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L’umanesimo cristiano di Giovanni Paolo II

di don Alberto Franzini

Il presente fascicolo è la rielaborazione di una lezione che sono stato chiamato a tenere – il 6 dicembre 1999 presso il Centro Pastorale Diocesano a Cremona – agli insegnanti dell’associazione Diesse – Cremona, all’interno di un ciclo di 4 incontri sul tema del Giubileo.

Il titolo originario della lezione era: “Il pontificato di Giovanni Paolo II: la sfida della nuova evangelizzazione nel mondo del nichilismo gaio”. Nel breve spazio di un incontro non era certo possibile una esposizione completa delle molteplici nervature dell’immenso magistero di un Papa che è già passato alla storia e di un pontificato che si presenta come il più lungo del secolo XX e che sta già varcando la soglia del XXI secolo.

Nell’umanesimo cristiano, radicato nell’antropologia biblica e cresciuto nella storia del pensiero e della testimonianza della Chiesa in questi du millenni, mi pare di intravvedere il cuore dell’insegnamento di Giovanni Paolo II, maturato nelle vicissitudini di un secolo che ha conosciuto le seduzioni di umanesimi costruiti sulla menzogna e che visto il trionfo, ma anche il tonfo di ideologie totalitarie sempre denunciate dal vescovo e papa Karol Wojtyla.

Ho ripercorso, così, alcuni capitoli del suo magistero, trascurando tanti aspetti e tanti documenti anche importanti, per lo più riguardanti la vita interna della Chiesa, concentrandomi piuttosto su alcune linee-guida e su alcuni aspetti decisamente innovativi e comunque significativi del pontificato di Giovanni Paolo II.

don Alberto Franzini

Casalmaggiore, 6 gennaio 2000

solennità liturgica dell’Epifania

 

 

1. La Chiesa negli ultimi anni di Paolo VI

Giovanni Battista Montini, divenuto papa Paolo VI nel giugno 1963, era un uomo di profonda fede personale, di grande compassione e comprensione verso le persone e le situazioni, di grande intelligenza e acume, e seppe, con fatica personale, reggere la Chiesa del Concilio e del dopo Concilio con illuminanti e coraggiose posizioni, sfidando la cultura dominante, lui che era un uomo affascinato dalla modernità. Ne sono testimonianza alcuni documenti lungimiranti, come ad esempio l’Humanae Vitae e l’Evangelii Nuntiandi, come tanti documenti applicativi del Vaticano II, ricchi di sapienza pastorale, i gesti ecumenici e i viaggi apostolici, di cui egli fu il coraggioso iniziatore.

Paolo VI è stato anche un uomo che subì contestazioni, a volte con accuse infamanti. Ha sempre tenuto per sé tali sofferenze, che lui pativa a favore della Chiesa di cui si considerò sempre un figlio appassionato. Durante il Concilio, si racconta che spesso portava il cilicio per la felice riuscita di questa impresa ecclesiale.

A Paolo VI è toccato in sorte un periodo difficile, ma fu sempre consapevole di dover rispondere con il sacrificio al servizio che Dio gli aveva chiesto. Paolo VI fu un uomo solo, come Geremia. Eletto come naturale successore di Giovanni XXIII, si dedicò con passione al Concilio, ma fu personalmente segnato dall’acrimonia che ne seguì. Dal primo giorno del suo ministero petrino, il papato fu per lui un calvario. Dotato di straordinaria sensibilità, usava l’arma della persuasione, pronto a fermarsi sulla soglia del mistero dell’altro, di chiunque altro, nei confronti del quale nutriva un rispetto cordiale.

Verso la fine del suo pontificato, la Chiesa dava segni di stanchezza e di cedimento. La stessa ostpolitik vaticana, ossia il dialogo che la Santa Sede aveva attivato con i responsabili dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est, si stava consumando ed estenuando, senza risultati convincenti.

 

2. Karol Wojtyla: un testimone della verità

Dopo la morte di Paolo VI, le cronache registrano un incontro significativo, appena prima del conclave, fra due eminenti cardinali, che non ebbero mai avuto l’occasione di incontrarsi, pur conoscendo il rispettivo pensiero: il cinquantaduenne bavarese card. J. Ratzinger – allora il più giovane cardinale del Collegio cardinalizio – e il cinquattottenne card. K. Wojtyla, arcivescovo di Cracovia. I due scoprirono non poche concordanze nella loro analisi sulla situazione della Chiesa. Ratzinger, che era uno degli autori della Lumen Gentium, la Costituzione dogmatica sulla Chiesa, e Wojtyla, uno degli architetti della Gaudium et Spes, la Costituzione pastorale della Chiesa nel mondo contemporaneo, si trovarono in piena sintonia su ciò che era necessario operare per dare un saldo ancoraggio all’eredità del Vaticano II, un’eredità che correva non pochi pericoli di snaturamento. Ratzinger disse che occorreva ritrovare “l’audacia di accettare, con cuore gioioso e senza tema di sminuirsi, la follia della verità”. L’arcivescovo di Cracovia rispose di trovarsi pienamente d’accordo1. L’intera storia di Karol Wojtyla è una testimonianza resa alla verità.

Alle doti intellettuali – che mise a frutto nel suo impegno filosofico come docente all’università di Lublino – Wojtyla sommava quelle di combattente culturale. Le sfide, invece di paralizzarlo, ne sprigionavano le migliori energie. Da arcivescovo di Cracovia – lui che era stato nominato con il tacito e benevolo consenso del regime comunista, che lo considerava un giovane intellettuale, innocuo sul piano politico – si dimostrò subito un problema per le autorità comuniste. Egli non prese mai di petto, politicamente, il regime comunista, ma lo sfiancò e lo delegittimò sul piano culturale, soprattutto sul piano antropologico. L’antropologia filosofica e l’etica: sono questi i grandi fulcri del pensiero e anche dell’attività pastorale del sacerdote e del vescovo Wojtyla.

Il regime comunista si era andato costruendo in Polonia, e non solo, su una cultura di menzogne. L’intima conoscenza di che cosa era la vita umana all’interno della cultura della menzogna diede alimento alla sfida intellettuale e pastorale di Wojtyla al comunismo. Da qui l’instancabile resistenza culturale contro il regime, proprio sul tema dell’uomo, dei suoi diritti inalienabili, della sua immensa dignità, della sua vocazione alla libertà e alla verità. L’assalto alla dignità umana era stato definito – in una sua lettera al teologo francese Henry De Lubac – il “male dei nostri tempi”. Questo per lui era il problema di fondo: un problema che non era negoziabile.

Wojtyla si sentì sempre più, soprattutto quando esercitò i ministero episcopale, il custode di un’antica e irrinunciabile tradizione, che faceva del vescovo di Cracovia – come di ogni vescovo della Chiesa – il defensor populi. Nel vivere questa tradizione, Wojtyla contribuì a offrire segni e simboli alla crescente insoddisfazione del suo popolo per lo status quo. Avvenimenti e conflitti che, in altre situazioni, sarebbero stati solo materia di scelte urbanistiche e permessi per manifestazioni pubbliche – come la costruzione di nuove chiese o lo svolgimento di grandi processioni religiose – diventano emblematici di una crescente resistenza culturale al monopolio comunista del potere politico, alla espropriazione della storia polacca da parte del regime e alla “polverizzazione della fondamentale unicità di ogni persona umana”2 attuata da tale regime.

 

3. Il nuovo Papa

Forte di questa provvidenziale esperienza culturale e pastorale a Cracovia, che lo aveva forgiato in tempi difficili, il cardinale Wojtyla nel 1978 era pronto per diventare Papa. E si capì subito fin dai primi passi quale sarebbe stato non solo lo stile, decisamente innovatore, ma anche e soprattutto il programma del nuovo Papa. Nel discorso di inaugurazione del suo ministero sulla cattedra di Pietro, davanti a un mondo che aveva paura di se stesso e del suo futuro, e davanti a una Chiesa incerta sulle strade da intraprendere per vivere pienamente l’insegnamento del Concilio, Giovanni Paolo II uscì con quel forte invito, che scosse tutti e al quale è rimasto profondamente fedele in questi 21 anni: “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo. Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura. Cristo sa che cosa è dentro l’uomo. Solo Lui lo sa” (22 ottobre 1978).

Il nuovo Papa era già da tempo convinto del potere liberatorio della verità. La verità, che insieme vincola e libera, ai suoi occhi era uno strumento per esercitare l’ufficio di Pietro al servizio della dignità umana. Anche ora da Papa, non attaccò mai direttamente il marxismo-leninismo, esponendosi all’accusa di essere un capo politico, alleato dell’Occidente. Concentrava piuttosto la sua attenzione sui diritti umani, e in particolare su quello della libertà religiosa, muovendo un sottile attacco al cuore stesso del progetto storico del comunismo, che si riteneva il vero umanesimo del XX secolo e il vero liberatore dei mali dell’umanità. Il nuovo Papa cominciava a costituire una grave minaccia per l’impero sovietico, proprio perché era un testimone della verità di Dio e dell’uomo, e non un capo politico.

La prima grande prova internazionale fu la III Conferenza generale dell’episcopato latino-americano nel gennaio 1979 a Puebla. C’era la questione della teologia della liberazione, che si ispirava a una strategia rivoluzionaria, ispirata alle categorie economiche e all’analisi sociale del marxismo. Il problema era come coniugare la presenza della Chiesa in quelle società, dove dominavano regimi militari, in genere ispirati e finanziati dal potere capitalistico. Giovanni Paolo II, che proveniva da tutt’altro ambiente, era pur sempre uno che fin dagli anni della giovinezza aveva cominciato a meditare sulla questione morale della violenza rivoluzionaria come risposta all’ingiustizia sociale provocata nella sua patria dal nazismo prima e dal comunismo poi. Il Papa chiarì subito ai vescovi che loro erano protagonisti del rinnovamento non alla maniera dei politici, ma come vescovi della Chiesa. Come pastori, il loro principale dovere era quello di essere maestri di verità, perché la verità era il fondamento dell’autentica liberazione dell’uomo. E la verità affidata ai vescovi era la verità di Gesù Cristo. Ogni rilettura del Vangelo attraverso lenti ideologiche rendeva impossibile una liberazione autenticamente cristiana. Il marxismo non poteva essere per la teologia cristiana ciò che Aristotele era stato per san Tommaso d’Aquino, perché la visione marxista della persona umana era inadeguata in modo sostanziale, e quell’errore antropologico di fondo permeava l’economia e la politica del marxismo. Alla riduzione materialistica dell’umanesimo operata dal marxismo, la Chiesa contrapponeva la verità dell’uomo come immagine di Dio, irriducibile a una semplice particella della natura o a un elemento anonimo della città umana. L’umanesimo cristiano – che è la più completa verità sull’uomo – era il fondamento della dottrina sociale della Chiesa.

Era già l’anticipo di quella che poi sarà la sua prima enciclica, programmatica di tutto il pontificato, la Redemptor Hominis (4 marzo 1979). Questo documento presenta l’analisi del Papa sulla condizione dell’uomo contemporaneo, un uomo redento da Cristo. L’incarnazione non dice solo qualcosa di grande su Dio, ma anche sull’uomo, che viene definito come colui che “non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non si incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente. E perciò appunto Cristo redentore rivela pienamente l’uomo all’uomo stesso” (n. 10). Ma questo amore di Dio è possibile solo nella libertà. L’amore conosciuto nella libertà, e la libertà finalizzata alla verità: questa è l’essenza dell’umanesimo cristiano (cf. n. 12).

Dall’incarnazione e dalla redenzione di Cristo, il Papa passava poi a definire il tema dei diritti umani, che sarebbe stato uno dei temi fondamentali e ricorrenti del suo pontificato. Il diritto alla libertà religiosa è il primo dei diritti oggettivi e inalienabili della persona umana.

Questa enciclica programmatica offriva al mondo non solo una forte e appassionata antropologia, ma l’ancoraggio teologico e cristologico di tale antropologia, ben diversa dunque da altre antropologie secolarizzate circolanti sul mercato del pensiero.

Il Papa porterà questa antropologia nel suo primo, memorabile viaggio in Polonia nel giugno del 1979: sarà la prima e vera sfida all’impero della menzogna.

In questi primi passi, e in questi primi documenti, troviamo il patrimonio genetico di tutto il suo immenso magistero, che ha spaziato e non smette di spaziare a 360 gradi.

E’ impresa ardua riassumere gli ambiti nei quali si riflettono le convinzioni fondamentali di Giovanni Paolo II. Tentiamo una rapidissima sintesi del suo vastissimo insegnamento.

 

a) Il patrimonio e la fecondità della fede cristiana

Tutto parte da qui. Non è un caso che le prime due encicliche siano di natura strettamente teologica: la Redemptor Hominis, riguardante Cristo redentore dell’uomo e della storia, e la Dives in misericordia (novembre 1980), riguardante la natura di Dio Padre. Questa meditazione sui fondamenti della fede verrà completata con una enciclica sullo Spirito Santo, la Dominum et Vivificantem (maggio 1986), una delle più impegnative e difficili.

La riflessione sulla dignità dell’uomo redento da Cristo portò in modo del tutto naturale il Papa a riflettere su Dio Padre e sullo Spirito Santo. Il mistero unitrinitario di Dio riflesso nella persona umana: questo è il fondamento di ogni vera antropologia cristiana. Staccata dalla radice teologale, l’antropologia di Giovanni Paolo II diventa incomprensibile e arbitraria.

 

b) L’insegnamento sociale

I testi di natura sociale sono innumerevoli e tutti di prima grandezza. Qui ricordiamo anzitutto le tre encicliche sociali.

La Laborem exercens ( settembre 1981) è l’enciclica alla quale il Papa è rimasto più affezionato. Scritta nel novantesimo anniversario della Rerum Novarum e ultimata durante la convalescenza dopo l’attentato in piazza san Pietro, l’enciclica si presenta come una lunga e articolata riflessione sul lavoro umano e soprattutto su colui che lavora, la persona umana. Il lavoro riguarda l’essere dell’uomo, più che il suo fare. Dunque i lavoratori sono anzitutto persone. Questo significa che con il lavoro uomini e donne non si limitano a fare di più, ma diventano di più. Col lavoro l’uomo non solo trasforma la natura, ma realizza se stesso come uomo. Da qui, seguendo tutta la tradizione della Chiesa, il principio della priorità del lavoro nei confronti del capitale. E da qui la partecipazione dei lavoratori al processo decisionale e ai profitti dell’impresa. L’enciclica contiene una forte valorizzazione del sindacato, che si spiega anche con l’incitamento che era necessario dare al nuovo sindacato polacco Solidarnosc.

La Sollicitudo rei socialis (SRS) è del febbraio 1988 e viene pubblicata nel ventesimo anniversario della Populorum progressio (PP) di Paolo VI. E’ profondamente cambiato lo scenario del mondo in vent’anni. Se la PP costituiva un richiamo al dovere di intervento degli Stati nello sviluppo economico del Terzo Mondo, la SRS sosteneva invece un diritto di iniziativa economica, affermando che le iniziative personali e di gruppo non potevano essere soffocate nel nome di una pretesa uguaglianza di tutti nella società. La SRS era decisamente antitotalitaria, quando affermava che nessun gruppo sociale e nessun partito ha diritto di usurpare il ruolo di guida unica. L’enciclica denunciava con forza l’esistenza di regimi corrotti, dittatoriali e autoritari e chiedeva più partecipazione e democrazia. Il Papa denunciava anche sia il capitalismo liberista che il collettivismo marxista, mettendo però in evidenza che entrambi i blocchi in realtà nascondevano la stessa
tendenza all’imperialismo e a forme di neocolonialismo.

La terza enciclica sociale, la Centesimus Annus (CA) (maggio 1991), pubblicata per commemorare i cent’anni della Rerum novarum di Leone XIII, doveva fare i conti con le cose nuove del 1989, soprattutto con la caduta del muro di Berlino. Per Giovanni Paolo II il motore della storia è costituito dalla cultura, non dall’economia. Era questa la verità che poteva spiegare il perché e il quando degli avvenimenti del 1989. La causa più profonda del crollo del comunismo era rappresentata proprio dalla subordinazione della cultura all’economia: da qui il profondo vuoto spirituale che il comunismo aveva creato e che non poteva durare all’infinito. L’umanesimo cristiano, che rifletteva la verità totale della persona umana, poteva finalmente parlare e venire in soccorso allo sconvolgimento del cuore e all’ottenebramento dell’intelligenza, operati dall’umanesimo ateo. Era questo l’avvenimento fondamentale del 1989.

La CA tiene anche conto di un’altra cosa nuova, ossia del fatto che l’economia non si basava soltanto sui beni, ma sulla proprietà della conoscenza, della tecnica e del sapere. Stava nascendo, nei Paesi economicamente più avanzati, un nuovo tipo di economia, basata sulla ricchezza del lavoro, ma anche della iniziativa e della creatività dell’uomo. La CA abbandonava ogni ricerca di una terza via che si ponesse fra socialismo e capitalismo e cercava di andare oltre. Il socialismo era morto e c’erano varie forme di capitalismo nel mondo. Per la prima volta il Papa affronta il tema dell’economia libera con accenti decisamente nuovi. Giovanni Paolo II si pone la domanda: dopo il fallimento del comunismo, si può dire che il sistema sociale vincente sia il capitalismo? E così risponde il Papa:

“Se con capitalismo si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di economia di impresa o di economia di mercato, o semplicemente di economia libera. Ma se con capitalismo si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa. La soluzione marxista è fallita, ma permangono nel mondo fenomeni di emarginazione e di sfruttamento, specialmente nel terzo mondo, nonché fenomeni di alienazione umana, specialmente nei Paesi più avanzati, contro i quali si leva con fermezza la voce della Chiesa” (n. 42).

La CA dunque, mentre decreta la sconfitta del socialismo reale, lancia anche una sfida profonda a tutte le forme di capitalismo reale. La CA contiene anche forti affermazioni sulla soggettività della società e dei gruppi intermedi, a cominciare dalla famiglia.

In questo documento il Papa solleva forti critiche anche nei confronti di quella posizione culturale che esalta la neutralità, l’agnosticismo, il relativismo etico della democrazia. Giovanni Paolo II afferma che ogni democrazia è votata al fallimento, se staccata dai valori etici fondamentali. La storia del XX secolo, conclude il Papa, dimostra che “una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo” (n. 46). Era dunque alle porte una nuova forma di tirannide, pericolosa perché nascosta: si trattava delle ideologie laiciste che vogliono escludere dalla vita pubblica norme morali oggettive e che tendono non solo al minimalismo etico, ma all’assenza o al rifiuto di ogni etica, ritenuta non compatibile con una democrazia moderna.

 

c) I diritti umani

Si tratta di un altro grande capitolo del magistero di Giovanni Paolo II. I diritti umani sono continuamente affermati, difesi e promossi in tutte le sedi e in tutti i viaggi apostolici. Fra i tantissimi testi, emblematicamente vengono proposti i due seguenti.

Il primo, il più recente, è il Messaggio di Capodanno del 1999, in occasione del cinquantesimo anniversario della Dichiarazione dei diritti dell’uomo da parte delle Nazioni Unite. Il messaggio del Papa mette al centro, ancora una volta, la dignità altissima di ogni persona umana, creata ad immagine di Dio e redenta da Gesù Cristo. Riassumendo le vicende di questo secolo, il Papa scrive: “La storia contemporanea ha evidenziato in modo tragico il pericolo che deriva dal dimenticare la verità della persona umana. Sono dinanzi ai nostri occhi i frutti di ideologie quali il marxismo, il nazismo, il fascismo, o anche miti quali la superiorità razziale, il nazionalismo e il particolarismo etnico. Non meno perniciosi sono gli effetti del consumismo materialistico, nel quale l’esaltazione dell’individuo e il soddisfacimento egogentrico delle aspirazioni personali diventano lo scopo ultimo della vita”.

Il Papa ricorda poi due principi fondamentali:

1. la universalità di questi diritti, secondo cui la persona umana va rispettata e promossa in ogni membro della famiglia umana, indipendentemente dalla stirpe, dal colore della pelle, dal censo e dalla religione;

2. la indivisibilità di questi diritti, per cui “nessun diritto umano è sicuro, se non ci si impegna a tutelarli tutti. Quando si accetta senza reagire la violazione di uno qualsiasi dei diritti umani fondamentali, si pongono a rischio tutti gli altri”. E’ molto facile invece, nella nostra società, impegnarsi radicalmente per alcuni diritti e molto meno per altri. Ecco perché il Papa mette al primo posto, fra i diritti oggi più frequentemente violati, il diritto alla vita: “Una vera cultura della vita, come garantisce il diritto di venire al mondo a chi non è ancora nato, così protegge i neonati, particolarmente le bambine, dal crimine di infanticidio”.

Il secondo, più lontano nel tempo ma proprio per questo lungimirante e drammaticamente profetico, è un intervento del 5 aprile 1981 sul tema dell’aborto. Disse il Papa in quell’occasione: “Se si concede diritto di cittadinanza all’uccisione dell’uomo, quando è ancora nel seno della madre, allora ci si immette per ciò stesso sulla china di incalcolabili conseguenze di natura morale. Se è lecito togliere la vita ad un essere umano, quando esso è più debole, totalmente dipendente dalla madre, dai genitori, dall’ambito delle coscienze umane, allora si ammazza non soltanto un uomo innocente, ma anche le stesse coscienze. E non si sa quanto largamente e quanto velocemente si propaghi il raggio di quella distruzione delle coscienze, sulle quali si basa, prima di tutto, il senso più umano delle cultura e del progresso dell’uomo. (…). Se accettassimo il diritto di togliere il dono della vita all’uomo non ancora nato, riusciremmo poi a difendere il diritto dell’uomo alla vita in ogni altra situazione?”.

Fra i diritti che il magistero di Giovanni Paolo ha contribuito a fondare in maniera determinante vi è quello della “ingerenza umanitaria”. L’espressione, che conobbe una rapidissima fortuna, è stata lanciata per la prima volta dal card. Sodano, segretario di Stato, il 6 agosto 1992, allorché il cardinale riferì di un colloquio appena avuto col Papa a proposito della guerra in Bosnia-Erzegovina. Disse allora il cardinale: “Abbiamo parlato del diritto di ingerenza umanitaria. Direi che gli Stati europei e le Nazioni Unite hanno il dovere e il diritto di ingerenza, per disarmare uno che vuole uccidere. Questo non è favorire la guerra, ma impedire la guerra”. E continuava il card. Sodano: “Bisogna far riflettere bene l’opinione pubblica che è veramente un dovere fermare la mano di un aggressore… Quanto sta avvenendo in Bosnia-Erzegovina si può definire lo scandalo attuale più grave di fronte all’umanità”.

Che cosa stava avvenendo di tanto scandaloso? Stava avvenendo che nella lotta tra diverse etnie, che si contendevano i Paesi balcanici dopo lo sfaldamento della Repubblica federativa della Jugoslavia, intere popolazioni civili (come dimenticare gli stupri alle donne bosniache?) e intere “città martiri” (come dimenticare Vukovar, Mostar, Srebrenica, Goradze, Sarajevo?) furono sostanzialmente lasciate al loro martirio dalla comunità e dalle istituzioni internazionali, che intervennero tardivamente e non sempre limpidamente. Ricordiamo tutti, anche nella più recente guerra in Kosovo, i massacri, gli stupri, le devastazioni, gli esodi forzati, i campi di concentramento: sono i frutti di quell’ideologia che stava e sta alla base della cosiddetta “pulizia etnica”, che ha richiamato alla memoria dell’Europa (che frattanto stava a guardare) e del mondo intero gli orrori del tempo nazista. In questa situazione di sgomento, la Santa Sede e la voce del Papa si levarono forti, distinguendosi sia dalle logiche guerrafondaie, sia dai pacifismi multicolori. Qualcuno gridò all’ambiguità del Papa. Qualcuno criticò il ritorno alla tesi della “guerra giusta”.

Giovanni Paolo II, quasi solitario, continuava a gridare il suo no alla guerra, ad ogni forma di guerra (chi non ricorda i suoi innumerevoli appelli alla pace?) e nello stesso tempo si pronunciava sempre più chiaramente a favore dell’uso della forza per far cessare le atrocità, ma soltanto una volta siano risultate vane tutte le iniziative non armate e l’ingerenza anche della forza sia garantita e promossa da un’autorità sovranazionale.

E’ in questi contesti drammatici che ha preso forma e forza la dottrina dell’ingerenza umanitaria, che ha ricevuto nel Messaggio per la Giornata della Pace in occasione del capodanno del 2000 una formulazione più precisa. Scrive il Papa nel Messaggio di pace: “Quando le popolazioni civili rischiano di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore e a nulla sono valsi gli sforzi della politica e gli strumenti di difesa non violenta, è legittimo e persino doveroso impegnarsi con iniziative concrete per disarmare l’aggressore. Queste tuttavia devono essere circoscritte nel tempo e precise nei loro obiettivi, condotte nel pieno rispetto del diritto internazionale, e garantite da un’autorità riconosciuta a livello soprannazionale e, comunque, mai lasciate alla mera logica delle armi” (n. 11). A tal proposito, il Papa ritiene “necessario e non più procrastinabile un rinnovamento del diritto internazionale e delle istituzioni internazionali che abbia nella preminenza del bene dell’umanità e della persona umana su ogni altra cosa il punto di partenza e il criterio fondamentale di organizzazione” (n.12), così come ritiene urgente rivedere la stessa Organizzazione delle Nazioni Unite, che “deve offrire a tutti gli Stati membri un’equa opportunità di partecipare alle decisioni, superando privilegi e discriminazioni che ne indeboliscono il ruolo e la credibilità” (n. 11).

 

d) La teologia del corpo umano

Fin dal settembre 1979 papa Wojtyla cominciò a servirsi dell’udienza generale come di un momento forte di catechesi. L’udienza tematica è un’altra invenzione di Giovanni Paolo II. Il Papa cominciò con un tema esplosivo: sviluppò l’idea che l’amore sessuale e coniugale è un’immagine della vita intima di Dio, del mistero unitrinitario di Dio. La prospettiva è sempre teologica e antropologica insieme. Il Papa partiva dalla constatazione che la disumanizzazione può assumere e di fatto ha assunto varie forme: ogni volta che un essere umano diventa oggetto di manipolazione, si innesca il processo di “polverizzazione” della unicità e unità della persona umana. Da qui la concezione utilitaristica dell’uomo, che il Papa denuncia come possibile anche nei rapporti sessuali e coniugali.

Proponendo la tesi di fondo che il dono di sé nell’atto sessuale è il segno vivente della vita intima di Dio, Giovanni Paolo II non fa altro che sviluppare quelle implicanze del concetto della dignità e libertà della persona umana, con cui il Papa aveva sfidato il comunismo in Polonia e nell’Europa dell’Est. Nel caso dei rapporti sessuali, il pericolo non proveniva più dalle armi nucleari o dalla polizia segreta o da un regime totalitario, ma era altrettanto grave, anche perché meno evidente.

La Chiesa non aveva ancora trovato una voce capace di raccogliere la sfida della rivoluzione sessuale. C’era stato l’atto coraggioso di Paolo VI con l’Humanae Vitae del 1968: ma era stato un atto isolato e venne letto, riduttivamente, come un no alla pillola contraccettiva. Giovanni Paolo II ripropone l’insegnamento della Chiesa sulla sessualità, ma con un linguaggio, una fondazione e una prospettiva decisamente nuovi. Nacquero così ben 130 catechesi intorno alla teologia del corpo, che durarono quattro anni. Si tratta di meditazioni e di riflessioni – di natura insieme biblica, teologica e filosofica – concettualmente dense, non facili né all’ascolto, né alla lettura. Papa Wojtyla propone una visione fra le più audaci della teologia cattolica nel corso dei secoli, una visione non ancora pienamente entrata nella pastorale catechetica ordinaria delle nostre comunità.

A partire dai racconti biblici della Genesi, il Papa riflette sul mistero della persona umana sessuata e sulla solitudine originaria, traendone considerazioni essenziali intorno alla condizione umana, alla corporeità, alla dimensione sponsale del corpo, all’adulterio del cuore, al matrimonio e alla verginità, fino all’affermazione ardita che l’amore sessuale è un atto liturgico.

I temi delle catechesi del Papa hanno spaziato e stanno spaziando sull’insieme della dottrina cattolica, avendo come fonti principali i documenti del Concilio Vaticano II e il Catechismo della Chiesa Cattolica.

 

e) La difesa e la promozione della vita

E’ un altro grande capitolo, al quale Giovanni Paolo II ha anche dedicato nel 1995 l’enciclica Evangelium Vitae. Il card. Ratzinger, in una riunione del Collegio cardinalizio del 1991, aveva individuato il nocciolo del problema della cultura occidentale proprio nel nichilismo: quando una “libertà di indifferenza” domina la società – questa la tesi di Ratzinger – la dignità della vita si trova in grave pericolo; quando, in nome della tolleranza, viene legittimato il valore assoluto del relativismo morale, allora vengono relativizzati anche i diritti fondamentali e si apre la strada ad ogni forma di totalitarismo. In quella riunione i cardinali affidavano al Papa l’impegno di farsi autorevole voce di difesa e di promozione della vita umana. Da qui la nuova enciclica di Giovanni Paolo II, che va letto come l’ultimo pannello di un trittico di encicliche sui fondamenti morali di una società libera e virtuosa. Nel 1991 la Centesimus Annus aveva celebrato le grandi occasioni che si schiudevano alle nuove democrazie nell’Europa centrale e orientale. Nel 1993 la Veritatis splendor aveva approfondito l’analisi etica del Papa sulle prospettive della democrazia, collegando il riconoscimento di norme morali assolute all’uguaglianza democratica, alla giusta amministrazione delle risorse economiche, al problema del bene comune. Ora, l’Evangelium Vitae (EV) faceva rilevare che, se avessero difeso legalmente come diritti certe aberrazioni morali, le democrazie avrebbero corso il rischio dell’autodistruzione.

Il linguaggio del Papa è fermo. Le democrazie che negano l’inalienabile diritto alla vita, dal concepimento alla morte naturale, si trasformano in uno Stato tiranno, che avvelena e uccide la cultura dei diritti. Giovanni Paolo II, critico da antica data dell’utilitarismo, tentava di mettere in guardia le democrazie dai rischi che la riduzione degli esseri umani alla stregua di oggetti avrebbe comportato per la causa della libertà.

La EV, con la solennità delle formule definitorie, lascia il segno su tre temi specifici: l’uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente, l’aborto e l’eutanasia, che sono dichiarati atti gravemente immorali.

Il progresso più considerevole dell’EV riguarda la pena di morte. La tradizione della Chiesa aveva sempre accettato la pena di morte, motivandola moralmente sia come legittima difesa della società, sia come giusta punizione dei crimini commessi, sia come deterrente per futuri atti criminosi. Già il Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) aveva riveduto questa linea di pensiero e aveva fortemente limitato la giustificazione della pena capitale. Con l’EV, Giovanni Paolo II restringeva ulteriormente il criterio di legittimità ai casi di assoluta necessità: “La misura e la qualità della pena devono essere attentamente valutate e decise, e non devono giungere alla misura estrema della soppressione del reo se non in casi di assoluta necessità, quando cioè la difesa della società non fosse possibile altrimenti. Oggi, però, a seguito dell’organizzazione sempre più adeguata dell’istituzione penale, questi casi sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (n. 56).

Inoltre, l’EV diceva qualcosa di nuovo anche sui rapporti fra legge morale e pluralismo democratico e sulla responsabilità morale del legislatore.

Sulla prima questione, il Papa ribadisce il principio biblico che “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29) e mette sotto critica l’opinione, diffusa nella cultura democratica del nostro tempo, “secondo la quale l’ordinamento giuridico di una società dovrebbe limitarsi a registrare e recepire le convinzioni della maggioranza e, pertanto, dovrebbe costruirsi solo su quanto la maggioranza stessa riconosce e vive come morale” (n. 69). Il relativismo etico – sostiene il Papa – non può essere una condizione della democrazia e non è una garanzia automatica di tolleranza e di rispetto tra le persone. E’ storicamente vero che talvolta si sono commessi dei crimini in nome della verità, “ma crimini non meno gravi e radicali negazioni della libertà si sono commessi e si commettono anche in nome del relativismo etico”. E il Papa svela la contraddizione di tale posizione, proprio in tema di rispetto della vita: “Quando una maggioranza parlamentare o sociale decreta la legittimità della soppressione, pur a certe condizioni, della vita umana non ancora nata, non assume forse una decisione tirannica nei confronti dell’essere umano più debole e indifeso?” (n.70). Alla base di una autentica vita democratica – sostiene ancor Giovanni Paolo II – non ci può essere una mutevole maggioranza di opinione, “ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in quanto legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo, è punto di riferimento normativo della stessa legge civile. Quando, per un tragico oscuramento della coscienza collettiva, lo scetticismo giungesse a porre in dubbio persino i principi fondamentali della legge morale, lo stesso ordinamento democratico sarebbe scosso nelle sue fondamenta, riducendosi a un puro meccanismo di regolazione empirica dei diversi e contrapposti interessi” (n.70). Di fronte a leggi civili che sono in grave disaccordo con la legge morale, “sorge un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante l’obiezione di coscienza” (n. 73).

Sulla seconda questione, il Papa prende in esame il particolare problema di coscienza che sorge in quei casi in cui, in sede legislativa, ci si trova di fronte a proposte di legge che, pur in contraddizione con la legge morale, si presentino come più restrittive nei confronti delle leggi vigenti più permissive, sempre in tema di rispetto della vita. In questo caso come si deve comportare un uomo politico che voglia rimanere fedele alla legge morale? Risponde il Papa: “Nel caso ipotizzato, quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all’aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Così facendo, infatti, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta: piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui” (n. 73).

 

f) Il “femminismo” di Giovanni Paolo II

Un altro essenziale aspetto dell’umanesimo cristiano di Papa Wojtyla riguarda l’universo femminile. Nel sua vasto insegnamento sul tema, risaltano tre documenti: l’enciclica Redemptoris Mater (RM) (25 marzo 1987), la Lettera apostolica Mulieris dignitatem (MD) (15 agosto 1988) e la Lettera alle donne (1994).

Nella RM il Papa ribadisce la priorità della Chiesa mariana rispetto alla Chiesa petrina, la priorità dunque del discepolato di Cristo su ogni altro aspetto della vita ecclesiale.

Ma è soprattutto con la MD che Giovanni Paolo II ripensa e rifonda una teologia della donna, alla luce dell’integrale mistero umano nella duplice polarità di maschile e femminile. Il Papa non entra nelle questioni di natura sociologica sulla parità, anche se condivide l’opinione che nello squilibrio fra uomo e donna ci sia qualcosa di profondamente sbagliato. Piuttosto, egli insiste sul fatto che alla radice del dominio dell’uomo sulla donna non ci sia tanto un problema culturale, quanto l’evento del peccato. E’ il peccato che rompe quella primordiale comunione di persone che Dio ha voluto fin dal principio e che costituisce il fondamento della vera uguaglianza fra uomo e donna, entrambi creati ad immagine e somiglianza di Dio. La liberazione delle donne da questi schemi di dominio non può essere una liberazione contro, ma una liberazione per, una liberazione che salvaguardi le specificità, le originalità del genio femminile: no, dunque, ad ogni forma di facile, quanto banale omologazione fra uomo e donna in nome della parità. La liberazione della donna deve mirare alla riconquista della donazione di sé e della comunione di vita. Ma l’unità e l’uguaglianza vanno pensate nella logica della reciprocità e della specificità del femminile e del maschile, non nella logica della omologazione, né tanto meno in quella del dominio e dell’androginia.

I testi biblici della Genesi e la figura di Maria, che si riflette nel mistero della Chiesa e quindi nelle figure delle grandi sante della tradizione cristiana, costituiscono le fonti del pensiero del Papa per rifondare lo specifico femminile e per dare risposte non ideologiche alle accuse di antifemminismo rivolte alla Chiesa.

 

g) Fede e ragione: l’illuminismo cristiano

Il Papa, soprattutto con l’enciclica Fides et Ratio del 14 settembre 1998, risponde ad un’altra sfida della cultura contemporanea: la sfida di un’opposizione costitutiva fra fede e ragione. Si tratta della più grande presa di posizione pontificia sui rapporti fra fede e ragione da oltre un secolo, e precisamente da quando nel 1869 il Concilio Vaticano I aveva insegnato che l’uomo può comprendere l’esistenza di Dio mediante la ragione e da quando l’enciclica Aeterni Patris (1879) di Leone XIII aveva proposto la teologia e la filosofia di Tommaso d’Aquino come modello per una sintesi fra fede e ragione. Da quegli anni, si è andata sempre più riducendo la fiducia della filosofia nella sua capacità di conoscere la verità delle cose. E così la filosofia ha assunto sempre più la forma dello scetticismo, della falsa modestia, del pensiero debole, che le impedisce anche solo di porsi i grandi interrogativi: perché esiste qualcosa e non il nulla? Che cosa è bene e che cosa è male? Quale è il senso della vita? Che cosa c’è dopo la morte?

Questa “falsa modestia” della filosofia aveva spalancato le porte – afferma il Papa – a una cultura dominata da vari tipi di hybris: una  visione strumentale della persona umana; una falsa fede nella tecnologia; il trionfo della sete di potere; il relativismo morale. Gli effetti letali di questa forma di agnosticismo sono il tratto distintivo del XX secolo. E’ tempo – questo l’invito di Giovanni Paolo II – che la filosofia ricuperi quel senso di meraviglia e di timore che la sospinge verso la verità trascendente.

Questo documento esce alla fine di un millennio che ha visto, soprattutto negli ultimi secoli, una separazione, anzi un’opposizione dura, fondata su pregiudizi ideologici, fra ragione e fede, fra scienza e religione, fra filosofia e teologia, fra l’uomo e Dio. Dall’illuminismo in poi, si è creduto di poter innalzare un monumento alla ragione umana escludendo Dio. E così l’illuminismo, nato per difendere la ragione contro la fede o a prescindere dalla fede, dapprima ha rinchiuso la ragione nelle secche del razionalismo e dello scientismo, “perimetrando” la ragione dentro i confini di ciò che è verificabile e sperimentabile mediante le scienze empiriche. In un secondo tempo, l’illuminismo ha generato l’ateismo di tutte le marche: escludendo Dio, ha impoverito l’uomo, tarpandogli le sue vere “ali” che ne fanno un cercatore e uno scopritore del mistero stesso di Dio, da cui proviene e verso il quale è costitutivamente orientato. E infine, nel secolo attuale, ha finito per produrre il pensiero debole e lo scetticismo di fronte alla questione della verità.

L’esito di questo processo non poteva essere che il nichilismo, che costituisce la vera tragedia del pensiero contemporaneo, perché uccide l’uomo in ciò che ha di più alto e di più nobile, ossia la sua innata tensione ad un senso ultimo e definitivo che, solo, può spiegare il dinamismo del suo intelletto e può costituire l’appagamento delle sue esigenze esistenziali.

Sembra paradossale. Un processo storico-culturale, l’illuminismo, nato per esaltare la ragione sta ultimando la sua disperata corsa approdando al traguardo della negazione della ragione, e dunque dell’uomo stesso e perfino della stessa convivenza umana. E la Chiesa, criticata per aver tenuto alta la fiaccola della fede – ritenuta dai “maestri” di questi ultimi due secoli una “fiaba”, un “sospetto”, una “alienazione”, una “proiezione”, è rimasta (quasi) sola, alla fine di questo millennio, a difendere e a promuovere non solo la fede, ma la ragione stessa dell’uomo, che trova nella sua apertura al mistero di Dio e alla rivelazione che si è compiuta nel Figlio incarnato il proprio compimento e la propria pienezza di senso.

La Chiesa, con il magistero di Giovanni Paolo, dice un no tondo ad una razionalità semplicemente strumentale, utilitaristica, funzionalistica, calcolatrice. E dice un sì pieno ad una razionalità che assume la questione della verità come il compito più significativo e ineludibile. Scrive Giovanni Paolo II: “Nella cultura moderna è venuto a cambiare il ruolo stesso della filosofia. Da saggezza e sapere universale, essa si è ridotta progressivamente a una delle tante provincie del sapere umano; per alcuni aspetti, anzi, è stata limitata a un ruolo del tutto marginale. Altre forme di razionalità si sono nel frattempo affermate con sempre maggior rilievo, ponendo in evidenza la marginalità del sapere filosofico. Invece che verso la contemplazione della verità e la ricerca del fine ultimo e del senso della vita, queste forme di razionalità sono orientate – o almeno orientabili – come ragione strumentale al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di potere” (n. 47).

La filosofia rivolta verso la realtà trascendente è essenziale anche per la stessa fede cristiana, spiega il Papa, perché la fede non è una fiaba, né un mito, né un sentimento. La fede è il compimento supremo della ragione, non un suo sottoprodotto. La fede va pensata, la fede – come afferma l’intera tradizione teologica del cattolicesimo – è ragionevole, ossia è del tutto conforme alle più profonde esigenze della ragione umana. Se fede e ragione non procedono insieme, la rinascita della religione non potrà fornire un fondamento sicuro alla dignità dell’uomo, perché tale dignità ha il suo fondamento ultimo nella capacità dell’uomo di conoscere la verità. Se il pensiero non si apre all’orizzonte trascendente, esso si chiuderà inevitabilmente in se stesso e cadrà prigioniero del solipsismo.

La via verso un secolo XXI più saggio e più umano passa ricuperando la saggezza dei primi secoli cristiani, che hanno visto l’incontro fra Atene e Gerusalemme, fra ragione e fede: se staccate l’una dall’altra, esse si impoveriscono e diventano deboli l’una di fronte all’altra. “La ragione, – ammonisce il Papa – privata dell’apporto della Rivelazione, ha percorso sentieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale. La fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l’esperienza, correndo il rischio di non essere più una proposta universale. E’ illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o a superstizione. Alla stessa stregua, una ragione che non abbia dinanzi una fede adulta non è provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità dell’essere. Non sembri fuori luogo, pertanto, il mio richiamo forte e incisivo, perché la fede e la filosofia recuperino l’unità profonda che le rende capaci di essere coerenti con la loro natura nel rispetto della reciproca autonomia. Alla parresia della fede deve corrispondere l’audacia della ragione” (n. 48).

Se all’inizio del pontificato Giovanni Paolo II aveva gridato in piazza san Pietro: “Non abbiate paura di Cristo”, vent’anni dopo Giovanni Paolo II grida: Non abbiate paura della ragione e della verità, perché è la verità che dissipa le illusioni e le menzogne e porta alla libertà autentica. La Chiesa, predicando Cristo e Cristo crocifisso, finisce anche per difendere e promuovere i diritti umani fondamentali, la dignità profonda di ogni essere umano, reso capace di accostarsi alla verità, e la stessa convivenza civile fra le persone e i popoli.


1 L’incontro è riferito in G. WEIGEL, Testimone della speranza, Milano 1999, p. 304.
2 L’espressione è dello stesso Wojtyla, in una lettera a p. Henry De Lubac, cit. in Ibidem, p. 215.

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