Rebecca libri

“Voglio uomini che piangono”

di Serena Danna
Fonte: la Lettura, 3 settembre 2017

Nelle ultime foto pubblicate sul suo profilo Instagram, la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie sfoggia una cascata di treccine raccolte con elastici colorati. Una scelta che ha a che fare con il look solo in apparenza: in Americanah – il romanzo che l’ha consacrata grande interprete dei conflitti identitari di chi vive tra due culture – faceva dire alla protagonista Ifemelu che i capelli sono «la metafora perfetta» della razza in America: il «potere bianco» li vuole lisci e ordinati, e così gli afroamericani, provoca Chimamanda, hanno pensato che unguenti liscianti, stirature e forcine punitive fossero uno strumento di integrazione razziale. Gli altri, non lei. L’orgoglio africano (e nigeriano, e Igbo, la sua etnia) è uno dei tratti più evidenti della poetica e della personalità della scrittrice che ha scelto un sobborgo di Baltimora come base della sua vita americana.

Abbandonare il punto di vista occidentale è dunque la prima condizione per stabilire un canale di comunicazione con lei. La seconda è superare qualsiasi pregiudizio, eredità degli anni Settanta, su ciò che possa essere considerato femminista. In Chimamanda – quaranta anni tra pochi giorni – la ricerca e difesa dell’identità di genere si uniscono a quella razziale. Prove ne sono il famoso Ted Talk del 2012 Dovremmo tutti essere femministi (diventato un libro, il testo di una canzone di Beyoncé e una t-shirt firmata Dior esibita da varie celebrity) e Cara Ijeawele. Ovvero quindici consigli per crescere una figlia femminista (Einaudi), la lettera scritta a un’amica neomamma che le chiede, appunto, suggerimenti per la causa.

Negli ultimi anni si è tornato a discutere di diritti delle donne. Lei quando ha capito di essere femminista?

Sono femminista da quando ne ho memoria: questo vuol dire che non ricordo un momento della mia vita in cui non ero pienamente consapevole che il mondo riserva alle donne un trattamento diverso da quello garantito agli uomini. Ho letto solo di recente alcuni testi considerati seminali per il femminismo occidentale. Diciamo che ho imparato di più studiando la storia e, semplicemente, osservando il mondo.

Ha scritto «Cara Ijeawele» prima della nascita di sua figlia. Qual è il suggerimento che, oggi che è madre, trova di più difficile applicazione?

Probabilmente l’idea che una madre debba liberarsi della propria vergogna per essere capace di crescere una figlia senza vergogna. Credo che sia molto difficile per le donne disimparare la maggior parte delle lezioni impartite da un mondo che non considera le donne al pari degli uomini. Troppe cose sono radicate in noi fin dall’infanzia e quelle stesse vengono poi rafforzate dalla società in cui viviamo. Disimpararle richiede tanto sforzo e resilienza emotiva.

Il libro è rivolto alle bambine. Come mai i maschi, bambini e no, sono tenuti spesso in disparte quando si parla di femminismo?

Credo che l’obiettivo più importante del femminismo oggi sia ripensare la mascolinità. Dobbiamo crescere gli uomini insegnando loro che la vulnerabilità è una cosa positiva, fornire gli strumenti e il linguaggio per permettergli di esprimere sentimenti. Non dobbiamo mai dire ai nostri figli che i maschi non piangono, peraltro è importante dirlo anche alle bambine che è ok se un maschio piange! In questo momento c’è un bisogno enorme di modelli femministi maschili. E credo che Barack Obama sia un buon esempio.

C’è una scuola di pensiero, che potremmo definire «radicale», che considera «patinato» il femmismo che si contamina con la moda o con l’industria dello spettacolo. Le sue collaborazioni con marchi di moda, cosmetici e popstar mostrano un approccio differente in lei. Ce lo spiega?

Credo sia molto importante sottolineare che sta parlando di femminismo occidentale. Visto che è la corrente meglio documentata al mondo, spesso si corre il rischio di credere che sia l’unica. Per secoli ci sono state femministe in Africa, in America Latina, in Asia… A ogni modo, credo che il femminismo occidentale delle origini fosse comprensibilmente austero. Le donne bianche erano considerate di proprietà maschile: non dovevano essere né viste né ascoltate. E questo significava rigettare qualsiasi cosa che avesse a che fare con il look, l’apparenza, l’estetica. Nella cultura Igbo precoloniale il ruolo delle donne era molto più complesso, e mogli, figlie e sorelle non venivano considerate proprietà dei maschi. Le donne commerciavano e avevano voce in capitolo, sebbene meno importante di quella degli uomini: per questo, nel mio caso, non riesco a considerare la femminilità tradizionale incompatibile con un’idea di eguaglianza. Tornando a Ovest, anche il femminismo occidentale oggi può liberarsi dall’austerità e dal modello puritano. Il femminismo ha a che fare con una donna che vive nel mondo con tutta sé stessa e in piena autonomia. Ci sono quelle che amano la moda e altre a cui non interessa affatto: ecco, io sono convinta che debba esserci spazio per entrambe. Per quanto riguarda me, sono nella categoria di quelle che amano la moda perché sono stata cresciuta dando importanza al mio aspetto, considerandolo un simbolo di buona educazione verso gli altri. Ricordo che, quando ero piccola, mia madre mi infiocchettava i capelli, e si assicurava che la mia pelle fosse sempre ben idratata con lozioni o vaselina per non sembrare pallida. Prima di uscire diceva sempre a noi figli che dovevamo «sembrare persone»: intendeva dire che dovevamo presentarci bene in società.

Ivanka Trump, la figlia del presidente, si sta proponendo come modello di una corrente femminista conservatrice, orientata ai diritti delle donne che vogliono conciliare famiglia e lavoro. In un approccio inclusivo del femminismo c’è spazio anche per lei?

Chiunque sostenga tacitamente le aggressioni sessuali alle donne, chiunque stia con un governo che vuole decidere cosa le donne possono o non possono fare con il proprio corpo non può essere considerata e non può dirsi femminista.

Che effetto ha avuto la maternità sulla sua identità di scrittrice?

A volte sembra che essere una persona creativa sia incompatibile con l’essere genitori. In effetti, se ci pensiamo, la creazione artistica è un atto egoistico mentre essere genitori è, al contrario, un atto di profondo altruismo. Posso dire che le mie priorità sono decisamente cambiate da quando ho una meravigliosa bambina di cui sono responsabile al cento percento.

Lei non è solo una scrittrice: le sue parole e idee stanno avendo un impatto notevole sulla società. Come convive con questa responsabilità?

Non ci penso molto, spesso non me lo ricordo. Sono a casa cercando di scrivere e leggere e, di tanto in tanto, ricevo un messaggio che mi avverte che le mie parole sono state usate per qualcosa. Allora mi ricordo. Dopodiché cerco di non pensarci e torno a cercare di produrre una frase decente…

Dove lavora? Ha un posto preferito per scrivere?

Quando sono in Nigeria scrivo nella camera da letto della mia casa di Lagos. Quando sono in America, scrivo in una stanza molto piccola che ha solo un tavolo, una sedia e un divano.

Può descriverci la sua routine quotidiana?

Sto ancora lavorando per riuscire ad averne una.

Quali sono gli intellettuali e i personaggi che l’hanno influenzata di più?

Il mio lavoro è influenzato dalle storie, persone e idee con cui entro in contatto giorno per giorno. E spesso non sono persone famose.

Cosa le manca di più della Nigeria quando è in America e viceversa?

In Nigeria mi manca l’elettricità senza interruzioni, anche perché odio avere a che fare con un generatore, dover sapere quando il prezzo della benzina sale o scende per utilizzarlo. In America mi mancano l’energia e il calore della Nigeria e un particolare vegetale verde che non riesco a trovare da nessun parte negli Stati Uniti.

«Americanah» racconta di una giovane donna sospesa tra la cultura nigeriana e quella americana. Eppure, la sua condizione è comune a quella di molti immigrati provenienti da tutto il mondo che si sono riconosciuti nel personaggio. Come mai?

Credo che ci sia qualcosa in comune tra tutti coloro che lasciano la prima casa e provano a costruirne una seconda: si crea una specie di sdoppiamento che si manifesta nello sforzo perenne di conciliare i due sé e nel non riuscirci quasi mai.

Crede che la presidenza Trump possa riuscire a distruggere quel «sogno» che è alla base di chi, come lei, sceglie l’America come seconda casa?

Sta già succedendo. E non parlo solo dei turisti che diminuiscono… Tanti immigrati hanno capito che la democrazia americana è molto più fragile di quello che credevano. Che i princìpi che immaginavamo connaturati al sogno americano, possibilità e sicurezza, stanno svanendo.

 

Bibliografia di riferimento

Cara Ijeawele ovvero Quindici consigli per crescere una bambina femminista, Einaudi 2017, pagine 88, euro 15.00

Quella cosa intorno al collo, Einaudi 2017, pagine 213, euro 19.00

Metà di un sole giallo, Einaudi 2016, pagine 456, euro 14.00

L’ibisco viola, Einaudi 2016, pagine 275, euro 12.00

Americanah, Einaudi 2015, pagine 501, euro 15.00

Dovremmo essere tutti femministi, Einaudi 2015, pagine 44, euro 9.00

Fonte: la Lettura, 3 settembre 2017
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