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La letteratura deve per forza essere conservatrice?

di Cristiano de Majo

Sull’idea che il passato sia un’epoca d’oro da vagheggiare, mentre il presente – qualunque presente – sia un tempo di corruzione morale e intellettuale in cui tutti si sono instupiditi è stato scritto tanto. Ricordo tra le molte cose una divertente polemica di qualche anno fa tra Pascale e Citati sui pomodori di una volta. In quell’occasione Pascale, che da tempo cerca di smontare il cosiddetto «sapere nostalgico» soprattutto sui temi dell’agricoltura e dell’alimentazione, ironizzava sull’idea che i pomodori di una volta fossero più buoni e più sani, come sosteneva invece il critico, che avessero “sapore” mentre adesso non ce l’hanno più.

Il “pomodoro di una volta” è una categoria che può essere applicata a qualunque cosa. È comprensibile che le vecchie generazioni si trovino in difficoltà nel capire o nel trovarsi a proprio agio nel presente – qualunque presente – e finiscano per aggrapparsi alle certezze del passato (il sapore dei pomodori, il servizio militare, le grandi ideologie o l’assenza di internet), è più peculiare invece che un atteggiamento simile sia coltivato dagli intellettuali e in particolare dagli scrittori. Peculiare non vuol dire che sia una novità, che non si tratti di qualcosa con una casistica e una tradizione – il tema è enorme e potremmo chiamare in causa Tolstoj, Balzac, Pasolini, La dialettica dell’illuminismo e mille altre cose –  ma di qualcosa che ha una spiegazione meno immediata, meno automatica.

Vorrei restare sul presente con due fatti minimi, che prendo in considerazione non perché siano particolarmente “gravi” o emblematici ma perché sono i più recenti a essermi capitati sotto gli occhi. A novembre in un’intervista rilasciata ad Andrea Coccia e pubblicata su Pixarthinking in occasione dell’uscita del suo libro Le otto montagne, Paolo Cognetti paragonava l’uso dei social alla tossicodipendenza: «Si chiama disintossicazione. Bisogna usare le stesse tecniche che si usano con la tossicodipendenza, perché di quello si tratta. Imporsi almeno una dieta. Io la sera spengo il telefono. O anche la domenica. È violento, ed è inutile negare che a questo punto delle nostre vite sia difficilissimo, perché ci sembra di strapparci un pezzo di carne di dosso. Ma è necessario» E poi: «Immagino che ci aspettiamo che la letteratura inglobi questa tossicità perché la letteratura è lo specchio delle nostre vite e ora, nelle nostre vite, questa tossicità indubbiamente c’è. Dopodiché, per fortuna, la realtà non è solo quella ed esistono ancora posti al mondo dove queste cose non ci sono». Secondo esempio, un’intervista a Michele Mari di Carlo Mazza Galanti pubblicata sul Tascabile, in cui usciva fuori questo pensiero, poi, paradossalmente, finito e condiviso tantissimo sugli stessi vituperati social: «A me solo la parola “social” fa vomitare. Io sogno un mondo di gente silenziosa triste e implosa, un mondo autistico dove non ci siano happy hour, feste di laurea, feste di compleanno, feste aziendali, cazzeggi, risse, ubriachi. Fondamentalmente come modello di vita ho la DDR di Honecker, un mondo depresso dove tutti hanno la Trabant o la bici, dove non ci sono SUV, non ci sono stronzi, dove tutti i depressi tornano a casa la sera alle sei, si chiudono dentro col coprifuoco, si mangiano una minestra di cavolo e sentono Brahms. Mi sembra la cosa più vicina alla mia idea di paradiso». E poi: «[Per fare grandi opere] devi essere uno straniero, devi essere un marziano. Io mi sento un marziano. Quando vedo un mondo fatto di telefonini, di iPhone, di iPad, di internet, di Facebook, impazzisco».

Si può facilmente obiettare che non c’è niente di male che due scrittori esprimano una loro idea di mondo, e che in fondo si tratta soltanto di due su chissà quanti. Ma a mio avviso Mari e Cognetti rappresentano una postura nei confronti del presente che tra scrittori e intellettuali è molto più diffusa del suo opposto – “il pomodoro di una volta” –  ed è pure chiaro che nel momento in cui esprimono quest’idea, soprattutto se lo fanno con toni così apocalittici, stanno dando un giudizio: evidentemente è un tempo che rifiutano, che trovano regressivo, che non gli interessa. Allo scrittore il compito di fustigare i nuovi costumi. Al lettore, che cerca un guru che vidimi la sua insoddisfazione esistenziale o il suo moralismo, condividere sui social.

È vero, come dice Cognetti, che la realtà «non è solo» quella dei social, degli smartphone, di Google o dei droni, ma queste sono la novità, ciò che più di tutto caratterizza la nostra epoca e il modo in cui le persone impiegano il loro tempo. Ecco, io mi chiedo, può uno scrittore essere disinteressato a tutto questo? Può liquidare tutto con due parole di sdegno? Può coltivare un’idea di letteratura atemporale e nutrirsi, come in una forma di cannibalismo, soltanto di altra letteratura? Naturalmente può. Per quanto mi riguarda finisce di essere interessante, di incuriosirmi, e non riesco a non pensare che stia rifiutando la fondamentale, per chi fa letteratura da sempre, sfida della forma e del contenuto.

Così come continuo a chiedermi perché gli scrittori facciano così fatica a usare in modo naturale nelle loro storie cose, mezzi, aziende che stanno tutti i giorni dentro le nostre vite, da Whatsapp a Google Maps, come se il semplice nominarli avesse il potere di – mi si passi il termine – deletterarizzare il testo. In questi anni non sono tanti gli scrittori che lo hanno saputo fare. Mi viene in mente Ben Lerner, che sul rapporto tra maps e memoria emotiva ha scritto alcune delle pagine più belle del Mondo a venire. Mi viene in mente Bret Easton Ellis, che sull’onnipresenza fisica di messaggi e smartphone ha scritto le pagine più paranoiche di Imperial Bedrooms. Mi viene in mente il libro che sto leggendo adesso, Satin Islanddi Tom McCarthy, che a vari livelli si gioca tutto sul tentativo di racchiudere il presente in 180 pagine.

Sia McCarthy che Ellis hanno tra l’altro riflettuto apertamente su questi temi. In un articolo pubblicato sul Guardian ad aprile del 2015, in occasione dell’uscita in Inghilterra di Satin Island, l’autore di C. ritornava proprio sul rapporto tra letteratura e contemporaneità. Per McCarthy compagnie come Google hanno in qualche modo assorbito alcune funzioni della letteratura come il raccontare storie, l’uso dei simboli o delle metonimie: «Mentre la “fiction” ufficiale si è ritirata in una confortevole nostalgia fatta di regine e re, o di racconti che trattano la contemporaneità in modo ugualmente nostalgico, sono gli studi di architettura, i media digitali e le società di consulenza dei marchi ad aver assunto il ruolo di avanguardie culturali».  Qualcosa di simile, in una versione provocatoriamente pessimistica, sostiene Ellis in un’intervista pubblicata in questi giorni su Huck: «Romanzieri  del calibro di Jonathan Franzen, Dave Eggers, Jonathan Safran Foer vengono sostanzialmente ignorati, non si producono discussioni, i libri non lasciano traccia e questo per me è legato all’essere connessi». Ma nel corso di tutta l’intervista l’autore di Meno di zero parla sostanzialmente di come il mondo sia cambiato e di quanto le forme artistiche, espressive risentano di questo cambiamento, di quanto possa sembrare inutile scrivere un romanzo oggi, di quanto siamo dipendenti dall’essere connessi, ma anche di come il suo iPhone sia il suo «migliore amico».

Possiamo essere terrorizzati da tutto questo o esserne eccitati, ma come fa uno scrittore a chiudere gli occhi e a rifiutarlo? Non si tratta cioè di dare un giudizio su quello che la realtà ci sta offrendo, ma di affacciarsi alla finestra (quella di Windows magari) con un misto di eccitazione e paura, ascoltare questa polifonia, aprirsi alla meraviglia, rinnovare l’aspirazione a essere avanguardia. E forse questo che dividerà nel nostro tempo gli scrittori: quelli che vorranno accettare questa sfida; quelli che coltiveranno un’idea resistenziale della letteratura come una forma di conservazione dei bei valori di una volta.

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