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Pier Paolo Pasolini, una disperata passione

di Mirella Bocchini, a cura di Enrico Leonardi

Un estraneo nell’intellighenzia italiana.

La cultura laica borghese ha censurato le parole e le domande più significative di Pier Paolo Pasolini. Tentiamo un itinerario della vita e del pensiero del grande regista al di fuori degli schemi.

Tracciare una sintesi dell’itinerario di pensiero-vita di Pasolini, con la eccezionale intersecazione di elementi culturali, poetici, politici, esistenziali di cui è tessuto, si rivela impresa vieppiù ardua man mano che ne rileggiamo i passi, sia scavando con riflessione crescente nella ricchissima materia dei suoi scritti e ripensandone l’opera cinematografica, sia nel ricordo di certi momenti in cui ho avuto modo di vederlo di persona.
Già a pochi mesi dalla morte, su Pasolini è calato un significativo silenzio: come prima – e più agevolmente ora che è morto e non può più correggere, protestare, sgolarsi – la censura laico-borghese ha seppellito quelle sue parole – e sono tante – che pongono una domanda di senso, introducendo una rottura nella maglia dei miti dominanti. Più facilmente vengono artificiosamente gonfiati con scandalo compiaciuto, o compiaciuto ossequio, gli elementi tutto sommato innocui, che non escono – al di là delle intenzioni dell’autore – da quanto è già stato codificato o è tranquillamente codificabile dal sistema.
Ciò che innanzitutto balza evidente nel sanguinoso cammino di Pasolini è il suo sentirsi – ed essere di fatto, per qualità vitale e per categorie di fondo – un diverso, estraneo, veramente anzi, CORPO ESTRANEO nel miniuniverso culturale e politico italiano.
«Il mondo della cultura – in cui io vivo per una vocazione letteraria, che si rivela ogni giorno più estranea a tale società e a tale mondo – è il luogo deputato della stupidità, della viltà e della meschinità. Non posso accettare nulla del mondo dove vivo: non solo gli apparati del centralismo statale – burocrazia, magistratura, esercito, scuola, e il resto -, ma nemmeno le sue minoranze colte» (“Guerra civile”, in “Empirismo eretico”, Garzanti 1972, pag. 154).
Questa solitudine viene avvertita con strazio: «Chi invece di capelli[allusione ai contestatori conformisticamente zazzeruti. N.d.R.] aveva idee / era ben abituato a questo restare dietro al branco /era da tutta la vita che soffriva questo dolore / questo atroce dolore del non conoscere fraternità». (“La restaurazione di sinistra e chi”, in “Trasumanar e organizzar”, Garzanti 1971, pag. 134).
Pure, Pasolini, nella consapevolezza del rischio rinnovato e crescente man mano che le sue scelte lo portano più lontano dall’élite progressista (prona al neostalinismo extraparlamentare), come dal sistema (in precedenza era avvenuto il distacco dalla Chiesa, che aveva visto come parte del sistema), decide ogni volta inflessibilmente di continuare a “perseguire la [propria] mania di verità” (“Trasumanar e organizzar”, Ibidem, pag. 76). È una decisione per niente presuntuosa, anzi consumata con sempre più terribile, allucinante amarezza: «Ma bisogna pure che qualcuno porti sulle miserabili spalle una croce (…) Ma bisogna pure che ci sia qualcuno pieno di croste, l’Intoccabile». (“Charta (sporca)”, Ibidem, pag. 103).

Vita = Parola

Pasolini riaffermò di continuo che solo da una scintilla di follia d’amore – autentica adesione o indignazione autentica – può scaturire la poesia vera, e ogni verità politica, sociale o personale.

Ma in cosa consiste sostanzialmente questa radicale diversità dell’autore? Il brano che segue, mentre sintetizza acutamente gli atteggiamenti già considerati, e per inciso rileva la difficoltà estrema a perforare la censura laico-borghese (ricordiamo il silenzio corposo calato sulle novità più serie di «Trasumanar e organizzar», «Empirismo eretico», «La nuova gioventù» ecc.), è importante soprattutto perché ci indica il punto genetico della «differenza» pasoliniana e di tutta la dinamica del suo discorso.
«Prevedo altre situazioni politiche / su cui non richiesto intervenire; perché ormai è così: / non voglio l’avallo di nessuno, e nessuno vuole / che io parli in suo nome / […] Ma il bisogno di amore ha una forza intrinseca, che non può / venire ignorata; quasi come l’aria di primavera. / Perciò parlerò, in nome mio no […] Né in nome d’altri, che non mi considerano degno, e mi ignorano» (Libro libero– in Trasumanar e organizzar – Garzanti 1971, pag. 148).
La radice della novità del poeta, ciò che, al di là di ogni suo sbaglio incoerenza e peccato, ne definisce la dignità umana e artistica sta qui: nell’affermazione di uno straziante, furioso, insopprimibile amore all’essere, all’uomo, al VERO. «Questa disperata passione di essere nel mondo»(Le ceneri di Gramsci, ne Le ceneri di Gramsci, pag. 81) lo ha accompagnato fin dall’inizio della sua strada, facendosi criterio di esistenza, di conoscenza, «accorata sete di chiarezza» (Picasso, ne Le ceneri di Gramsci, pag. 33), di lotta ideologica e politica, di ricerca espressiva: in altri termini consapevolezza critica.
Dinanzi ai più svariati aspetti della realtà, con un rigore di giudizio ripetuto ed estremo (ma non mai monotono, sempre modulato in piena aderenza all’oggetto in discussione), Pasolini riaffermò di continuo che solo da una scintilla di quella follia d’amore – autentica adesione o indignazione autentica – può scaturire la poesia vera, e ogni verità politica, sociale o personale. E viceversa ogni agire e ogni discorrere, singolo o collettivo, se privati di quel barlume sono vuoti di PAROLA, sterili «terroristici» (cioè portatori di morte), destinati al fallimento politico ed estetico, in quanto ritornano ad essere espressione e strumento del sistema (così si pronuncia a proposito delle avanguardie letterarie degli anni ’60 del P.C.I. – nel 1956 -, degli intellettuali pseudoprogressisti, degli extraparlamentari).
La «disperata passione» già fin dal 1957 aveva permesso al poeta di cogliere alcune dinamiche essenziali della persona: innanzitutto che l’analisi (storica, razionale, scientifica) non basta; può dare chiarezza, ma non dona vita: «Come io possiedo la storia / essa mi possiede; ne sono illuminato: / ma a che serve la luce?» (Le ceneri di Gramsci, cit., pag. 78). E poi, che il piegare il cuore alla realtà è una fatica da rifare ogni giorno – noi diremmo conversione quotidiana -; altrimenti ciò che era reale perde la sua verità e diventa ricordo evanescente: «Solo l’amare, solo il conoscere / conta, non l’aver amato, / non l’aver conosciuto. Dà angoscia / il vivere di un consumato / amore. L’anima non cresce più» (Il pianto della scavatrice, ne Le ceneri di Gramsci, pag. 97).
Le scoperte del poeta confluiscono sempre più consapevolmente in un unico discorso-atteggiamento-scelta: la coincidenza della vita con la parola, il rifiuto della frattura (borghese) tra ideologia – politica – letteratura ed esistenza personale. Anzi dirà che la parola più vera è innanzitutto una modalità di vita seria, santa: l’espressione santità ricorre continuamente nel lessico poetico pasoliniano, fino a quell’ultima lirica “Saluto e augurio” di cui è una delle categorie chiave.
Bisogna – dice – allargare la concezione del linguaggio, includendo nuove possibilità di comunicazioni umane, di segni “per comprendervi, santamente, anche l’esempio della vita (l’opera ideologica non scritta di Camillo Torres, tanto per dirne una)” (Ciò che è neozdanovismo e ciò che non lo è, in Empirismo eretico, pag. 166). L’opporsi al sistema, la lotta per l’uomo, implica un rischio radicale di sé: non esiste un’area pubblica della persona divisa da una area privata, non esiste l’intellettuale o il politico separato dall’uomo quotidiano.
«Ecco il nuovo motto di un impegno, reale, e non noiosamente moralistico: gettare il proprio corpo nella lotta». (Guerra civile, in Empirismo eretico, pag. 154).
E quanto quest’uomo credeva nelle cose che diceva mi sta conficcato in mente, perché mi è avvenuto di aver assistito a un fatto alla fine d’agosto del 1968: Pasolini va a parlare agli studenti – i sedicenti contestatori del sistema di Cà Foscari, la facoltà di architettura a Venezia. Sotto gli sputi, gli insulti, i gesti osceni di qualche centinaio di ignobili imbecilli urlanti, tenta, pallidissimo, con voce calma, umilmente, di spiegare perché, lui che ama e desidera la rivoluzione, non è d’accordo con il “modo” di intendere l’azione rivoluzionaria loro e degli altri studenti del 1967-’68: tenta, sul serio, per più di un’ora.

Di fronte a Cristo

Nonostante le innumerevoli esperienze successive del poeta e il suo esplicito rifiuto del cattolicesimo, Cristo rimarrà comunque e sempre per Pasolini il modello esistenziale e teorico di fondo, l’origine culturale indubbia di quel rifiuto della frattura tra ideologia e vita, di quel “gettare il proprio corpo nella lotta”.

Il rapporto tra Pasolini e il fatto cristiano è complesso: sembra apparire e svanire, ma non si perde mai, come un filo intessuto in profondità nella trama di tutta la sua storia.
Pasolini, da ragazzo, come egli stesso continuamente testimonia (e a dire il vero tutti riconoscono), è stato sicuramente cristiano e cattolico, con un’adesione lancinante, anche se, pensiamo, istintiva piuttosto che maturata nella consapevolezza, alla Chiesa e soprattutto alla figura di Cristo.
La mia religione era un profumo / […] Eppure Chiesa ero venuto a te. / Pascal e i Canti del Popolo Greco / tenevo stretti in mano, ardente, […] Tra i libri sparsi, pochi fiori / azzurrini, e l’erba, l’erba candida / tra le saggine, io davo a Cristo / tutta la mia ingenuità e il mio sangue” (“La religione del mio tempo” (1957-’59) in La religione del mio tempo, Garzanti 1961, pagg. 77-108).
Nonostante le innumerevoli esperienze successive del poeta e il suo esplicito rifiuto del cattolicesimo, Cristo rimarrà comunque e sempre per Pasolini il modello esistenziale e teorico di fondo, l’origine culturale indubbia di quel rifiuto della frattura tra ideologia e vita, di quel “gettare il proprio corpo nella lotta”.
Bisogna esporsi (questo insegna / il povero Cristo inchiodato?), / […] noi staremo offerti sulla croce, / alla gogna, tra le pupille / limpide di gioia feroce, […] miti, ridicoli, tremando / d’intelletto e passione nel gioco / del cuore arso dal suo fuoco, / per testimoniare lo scandalo” (“La crocifissione” (1948-’49) – ne L’usignolo della Chiesa cattolica, Longanesi & C, 1958).
Nella sua riflessione-imitazione del Cristo «esposto», proprio all’inizio del suo cammino, Pasolini aveva segnato – o si era lasciato segnare – un marchio indelebile nella carne: un modo d’essere, un metodo cioè, di tutto il proprio discorso-prassi.
In particolare il binomio scandalo-follia (dalla famosa frase di S. Paolo, 1a lettera ai Corinti, 1-23: “Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, follia per i Gentili”) è un’ espressione che ricorre nelle sue pagine, applicata alle proprie o altrui esperienze come criterio di misura della validità autentica di gesti, parole, fatti artistici (ciò che è vero si pone sempre come “scandalo e follia” rispetto al sistema sociopolitico, o al codice di linguaggio esistente).
Pasolini non ha sempre forse valutato appieno l’incidenza proprio teorica del fatto cristiano nella sua opera; d’altro canto sembra ad intermittenze ricordarlo. Pensiamo (oltre al “Vangelo secondo Matteo” e al densissimo periodo di riflessioni sulle Scritture, che lo precedette) al continuo riaffiorare del tema nei suoi testi, ed infine alle dichiarazioni degli ultimi anni fatte alla stampa o in televisione: in queste il poeta parla del Cristo come del “più alto archetipo di umanità mai esistito”, la contestazione, la “RESISTENZA” più radicale che si possa immaginare alla grigia orgia di cinismo, conformismo massificato, odio razzistico per ogni “diverso” che costituiscono la società attuale (sono parole sue, cfr. Il Giorno, 6 marzo 1963).

Di fronte alla Chiesa

Pasolini ha conosciuto una terra, una gente, un popolo – il Friuli – densi di esperienza cristiana reale, cioè vissuta, che hanno coinvolto in modo inestricabile le sue radici, la sua struttura umana: come modo di percepire le cose, le persone, il tempo (e perciò origine del suo poetare), e come giudizio sull’uomo, sul bene e sul male (eticità).
Purtroppo quell’esperienza di popolo cristiano, grande ma non matura culturalmente, non era in grado di fornire risposte adeguate, globali alla sua vita.

Ma quali sono dunque le ragioni che allontanarono questo tormentato scrittore-regista dal cattolicesimo?
Accenniamo non più che a uno schema della problematica di Pasolini riguardo alla Chiesa, e di alcuni momenti essenziali del suo itinerario dopo il distacco da essa. Pasolini ha conosciuto una terra, una gente, un popolo – il Friuli – densi di esperienza cristiana reale, cioè vissuta, che hanno coinvolto in modo inestricabile le sue radici, la sua struttura umana: come modo di percepire le cose, le persone, il tempo (e perciò origine del suo poetare), e come giudizio sull’uomo, sul bene e sul male (eticità).
Purtroppo quell’esperienza di popolo cristiano, grande ma non matura culturalmente, non era in grado di fornire risposte adeguate, globali alla sua vita. Principalmente tre, a mio avviso, i fattori che hanno giocato:
1) La mancanza, in quel popolo, di giudizi culturali e politici articolati riguardo alla problematica italiana e mondiale (capitalismo, imperialismo, ecc.) che il poeta, con la sua vivissima curiosità di intellettuale e di uomo appassionato ai bisogni dei suoi simili, si pose appena uscito dall’adolescenza e in seguito al nazifascismo e alla Resistenza.
2) La sensazione che, a differenza del suo Friuli cristiano, la Chiesa “ufficiale” nel suo complesso, allora e negli anni successivi, fosse permeata di fredda, arida ideologia borghese, di grigio burocratismo (come il P.C.I.), di compromessi con il sistema, di ignoranza culturale (sono parole sue).
3) Ma ben più dei problemi ideologici o di peccato storico più banalmente mondano della Chiesa (che la sua intelligenza aperta poteva trovare modo di superare), ha contato per il poeta il limite grave del moralismo (sia pur sano, contadino) incontrato nel mondo friulano: mi sembra indubbio, da numerosi accenni nelle sue opere, che egli abbia vissuto in proposito qualche tormentosa, e purtroppo decisiva, esperienza personale, come una non-accoglienza (probabilmente relativa ai suoi problemi psicosessuali), e che da allora abbia confuso il moralismo – che è una riduzione astratta, rigida, soffocante del fatto cristiano – con la realtà ecclesiale in quanto tale.
Bellissimo il dolore e il rimpianto di questo passo: “Ma tu che cosa hai fatto terra cristiana, per spegnere il fuoco che hai appiccato alla mia carne quando credevo un gioco l’amarti? […] Tu senza pietà hai tagliato il loglio dal tuo grano: un innocente e puro amore che ti destava. Non puoi perdonare, tu, Friuli cristiano, a uno che la tua lingua schiava liberava [che operava un ricupero della tua tradizione linguistica e culturale N.d.R.] in un cuore caldo di peccato”. (“Cansion” – ne La nuova gioventù (I sezione: La meglio gioventù 1950-’53), Garzanti 1975 – pag. 99).
A proposito della Chiesa usa talora espressioni di questo genere, più impaurite e smarrite (come probabilmente sentiva da ragazzo) che accusatrici: «Le campane cantavano parole di dovere, sorde come tuoni». (“Ciant da li ciampanis” – ne La nuova gioventù (II sezione, 1974), op. cit. pag. 187). Spesso tuttavia formula giudizi assai più duri: «Guai a chi con gioia vitale / vuole servire una legge ch’è dolore!». (“La religione del mio tempo”, ne La religione del mio tempo, op. cit . pagg. 77-108).
Curiosamente finirà per identificare la «Legge», l’istituzione, la non-libertà con la figura di S. Paolo (proprio il teorizzatore del cristianesimo come salvezza rispetto alla legge), contrapposto al Cristo liberante e vitale: strano errore per un uomo come Pasolini, serio e non ignaro delle Scritture.

Drammatica conclusione di una storia

Ed ecco il vicolo chiuso: «Tornare indietro o andare avanti, in nome di chi, e come e quando?»
Indietro è l’origine rifiutata. «Avanti» è il nuovo qualunquismo di sinistra.
Il poeta rimane solo a urlare la sua disperazione.

Indichiamo frettolosamente alcune tappe successive.
Nell’immediato dopoguerra: adesione al razionalismo laico e marxista, iscrizione al P.C.I.: vi resiste solo un anno (1947-’48).
Negli anni ’50: critica radicale al P.C.I. per stalinismo culturale, conformismo di sinistra, burocratismo oppressivo (anche se tenta di mantenere con esso un fraterno dialogo fino alla fine della sua vita: cfr. “Una polemica in versi”, ne Le ceneri di Gramsci, op. cit. – pag. 125 e segg., e inoltre “Trasumanar e organizzar”, in Trasumanar e organizzar, op. cit. – pag. 75, e “Charta (sporca)”, Ivi, pag. 103 – ecc. ecc.)
E’ di questi anni l’incontro fervido col sottoproletariato delle borgate romane: nasce nel poeta il mito del sottoproletariato visto come espressione di «disperata vitalità», realtà istintiva, tellurica, festosa, innocente (anche nella crudeltà): per lunghissimo tempo immaginerà che se una rivoluzione può nascere sarà da loro, così come dagli sfruttati del Terzo mondo.
1961-’64 – Messa in crisi del marxismo (non come strumento, ma come dogma fideistico), cioè dell’ideologia razionalistica e storicistica: «Ah, ah, la gara a essere uno più poeta razionale dell’altro/ la droga, per professori poveri, dell’ideologia! / Abiuro dal ridicolo decennio!» [il decennio 1945-’55 delle ferree convinzioni del materialismo storico, comunista, ecc. N.d.R.]. (Poema per un verso di Shakespeare, in Poesia in forma di rosa, op. cit., pag. 121).
Abbandonata la “maledetta casa di Dio”, è uscito ormai dalla “casa della Ragione”, dalla “noiosa Storia”, e ormai “senza dimora aaaah, adesso urlo AAAAAAH …,, (Ibidem, pag. 119).
1964 – “Vangelo secondo Matteo”: in generale accolto con grande freddezza, a differenza dei suoi film precedenti, dalla critica di sinistra. Dal 1963-’64 in poi si precisa, s’è detto, la sua battaglia contro l’intellighenzia laica italiana e contro il clima politico-culturale dominante, che culminerà (anni ’68 e seguenti) nella denuncia della contestazione extraparlamentare, “fascismo di sinistra” (Ciò che è neozdanovismo e ciò che non lo è, in Empirismo Eretico, op cit., pag. 157). Continua il dialogo critico (senza risposta) col P.C.I.: il poeta rimprovera al partito di diseducare le masse popolari, in quanto rifiuta ottusamente di vederne e valutarne politicamente la disgregazione etico-culturale, ne blandisce il consumismo, e favorisce a livello economico un “modello di sviluppo” socialdemocratico, neocapitalistico. E siamo ormai agli anni ‘70: cade nel poeta, lucido osservatore del quotidiano, sotto i colpi di una cosiddetta “cronaca nera” sempre più spietata (che è viceversa degenerazione di massa, perciò realtà politica, come riafferma) l’ultimo mito: quello del sottoproletariato vitale, gaio, ecc., che aveva – o pretendeva di avere – posto a tema della Trilogia della vita (“Decamerone”, “Racconti di Canterbury”, “Il fiore delle mille e una notte”).
Nell’estate del ’75 scrive l’«Abiura della Trilogia»: il sottoproletariato romano come i Pariolini: non c’è differenza: la stessa ottusa, massificata disumanità.
A 53 anni, nello sfacelo della società dei consumi, Pasolini, giunto al vertice estremo della sua consapevolezza, sa ormai che non ci sono più soluzioni rivoluzionarie intravvedibili all’orizzonte.
Il richiamo di quella “terra cristiana”… che gli aveva lasciato «il fuoco appiccicato alle carni» si fa più alto e pungente. Tutta la seconda parte di “La nuova gioventù” (1974-’75) lo testimonia, in ogni riga, in ogni fremito del verso. Pasolini, figlio della rivoluzione (illuminista e marxista), non ha trovato nulla di meglio, nella sua assetata ricerca della vita, di quella realtà antica, di quella tradizione di popolo vero che legava i padri ai figli: «Un figlio nato lontano, / nel mondo dei borghesi, / con in mano la bandiera / della Novità, scolaro / dello Scandalo, erede / della Rivoluzione / è morto d’amore / per un mondo di foglie / bagnate dalla pioggia, / e non ha trovato mai nulla / di più dolce che quel tornare / dei Padri nei Figli». (Tornant al pais. – Quarta variante, ne La nuova gioventù (II sezione 1974), op. cit., pag. 186).
D’altra parte tornare alla Chiesa non può, per il giudizio che ha su di essa: sente questa ipotesi come un tradimento che gli ripugna, come una impossibilità per sé tanto a livello razionale che emotivo – non molto diversa dall’essere fascista: «Se volessi diventare / cattolico o fascista / non potrei, […] Non potrei seppellirmi / in un tempo che non si muove, / e vivere da traditore». (Tornant al pais– Seconda variante, ne La nuova gioventù (II sezione 1974), op. cit., pag. 183).
Ed ecco il vicolo chiuso: «Tornare indietro o andare avanti, in nome di chi, e come e quando?»
(La domenia uliva, ne La nuova gioventù, op. cit. pag. 200).
Indietro è l’origine rifiutata. «Avanti» è il nuovo qualunquismo di sinistra.
Il poeta rimane solo a urlare la sua disperazione.
Salò” ne è l’esito allucinante: una lunga, terribile bestemmia sull’uomo, ove anche la poesia sembra pietrificata nel disgusto.
L’osceno volto dell’odio, della morte senza senso, del sesso insozzato a violenza e abominio trafiggono di gelo le immagini, che pure a tratti grondano di pena.
Può la sofferenza per le creature umane calpestate, ancora, paradossalmente rovesciare la bestemmia in domanda?

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