopo un periodo di primo rodaggio come traduttrice, quando ho preso il volo, ho cominciato ad avere l’impressione che la mia parola potesse attivarsi solo in funzione della parola di un altro. Ogni volta che rileggo le mie traduzioni, anche a distanza di anni, rimango molto colpita dall’alchimia della mia lingua a contatto con la lingua di un autore. Daniele Del Giudice racconta che lo scrittore affronta, scrive su una pagina bianca, mentre il traduttore affronta, scrive su un pagina nera. Ecco, la pagina nera, la pagina già scritta da un altro, per me è l’indicatore, il radar che garantisce che la mia scrittura non sbandi, che trovi il cammino. Per assurdo, l’editor con cui collaboro da parecchi anni, Grazia Giua, mi dice che adesso, con Hemon, faccio più errori di traduzione di un tempo. Ma con questo non intende dire che la resa sia peggiorata. Semplicemente faccio più errori perché mi lascio molto più andare, prendendomi libertà consentite da un autore così cristallino, talmente cristallino, da far sì che io possa davvero “scrivere”.

Detta così la tua modalità traduttiva sembrerebbe essere molto istintiva, non mediata…

Diciamo che quando traduco è come se si aprisse nel mio cervello un canale del tutto autonomo che io chiamo “il canale giustificazionale”, ovvero un canale che ogni volta si sintonizza in automatico sulle scelte traduttive che faccio e le difende, le giustifica anticipando eventuali obiezioni del lettore e dell’editor. È come se nel mio cervello ci fosse un analista dei dati che li analizza per conto suo, li stocca, mentre io vado avanti in un modo che apparentemente sembrerebbe del tutto asistematico e non mediato. Nella prima stesura di una traduzione, spesso per una singola parola mi appunto due o tre termini ipotetici, che a volte si contraddicono addirittura l’un l’altro. La mia editor, che nella scuola di Torino dove tengo il mio laboratorio di traduzione ha tenuto per vari anni un modulo sulla revisione editoriale, per dare una chiave di lettura agli studenti rispetto alle tipologie di traduzione usa le pietre: presta alle diverse traduzioni le caratteristiche di altrettante pietre preziose e semipreziose. Io per lei sono un lapislazzuli, pietra composita, piena di bagliori, pagliuzze, guizzi, con tante interferenze brillanti e altre più opache, una pietra irrisolta, insomma, molto dinamica, non finita.

Spesso, quando parli del lavoro di traduzione, sottolinei come ogni traduttore immetta nel testo su cui sta lavorando, non tanto una serie di competenze acquisite, quanto “la propria vita, in termini di esperienza letteraria e non”. Che cosa significa?

La lingua e la vita non sono due cose distinte, la nostra sensibilità nei confronti della lingua è influenzata dal nostro modo di stare al mondo e viceversa.

In Cuore di bestia della Revaz c’è un personaggio diciamo così molto primitivo, Paul, che cresce, si forgia in rapporto all’evoluzione della propria lingua, cercando, dal brodo primordiale dell’inizio, strade per conoscersi, per diventare eloquente a se stesso; in questa continua ricerca sbanda, è come un bambino che muove i primi passi, la sua lingua ha un’andatura da ubriaco, da pinguino. In questo continuo sbandamento sintattico, questo personaggio ha in sé, io trovo, una grazia assoluta; il bisogno, l’urgenza che Paul ha di comunicare con se stesso prima ancora che con il mondo raccontano la meraviglia del nascere a se stessi. Mentre traducevo, Paul mi ha ricordato un personaggio del primo libro che ho tradotto, nel ’99: Io sono il tenebroso di Fred Vargas (Einaudi). In questo romanzo c’è un giovane ventenne, Clément, chiaramente affetto da ritardo mentale, che abita nelle vicinanze (o forse lavora come bidello, non ricordo) di un istituto universitario. A tempo perso, frequenta i corsi più svariati e come una spugna assorbe i linguaggi delle varie discipline facendone un uso completamente stralunato, scriteriato, meraviglioso nella sua follia. Ecco, quando, traducendo, Clément di Vargas e Paul di Revaz sono entrati in contatto (nonostante i 15 anni che nella mia vita di traduttrice li separavano), gli echi del primo sono andati a nutrire la “creazione italiana” del secondo. Questo è solo un esempio di come si possa “immettere in un testo la propria vita in termini di esperienza”.

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