Rebecca libri

Le parole dell’attesa

di Alessandra Pigliaru (in collaborazione con Paola Splendore)

Sono fuochi d’artificio o spari? / Ce lo chiedevamo ogni sera / scendendo nella cantina che puzzava di fumo / quando esplosioni rosse graffiavano il cielo.

Non ci si abitua mai a quel rumore, basso e continuo, la stessa intermittenza è nel verso tagliente di Choman Hardi, poeta che ha scelto di cantare la sorte del suo paese, il Kurdistan, in particolare una delle pagine più feroci, dal febbraio al settembre 1988 durante il massacro di Alfan. Cosa significhi sapere di arrivare da un posto mai arreso eppure costretto alla invisibilità, lo si legge negli occhi di questa giovane donna di 42 anni. Si muove lentamente tra quel verde autunnale di chi ha ascoltato l’annientamento di un popolo, il suo, e ha un sorriso che somiglia all’accordo segreto di sentirsi in pace, in qualche angolo del cuore, libere.

A leggere La crudeltà ci colse di sorpresa. Poesie dal Kurdistan (pagine 97, euro 10), tradotte e c01rate con empatica competenza per le Edizioni dell’Asino da Paola Splendore a cui va aggiunta la nota di Hevi Dilara, si assiste subito a una poesia essenziale, scarna, che va all’osso dopo una laboriosa opera di sottrazione. Il troppo pieno è già il dolore delle operazioni militari, delle torture, dei gas asfissianti, delle persecuzioni.

Le vittime del genocidio di Anfal sono state 182mila, 2mila i villaggi rasi al suolo, un esodo di donne e uomini in fuga dalla violenza dello Stato iracheno e delle bombe chimiche. Tra chi cercava scampo fuori dal paese, principalmente verso Iran e Turchia, c’era anche Choman Hardi; era la seconda volta che, insieme alla sua famiglia, aveva dovuto lasciare Suleymania (la prima è stata nel 1979, a cinque anni). L’attesa del ritorno a casa è visitata dai sogni sulle guardie di frontiera e dal disarmo, passo dopo passo, delle rivendicazioni.

Fin da ragazzina comincia a scrivere versi, facilitata da un padre poeta e da una formazione appresa in parte in Inghilterra dove ha vissuto per qualche anno (dal 1993), come rifugiata politica. «Vorrei avere una ragione più sofisticata per dire come io sia stata iniziata alla poesia – dice Hardi incontrata a Mantova per il Festivaletteretaura – ma l’unica vera è la più semplice: è successo quando mi sono innamorata, in un momento di grande e ingovernabile felicità. È stato solo l’inizio». Ecco che da un tumulto adolescenziale, la voce a lei dovuta diventa «cronaca della distruzione», come la definisce Splendore nella prefazione al volumetto. Inventariando le altrui e proprie ferite, Choman Hardi sceglie di restituire lo sguardo di chi non rinuncia al senso dell’umano. Le donne con cui ha parlato, sono loro che affollano i versi, l’hanno riconosciuta come un’adeguata interlocutrice; è stata tuttavia la consapevolezza di essere una privilegiata – dinanzi a chi aveva perso tutto – a consentirle di ascoltare quelle testimonianze con lucidità. «Sono state prodotte inchieste – osserva Hardi – andando a intervistare in particolare le donne curde, ogni volta però si tende ad assumere uno sguardo esasperato, vittimistico e spesso impietoso nei loro confronti senza curarsi né del contesto, né del fatto che c’è una guerra che dura da più di cento anni e che ha causato, tra gli altri danni irreversibili, una complessità all’interno della stessa comunità; contraddizioni spesso insanabili».

Se nella prima parte delle due sillogi che compongono il volume (Life for Us, del 2004, a cui segue Considering the Woman del 2015) emerge l’interrogazione dell’infanzia, è la lunga sequenza dedicata al massacro di Anfal ad averle richiesto più fatica. «Ho impiegato sette anni perché la stesura definitiva ne ha richiesto molte altre precedenti. All’inizio avevo una rabbia mista però a una retorica sentimentalista che non avrebbe reso un buon servizio a quanto avevo intenzione di consegnare e rappresentare. Mi sono quindi esercitata nella distanza. Non volevo che la tragedia, già evidente nei fatti che andavo a evocare, venisse a moltiplicarsi a discapito delle storie. Ho capito che erano queste ultime a dover parlare da sé, attraverso la voce delle protagoniste. Esaltare emozioni già forti e presenti nelle vicende sarebbe stato efficace per una performance, non per la pagina scritta».

Se allora il trauma si può fronteggiare solo attraverso parole già mondate, distillandone il pericolo di un altisonante riverbero che contribuirebbe solo a nasconderne la verità, sono proprio loro – le parole – a possedere «una potenza enorme» e a costruire un varco di praticabilità nell’esistente. «Quando a 14 anni sono rientrata nel mio paese ho letto moltissimi libri in persiano, in curdo non si riusciva più a trovare niente. Ho conosciuto i testi della poeta Forough Farrokhzad, scomparsa a 32 anni alla fine degli anni Sessanta, aveva una impostazione politica precisa, descriveva per esempio la società patriarcale che la circondava; soprattutto mi ha insegnato un’altra misura, sia della poesia che della scrittura. Sono rimasta altrettanto colpita da Sohrab Sepehri, anche lui iraniano letto in originale. La poesia curda che conoscevo, della generazione di mio padre, si occupava di questioni certo importanti come la patria, il nazionalismo, la rivoluzione, l’amore e la morte come valori etici. Poter congedare quella magniloquenza per accedere, come accadeva nella poesia moderna, alle esperienze minime e quotidiane in cui un’ombra, una pietra traducevano la realtà, mi è sembrata una scoperta irrinunciabile che ho continuato a perseguire».

Il successivo passaggio dal curdo all’inglese non è stato facile ma, nella vicenda di Choman Hardi, ha un valore politico che non è un processo di adeguamento. «Vivere dentro una lingua determina la perdita di alcune cose e l’acquisizione di altre. Nel mio caso ho deciso di cominciare a scrivere anche in inglese per cercare un’altra forma della distanza. Come è facile intuire, il curdo e l’inglese hanno tradizioni diverse e anche i loro destini sono opposti. Se con la seconda è possibile diffondere la storia del Kurdistan nel mondo perché rinunciarvi? Ora ho ricominciato a scrivere nella mia lingua d’origine. All’American University of Iraq, dove attualmente insegno, incontro molti studenti e non sembra desiderino ricordare né farsi troppe domande».
Lo sforzo è allora di tenere vivente la memoria, percorso di orientamento all’interno di una mappa introvabile che è il Kurdistan; se da un lato vi è l’esito di costanti angherie geopolitiche che ne hanno preteso, e ancora ne reclamano, l’annientamento definitivo, d’altra parte la nudità della poesia è l’ago paziente disposto al rammendo, ripara e ricostruisce ciò che sembra impossibile da riconoscere.

Da tre anni sono tornata a Suleymania. Quando vivevo in Europa e mi chiedevano da dove arrivassi quasi nessuno sapeva dove e cosa fosse il mio paese. Ne ho sofferto, ho lottato per la mia identità. Una volta, invitata a un festival letterario, l’ospite proveniente dalla Turchia andò addirittura dagli organizzatori per dire loro che il Kurdistan non solo non esisteva ma domandava la ragione per cui lo avessero addirittura segnato accanto al mio nome, quel luogo inventato chissà da chi. La mia reazione è sempre stata di grande e scomposta rabbia fino alle lacrime. Poi ho capito che avevo la scrittura dalla mia parte. Se questi discorsi tendono a marginalizzare uomini e donne, a riprodurre oppressione, è nella letteratura che ho trovato ciò che corrispondeva alla mia liberazione.

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