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Nessuno nasce scrittore

di Francesco Pacifico

Una ventina d’anni fa, quando in Italia l’idea di marketing del “giovane scrittore” era ancora giovane e i corsi di scrittura non ancora codificati come oggi, su invito di Aldo Grasso, Giuseppe Pontiggia concepì una serie di lezioni di scrittura per la radio: “il tema delle nostre conversazioni sarà lo scrivere, i problemi dello scrivere, le modalità e i percorsi dello scrivere”. Pontiggia insegnava già scrittura creativa in vari luoghi molto istituzionali, dai teatri agli istituti culturali alle università.

Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere esce come libro e cd per la casa editrice della scuola di scrittura Belleville di Milano. Appena ho letto che sarebbero state pubblicate delle lezioni di Pontiggia sono stato felice: è uno scrittore per cui l’intelligenza è parte dell’ingegneria del racconto e non va esibita. È uno scrittore sensibile, concreto e idealista insieme, e i suoi consigli agli aspiranti scrittori in Dentro la sera conservano queste qualità.

Qui ho raccolto alcuni brani del libro. Non so se si possa insegnare davvero a scrivere: come Pontiggia e tanti altri anch’io insegno scrittura creativa ed è difficile capire se funzioni, se sia maieutica, se sia un’illusione ottica, se chi è già scrittore dentro sappia sfruttare l’insegnante prendendo ciò che gli serve a prescindere dal piano delle lezioni… Pontiggia però prende questa domanda, tanto fondamentale da diventare retorica, e gli dà una risposta sensata.

 

Scrittori si nasce o si diventa?

“Scrittori si nasce o si diventa?”. Io direi, come prima risposta, che in senso stretto, non ho mai conosciuto nessuno che sia nato scrittore; ho conosciuto alcuni che sono diventati scrittori attraverso un tirocinio piuttosto duro che è fatto di prove, di crisi, di tentativi, di fallimenti, di frustrazioni, di momenti anche liberatori; un percorso impegnativo e faticoso, ben lontano da quella connotazione vagamente euforica che è implicita nell’aggettivo “creativo”.

La questione viene allargata: è il processo, il perfezionamento, la crescita e il lavoro quello che conta. Tanto che lo scrittore, una volta pubblicato e in certa misura tranquillizzato, scopre una nuova dimensione, il rapporto con l’editor. Il primo editor di Pontiggia fu niente meno che Elio Vittorini, che lo portò a Einaudi, nella collana I gettoni.

Quelle che non funzionavano, secondo lui, erano le recensioni dei sentimenti – come le aveva chiamate – espressioni del tipo “gli sembrava che…”, “aveva la sensazione che…”; le considerava dettagli analitici che interrompevano il ritmo dell’azione. Invece, trovava interessanti narrativamente i dialoghi, le scene riprese dal vivo, magari gli elenchi delle cambiali [nell’esordio La morte in banca]. Ecco, questa sensazione che il testo avesse parti buone e non buone, punti di forza e punti di debolezza, che fosse suscettibile di miglioramenti, di correzioni, ecco, tutte queste sensazioni sono legate al primo rapporto con lui.

 

Un testo che ne sappia più dell’autore

Senza quindi darci un’idea troppo prosaica della letteratura, senza ridurla a storytelling, Pontiggia fa vedere all’aspirante scrittore che tanti aspetti dell’arte hanno a che fare sia con gli altri che ci leggono e consigliano, sia con il testo in sé: i misteri che contiene. Invece di essere ossessionato da ciò che vogliamo fare, possiamo chiedere al testo cosa stiamo realmente facendo. Pontiggia si pone sul fronte opposto rispetto alla nota idea nabokoviana per cui siamo completamente in controllo di ciò che scriviamo e dei nostri personaggi, ma ci si pone senza troppo romanticismo, come descrivendo delle leggi dell’intelletto e dell’inconscio:

Penso che una delle mete di un narratore sia di dar vita a un testo che alla fine ne sappia più di lui, un testo che rappresenti per lui una fonte di sorpresa, di curiosità, di conoscenza, che non lo deluda alla rilettura, ma anzi riveli significati nascosti che lui stesso non poteva prevedere.

Nemico di questa ispirazione e di questo mistero è il “pregiudizio che scrivere sia trascrivere” ciò che sappiamo già. È “un pregiudizio che noi sentiamo ripreso implicitamente in molti casi, da quelli per esempio che si accingono a scrivere un articolo e dicono: ‘Devo buttare giù due cartelle su questo tema’ e danno l’impressione di sapere già quello che devono scrivere”. Pontiggia cita Márquez per darci un’idea che un testo non è la versione gonfiata di un’idea riassumibile in un minor numero di parole. “Gli chiedono: ‘Ci dica in poche parole quello che ha voluto dire in Cent’anni di solitudine’. E lui risponde: ‘Guardi, ho impiegato trecentomila parole, perciò si legga il testo, io non so dirle in poche parole che cosa ho voluto esprimere’”.

Oppure lo si può dire con Wittgenstein: “‘Io penso effettivamente con la penna, perché la mia testa spesso non sa nulla di ciò che la mia mano scrive’. È uno dei modi in cui si esprime l’idea che scrivere non è trascrivere, ma è scoprire quello che la penna rivela”.

 

Realtà contro Finzione

L’aspetto più bello di queste lezioni è forse la serenità con cui l’insegnante smonta alcuni miti dannosi per l’aspirante scrittore. Cito alcuni passaggi in cui si riflette sul rapporto dinamico tra realtà e finzione. Se “Wilde, osservando un tramonto, aveva commentato che era un cattivo Turner”, ciò vuol dire che lo scrittore deve ambire a fare meglio della realtà e soprattutto a non fare della realtà un feticcio: “Non possiamo difendere, per esempio, la noia che suscita un’opera facendo appello alla noia del tema”.

Alcune volte succedeva che l’autore difendesse, comprensibilmente, una scena o un particolare dicendo: “Ma nella realtà le cose sono andate così!”. Questo è capitato anche a me; io cercavo di salvare la credibilità, la tenuta di una scena dicendo la stessa cosa. È un pregiudizio da cui liberarsi. Contano solo le cose che capitano sulla pagina, nella realtà le cose possono essere andate in molteplici modi, nella pagina devono andare nel modo giusto. Non possiamo avallare quello che non funziona sulla pagina facendo appello a quello che è avvenuto fuori del testo. Noi tendiamo a confondere la pagina con la realtà anche perché la critica è a volte fuorviante, quando dice per esempio che “la pagina è intrisa di vita”, “la vita irrompe nellapagina”, “la pagina è ricca di sangue”, ecc. Sono metafore da cui io mi terrei un po’ lontano.

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