Rebecca libri

Quel maledetto 1992, Augusto Cavadi, Di Girolamo, 2022

di Augusto Cavadi, Di Girolamo

Una chiave di lettura coraggiosa e originale

A trent’anni dalle stragi di mafia ogni scritto corre il rischio di scivolare nella retorica più banale. Lo ha ben presente Augusto Cavadi e, sin dalle prime pagine, mette in guardia il lettore dalle insidie dell’antimafia di facciata con una citazione durissima: “di vero c’è soltanto il botto”. Sintesi eccellente di una sconfitta storica e giudiziaria se ancora oggi i dubbi e le ombre sovrastano quanto accaduto negli anni delle stragi del ’92 e del ’93 (ma si potrebbe facilmente allargare lo spazio temporale a tutte le stragi del secondo Dopoguerra).
Nonostante le condanne degli uomini di Cosa Nostra, infatti, la strategia terroristica messa in campo concretamente dai Corleonesi fa emergere altre possibili chiavi di lettura, altre concorrenti e gravissime, indicibili responsabilità.
Come leggere, quindi, questo presente?
L’autore suggerisce una chiave di lettura coraggiosa e originale quando dice che bisogna partire dalla propria angoscia personale. Senza vittimismo, ma partendo dalla propria indignazione e dalla volontà di esercitare sino in fondo il proprio diritto/dovere di cittadini liberi.
Occorre, pertanto, innanzitutto conoscere il fenomeno mafie in tutte le sue sfaccettature ed il libro ci guida con pagine di una sintesi di rara efficacia, ponendo tra il lettore e l’analisi storica e sociologica la giusta distanza, invitando ad esercitare il dubbio senza timori reverenziali.
Ma questo testo non è solo una brillante rappresentazione del fenomeno mafioso, è soprattutto una guida per capire quale strada sia percorribile per non essere sopraffatti dalla propria angoscia personale.
Vivere in maniera alternativa alle mafie, anche se costa: questa è, secondo l’autore, l’unica strada percorribile. Le altre sono cammini esistenziali fatti di connivenza con la palude mafiosa, che non è stata certamente prosciugata.
Dobbiamo conservare l’amore per la dignità, la capacità di guardare criticamente l’evoluzione della società in cui viviamo.
Esemplare il ricordo dell’insegnamento di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e struggente la citazione delle loro parole.
Per non tradirli dobbiamo continuare, senza perdere la speranza di raggiungere la verità storica, se non giudiziaria, riguardo a quanto accaduto in quel terribile 1992.

Franca Imbergamo
Sostituta Procuratrice della Direzione nazionale
antimafia e antiterrorismo (Roma)

 

I. Tragedia storica, angoscia privata

Raramente capita che le tragedie della storia ci tocchino come vicende private. A me è capitato pochissime volte. Due di queste, a meno di due mesi di distanza, fra il 23 maggio e il 19 luglio del maledetto ’92. Ogni tanto ho riflettuto sulle ragioni di questa sensazione insolita, rara: ma non sono riuscito a fare chiarezza.
Falcone1 e Borsellino2 li avevo conosciuti di persona, ma non potevo certo considerarmi un loro amico: probabilmente non mi avrebbero riconosciuto se mi avessero incontrato in un corridoio del Palazzo di Giustizia o in un bar.
Invece avevo conosciuto molto più da vicino Gaetano Costa, negli anni del liceo compagno di classe di mio padre a Caltanissetta, poi Procuratore della Repubblica a Palermo. Le rispettive famiglie si frequentavano, soprattutto nei mesi estivi, a Mondello. Una persona integerrima. Quando cadde trucidato sotto casa il 6 agosto dell’Ottanta mi dispiacque davvero, ma forse!– nonostante i miei trent’anni!– non ero abbastanza maturo: mi dispiacque come ci si dispiace quando un amico di famiglia muore di cancro o investito da un pirata della strada. Provai dolore e rabbia, dolore e odio verso i vigliacchi anonimi che avevano assassinato un sessantaduenne inerme che sfogliava libri usati in via Cavour: dolore, rabbia, odio, ma non angoscia3.
L’angoscia è tutta un’altra cosa. È una stretta alla gola che ti mozza il respiro; è una morsa al petto che mima l’infarto. È una sospensione dell’attività mentale perché non soltanto si è fatto improvvisamente buio intorno a te: anche dentro di te il cervello si è spento come per un interruttore. Solo piangere ti conforterebbe, ma l’angoscia t’impedisce pure questo. L’angoscia: ecco quello che ho avvertito quando, mentre percorrevo con due amici l’autostrada da Messina a Palermo, l’autoradio ha gracchiato le prime notizie confuse su un’esplosione nei pressi di Capaci. Con i primi telegiornali della sera ogni residuo di!– sia pur folle!– speranza fu spazzata via. E, con la concatenazione delle sequenze di un film già montato, mi passarono!– e mi ripassarono!– le immagini e le parole di una preghiera due volte laica. Era infatti la preghiera rivolta non solo, genericamente, a un Dio laico (l’unico che riesco a pregare), ma anche, più direttamente, a un concittadino laico.
Gli ho chiesto!– a Giovanni Falcone!– perdono.
Perdono a nome di quei palermitani che si erano lamentati perché il suono delle sirene disturbava la pennichella pomeridiana quando le auto blindate lo riaccompagnavano a casa dal tribunale.
Perdono a nome di quel politico (amico!) che, in tv, lo aveva accusato di essere ingiustificatamente cauto nell’incastrare gli amici potenti dei mafiosi e di tenersi le carte più scottanti nei cassetti.
Perdono a nome del poliziotto che, in coda con me al panificio, prometteva al collega che l’avrebbe ammazzato lui quel giudice se non l’avesse fatto prima la mafia: troppe lavate di capo per chi veniva sorpreso a leggere La Gazzetta dello Sport quando avrebbe dovuto controllare ingressi ed uscite dal portone.
Non fu una ferita facile da rimarginare.
Tanto più che, cinquantasette giorni dopo, le bombe di via D’Amelio l’avrebbero furiosamente risquarciata trucidando Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta.
Dell’anziano giudice Antonio Caponnetto!– che aveva ereditato da Rocco Chinnici la guida del pool antimafia!– quando balbettò alle telecamere: «È finito tutto» compresi sillaba per sillaba. Perfino il tono della voce mi riuscì inevitabile. Capii, arrivai quasi a condividerne lo sconforto.
Quasi: perché quasi?
Perché decisi di fermarmi un attimo prima d’identificarmi totalmente con la disperazione di un vecchio padre ormai derubato dei due figli preferiti. Egli aveva diritto di gettare la spugna, almeno in quel frangente (in realtà, ben presto Caponnetto si rialzò dal tappeto e sino alla morte combatté, girando per le scuole d’Ita lia, la sua buona battaglia contro il sistema di potere assassino4).
Decisi: fu un atto della volontà perché ormai tutto il resto!– previsione razionale, sentimento, emozioni!– si era arreso all’evidenza della tragedia senza scampo. Mi ricordai di san Juan de la Cruz: della necessità di attraversare la notte più fonda!– la notte in cui non si vede nulla, non si sente nulla, non si crede più a nulla!– prima di poter, forse, sperimentare la pace. E in queste notti senza stelle e senza luna puoi resistere, e persistere, solo se lo decidi con quell’energia intima che sperimenti di possedere (o di esserne posseduto?) quando ormai assapori l’amarezza dello stremo. Dell’estremo.
A sostenermi in quella fase di prostrazione spirituale (uso questo aggettivo per nominare qualcosa di più profondo dello psicologico, di più coinvolgente del mentale, di inclusivo dell’intero essere) fu un pugno di donne che lanciarono la proposta di un “comitato dei lenzuoli”5 e di un “digiuno contro la mafia”. Chiesi e ottenni ospitalità presso la loro tenda a piazza Castelnuovo, davanti il teatro Politeama. Era un modo di metabolizzare e di canalizzare un impulso violentissimo che, se abbandonato a briglie sciolte, avrebbe danneggiato poco i possibili bersagli esterni e molto noi stesse, noi stessi; ma era anche un modo di gridare alle istituzioni la nostra “fame di giustizia”.
Non volevamo che restassero sulle stesse poltrone i personaggi pubblici che avevano rappresentato così maldestramente il volto dello Stato repubblicano. E quando, una dopo l’altra, le autorità così poco autorevoli e così poco efficienti (non ci sentivamo di escludere che potessero essere persino complici degli assassini o, per lo meno, dei loro mandanti) uscirono di scena, ci sembrò di riprendere!– sia pur lentamente!– a respirare dopo una troppo lunga apnea.
Fu solo anni dopo che appresi come dal travaglio doloroso di quei giorni veniva alla luce, a una nuova vita, una donna di straordinaria tempra morale con cui, più di una volta, sarei andato in giro per la Sicilia nel tentativo di evitare che l’indignazione e l’esigenza di giustizia si spegnessero prematuramente:

«Sono Rita Borsellino, sorella di Paolo. Sono nata il 2 giugno 1945 e sono rinata il 19 luglio 1992. […] Forse sarei ancora chiusa tra le mura di casa a vedere che cosa capita fuori se non fosse successo quel che è successo»6.

Anche per Rita l’incontro con le “donne del digiuno” costituì un sostegno decisivo:

«Dunque, un giorno, uscendo dal portone della casa dei suoceri, vidi questo manifesto delle donne del digiuno e non so perché mi soffermai a lungo. Lo lessi e rilessi. Mi impressionò tantissimo, mi emozionò. Forse perché erano donne, forse per una forma di protesta che portavano avanti: “Digiuniamo perché abbiamo fame di giustizia”, dicevano.
Questa cosa mi incuriosì e mi coinvolse positivamente perché di solito e fino ad allora le proteste erano state più che altro generiche lamentele. E invece loro dicevano con chiarezza cosa c’era di sbagliato ma soprattutto che cosa volevano: devono andare via quelli che riteniamo responsabili almeno di omissione nella protezione di quest’uomo, via il capo della polizia, via il Procuratore della Repubblica, via il prefetto, il questore…Così prestai attenzione a questo movimento che si andava delineando.
Ho saputo dopo che in Piazza Politeama, nel cuore di Palermo, c’era una tenda dove non solo si faceva lo sciopero della fame ma si prendevano adesioni per allargare questo digiuno a staffetta. Era una presa di posizione collettiva, ci si scambiavano le impressioni, le prospettive, si pianificava quello che si doveva fare. Palermo doveva essere vuota per l’estate e invece ho avuto molte conferme che parecchie persone, anziché scappare via, erano tornate dalle vacanze, stavano in piazza, sentivano il bisogno di presidiare questa città: la mafia è anche controllo del territorio e io credo che lì, per la prima volta, gli onesti volessero riprendere il controllo del territorio. Dopo la morte di Falcone ognuno era tornato alle proprie abitudini, invece in quell’estate la gente pensava di doversi occupare personalmente del proprio futuro»7.

Gli attentati del 23 maggio e del 19 luglio del ’92 hanno avuto delle ripercussioni mediatiche planetarie come pochi altri eventi della storia d’Italia. Hanno anche inciso nelle coscienze di molti cittadini sino a quel momento inconsapevoli o distratti. Ma il tempo scorre inesorabile, niente è così determinante da sottrarsi all’oblio progressivo. Anche senza considerare l’attività “normalizzatrice” di chi ha l’interesse a bloccare ogni evoluzione civica, ciascun evento continua ad agire solo se le generazioni successive hanno modo di ascoltarne il racconto, decifrarne il senso per attualizzarlo nei nuovi contesti, consegnarne la memoria a chi subentra.

II. Trent’anni dopo

A trent’anni da quelle giornate – sono davvero trascorsi tanti anni? – la situazione è tristemente identica ma anche, per fortuna, incomparabilmente diversa8.

Cosa non è cambiato

È identica: la mafia come sistema di potere asfissiante continua a riscuotere il pizzo su quasi ogni commessa, su quasi ogni impresa, su quasi ogni negozio9; continua a inquinare la dialettica democratica contrattando intollerabili sinergie con politici di ogni livello (in sede giudiziaria lo si è appurato sino alla Presidenza del consiglio dei ministri, con Giulio Andreotti, e della Regione Sicilia, con Salvatore Cuffaro). Continua a esercitare una sorta di potere giudiziario parallelo alle Forze dell’ordine e alla Magistratura (approfittando delle lacune e dei ritardi delle istituzioni statali): raccoglie le denunzie di chi ha subito reati; impone ai piccoli delinquenti la restituzione della refurtiva procurata senza “autorizzazione”; esige, su richiesta dei dipendenti, il rispetto dei contratti da parte dei datori di lavoro e, su richiesta dei datori di lavoro, la rinunzia dei dipendenti ai propri diritti; si adopera per un rapido pagamento dei debiti o, secondo le circostanze, per una rinunzia – altrettanto rapida – ai propri crediti.
Le vicende processuali relative alla strage di Capaci e, soprattutto, di via d’Amelio costituiscono una sorta di amaro emblema del radicamento e delle ramificazioni del sistema mafioso. La risposta che, a vent’anni dal ’92, il giudice Ferdinando Imposimato diede alla domanda “È stata fatta giustizia?” rimane anche oggi sostanzialmente valida:

«La risposta è no, né per Capaci né per via D’Amelio. È molto grave. Lo Stato ha dimostrato di essere in parte complice delle due stragi, che non sono state opera di mafia e basta, ma vedevano coinvolti a tutti gli effetti anche alcuni esponenti delle istituzioni.
Si prova amarezza quando due simboli dell’aver insegnato e dispensato giustizia, paradossalmente non hanno avuto quel che hanno elargito. Giustizia appunto. Una sete non solo loro, ma dei loro familiari, dei familiari delle scorte e di migliaia di cittadini che hanno diritto di sapere»10.

Dopo la parentesi terroristica degli anni Ottanta e Novanta del XX secolo, la mafia è ritornata al basso profilo, al vecchio camaleontismo. Si è “inabissata”. Non direi, con un amico che stimo molto, che Cosa Nostra non esiste più e che è stata sostituita da “Cosa Grigia”11: è indubbio, però, che, all’interno del sistema di potere mafioso, i colletti bianchi hanno un peso più rilevante rispetto ai colonnelli e ai killer robotizzati ai loro ordini.
Una rappresentazione plastica del predominio dell’ala politico-diplomatica rispetto all’ala militare-terroristica, in continuità sostanziale comunque con l’impianto “tradizionale”? Nel 1990 il Cavaliere Silvio Berlusconi è costretto a pagare i criminali che minacciano di incendiare i locali della sua Standa a Catania (nonostante avesse accettato d’assumere come “stalliere” e di ospitare nella sua villa di Arcore, dal 1972 al 1976, Vittorio Mangano, secondo Paolo Borsellino una delle “teste di ponte dell’organizzazione mafiosa nel Nord Italia”); nel 2022 lo stesso personaggio non ha più nulla da temere dai “nuovi” capi di Cosa Nostra perché (nonostante sia stato condannato in via definitiva per frode fiscale e permanga imputato per il caso Ruby, la “nipotina” di Mubarak, e indagato per le stragi di mafia del 1993)!è, incredibilmente, uno dei candidati favoriti alla presidenza della Repubblica! No: un soggetto del genere non è più, per la mafia “intelligente”, un bersaglio potenziale. Non è più vulnerabile come trent’anni prima e, in ogni caso, da leader del Centro-destra e capo del Governo nazionale, ha accumulato molti meriti agli occhi dei boss, sia “legalizzando l’illegalità”12 sia cercando di ridurre gli spazi operativi dei magistrati, sui quali ha rilasciato dichiarazioni allucinanti:

«Questi giudici sono doppiamente matti. Per prima cosa, perché lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana»13.!

Cosa è cambiato

Ma la situazione della mafia è anche incomparabilmente diversa rispetto al 1992. Il gotha di Cosa Nostra di quegli anni micidiali è quasi tutto o sotto chiave o sotto terra: non c’è da cantare vittoria definitiva, ma sarebbe da stupidi negare che il bicchiere è adesso mezzo pieno. Se sosteniamo che la mafia «ha sempre comandato e continua a farlo», che «ha sempre vinto» e dunque «vincerà sempre», legittimiamo una tesi che «da un lato è paralizzante per i “buoni” e dall’altro, semplicemente, non è fondata nella realtà dei fatti»14.
L’autore di dichiarazioni da film comici di bassa lega sui giudici è lo stesso che, mediante un emendamento presentato dalla sua maggioranza parlamentare, nel 2005, riuscì a bloccare (con un provvedimento successivamente dichiarato incostituzionale dalla suprema Corte) la nomina di Giancarlo Caselli a Procuratore nazionale antimafia. Al suo posto andò Pietro
Grasso che, però, non fece nessuno sconto ai suoi viscidi “benefattori”:

«Oggi bisogna stare attenti a coloro che, più che riformare la giustizia e curarne i mali secolari, vogliono riformare i magistrati, intimidirli, renderli inoffensivi; a coloro che vogliono diminuire l’autonomia e l’indipendenza di quei magistrati i quali, pur non essendo stati eletti dal popolo, si distinguono per il rigore etico, per la difesa inflessibile della cosa pubblica, delle istituzioni e della società, per l’affermazione e la tutela di quei valori di libertà, di eguaglianza, di verità e di giustizia, da sempre esaltati e impersonati dai colleghi Falcone e Borsellino.
Quei magistrati, matti o utopisti, che ancora credono che in Italia si possa riuscire a processare, oltre ai mafiosi e agli autori delle stragi, anche la mafia dei colletti bianchi: gli infiltrati nelle istituzioni, i corruttori di giudici, pubblici funzionari e politici, coloro che creano all’estero società fittizie per riciclare denaro sporco.
Si sappia che noi magistrati andremo avanti a tutta forza a perseguire tutte le illegalità, anche le più piccole. Ci impegneremo ancora di più nel nostro lavoro, con la massima professionalità, cercheremo di accelerare anche di un sol giorno il lento procedere della giustizia. Siamo o non siamo antropologicamente diversi?»15.

La categoria dei magistrati non è immune dai vizi e dagli errori di ogni altra categoria professionale (e chi ne fa parte è nelle condizioni ottimali per saperlo e per denunziarlo16). Tuttavia, non sarebbe onesto negare che la mafia militare e terrorista in ginocchio è, prioritariamente, l’effetto dell’impegno dei magistrati inquirenti (in stretta sinergia con le Forze dell’ordine). E che questo risultato, apprezzabile dall’angolazione giudiziaria, repressiva, lo è altrettanto per i risvolti inediti nella storia siciliana dall’angolazione culturale, del senso comune. Difficilmente si può esagerare il progresso segnato da questo dato di fatto: la media statistica attesta che i boss si spengono, soli, in galera; non più, nel proprio letto, circondati dall’affetto delle persone care, onorati da funerali religiosi, dopo anni di quiescenza dorata fra gli agrumi del proprio feudo. Certo, ancora ci sono giovani che fanno la fila per subentrare nella militanza del disonore, ma almeno sanno che l’impunità!– da regola che era!– si è fatta eccezione. E questa incertezza sul futuro (se non si muore ammazzati, si rischia di marcire in una cella) frena la baldanza tradizionale. Qualche vecchio capomafia se n’è lamentato, non sapendo di essere intercettato: non è facile più come un tempo rimpiazzare i vuoti dell’organico con nuove leve.
Dal 2015 al 2018 il Parlamento italiano! – sempre claudicante, sempre deludente!– ha comunque realizzato una sorta di risposta simbolica alle ferite ripetutamente inferte da Cosa Nostra scegliendo per i due scranni più alti dello Stato democratico altrettanti siciliani la cui vicenda umana è stata fortemente contrassegnata dall’opposizione alla mafia: il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (dedicatosi alla politica attiva per una forma di omaggio alla memoria del fratello Piersanti) e il Presidente del Senato Pietro Grasso (già Procuratore della Repubblica di Palermo e Capo della Direzione nazionale antimafia).
So che Cosa Nostra si spappolerà, ma non so quando.
So che Cosa Nostra non ha vinto solo per merito di martiri civili di cui dovremmo custodire la memoria17, ma anche di eroi silenziosi che non sono morti e di cui nessuno conoscerà il volto. Questo, come siciliano assai scontento dei siciliani (a cominciare da me stesso), devo ammetterlo per onestà intellettuale: se la mafia ci ha piegato ma non abbattuto è grazie a decine di caduti come a migliaia di resistenti sopravvissuti.
È grazie a quei cittadini anonimi che non si sono venduti all’esercito nemico per soldi o per paura.
A quei magistrati che, anche lontano dai riflettori, hanno perseverato nella ricerca degli assassini e dei loro subdoli mandanti in doppiopetto.
A quei giornalisti che hanno continuato a raccontare reati e a ventilare ipotesi investigative.
A quei poliziotti, a quei carabinieri, a quelle guardie di finanza che hanno continuato a indagare, a intercettare, a pedinare, ad affrontare scontri a fuoco.
A quei burocrati che hanno resistito alle pressioni dei politici e alle proposte degli affaristi corruttori.
A quei politici che – pur tra errori e inadempienze– hanno lavorato come legislatori o come amministratori senza abusare del loro ruolo, senza utilizzarlo a scopi privati né a vantaggio di consorterie.
A quei commercianti che si sono decisi, subito o con ritardo, a denunziare gli estortori.
A quegli insegnanti, a quegli assistenti sociali, a quei preti, a quei sindacalisti, a quei giovani volontari che hanno perseverato!– del tutto fuori da ogni riflettore, del tutto estranei a qualsiasi gratificazione sociale!– nel fare, molto semplicemente, il proprio mestiere.


1 Giovanni Salvatore Augusto Falcone era nato nel 1939. È stato assassinato pochi giorni dopo il suo 53esimo compleanno.
2 Paolo Emanuele Borsellino era nato nel 1940. Al momento dell’assassinio aveva 52 anni.
3 Che deflagrazione affettiva ed emotiva comporti un delitto del genere nel nucleo familiare della vittima è illustrato efficacemente nel libro di memorie della vedova: R. BARTOLI COSTA, Una storia vera a Palermo, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta 2001.
4 Di lui vedere, almeno, A. CAPONNETTO, Io non tacerò. La lunga battaglia per la giustizia, Melampo, Milano 2010.
5 Tra le mie carte ho la fotocopia di un appello a firma de “Il comitato dei lenzuoli” datato 17 agosto 1992: «In segno di dolore e di protesta noi abbiamo appeso ai nostri balconi lenzuoli con scritte, le più varie, contro la mafia. Dal giorno 19 al 23 agosto invitiamo tutti a fare altrettanto: si compie il terzo mese della strage di Capaci […] e un mese dalla strage di via D’Amelio […]. Pensiamo che allo scadere di ogni mese Palermo dovrebbe tappezzarsi di scritte in cui si chiede conto delle indagini e in cui si ricorda il nostro dolore per le stragi. Basta anche un lenzuolo bianco per dire no alla mafia, per fare sapere che non siamo una città mafiosa, che siamo contro la prepotenza e la vigliaccheria dei mafiosi. Qualcosa deve cambiare: “Ognuno deve fare la sua parte, piccola o grande che sia, per contribuire a creare in questa Palermo condizioni di vita più umane”, scriveva Falcone. Che il tempo dell’attesa della giustizia venga scandito dalla protesta silenziosa e semplice dei cittadini: ogni mese dal 19 al 23 appendiamo un lenzuolo ai nostri balconi. A poco a poco saranno centinaia, poi migliaia, una volta al mese per non dimenticare, per esprimere solidarietà ai magistrati e alle forze dell’ordine, per affermare che la giustizia è possibile e che la mafia non è invincibile. Il comitato inoltre si impegna a queste scadenze a telegrafare, chiedendo conto delle indagini, al Capo dello Stato, al ministro dell’Interno, al ministro della Giustizia, al questore di Palermo, al procuratore della Repubblica di Caltanissetta e al F.B.I. Anche questo è un modo per non dimenticare».
6 R. BORSELLINO, Nata il 19 luglio. Lo sguardo dolce dell’antimafia, Melampo Editore, Milano 2006, p. 13. Poco oltre: «Scatta questo meccanismo per cui tu pensi proprio questo: “Ma devo dargliela vinta? Ma è possibile che dobbiamo dargli ragione? Li hanno ammazzati e non c’è più nulla, non resta più nulla di Paolo Borsellino, di Roberto Antiochia, di tutti quelli che sono morti così? È mai possibile che non debba restare più nulla?”. Allora ci si mette in cammino, ci si mette in gioco, per cercare di trasmettere quello che noi abbiamo vissuto intensamente e dolorosamente negli anni in cui tutto questo si è preparato e nel momento in cui poi questa morte si è materializzata» (ib., p. 15). Rita Borsellino è deceduta, fiaccata da una dolorosa malattia, il 15 agosto del 2018.
7 Ib., pp. 20-21.
8 Se non si considerano insieme, contestualmente, gli aspetti di
permanenza e gli aspetti di novità ci si condanna a quella visione
“schizofrenica” della mafia che la giornalista Marcelle Padovani registrava,
tre anni dopo il ’92, nella stampa italiana ed estera: «Quando
capita un successo molto importante come il maxiprocesso, come
l’arresto di Totò Riina, oppure quando c’è l’“operazione Leopardo”,
abbiamo tutti la tentazione di scrivere: “La mafia è sconfitta”, e qualche
volta lo scriviamo; e dopo sentiamo di voti mafiosi che si spostano
su un partito o su un altro, e poi sentiamo di un uomo politico
che forse ha baciato Totò Riina e che forse è “punciuto” e allora ci
viene voglia di scrivere che chi governa l’Italia è la mafia. E questo
non è molto serio» (M. PADOVANI, Intervento in Capaci: quanto tempo
fa?, Reso conto stenografico a cura del Sistema informativo A.R.S.
del Convegno organizzato dalla Fondazione Giovanni e Francesca
Falcone, Palermo 19-21 maggio 1995, p. 26).
9 Tra gli studi scientifici, la raccolta di saggi – a cura di A. La Spina – I costi dell’illegalità. Mafia ed estorsioni in Sicilia, Il Mulino, Bologna 2008; sul piano più divulgativo, R. MAZZARELLA, L’uomo d’onore non paga il pizzo, Città Nuova, Roma 2009, dove si specifica che il racket è un “sistema” che sa «essere flessibile e moderno: oggi taluni esattori del pizzo si “accontentano” del pagamento rateale. Altri, piuttosto che richiedere reali somme di denaro, preferiscono imporre servizi, manodopera» (p. 41). La pandemia da Covid-19 ha moltiplicato le occasioni di prestito a usura, senza ridurre sensibilmente la pressione estortiva. Ancora nella scorsa estate il questore Leopoldo Laricchia ha dichiarato a «La Repubblica-Palermo» (4 luglio 2021) a proposito della zona periferica orientale del capoluogo regionale: «Hanno imposto il pizzo pure durante il lockdown: un quadro inquietante, nei quartieri di quella parte di città nessuno ha mai denunciato».
10 F. IMPOSIMATO, È stata fatta giustizia?, in D. GAMBINO!– E. ZANCA, Vent’anni, Coppola Editore, Trapani 2012, p. 82.
11 Cfr. G. DI GIROLAMO, Cosa Grigia. Una nuova mafia invisibile all’assalto dell’Italia, Il Saggiatore, Milano 2012.
12 Cfr. U. SANTINO, Mafia e antimafia nell’era Berlusconi, in «Confronti» (2002/6), p. 6.
13 Tutte le agenzie di stampa del 4 settembre 2003 hanno riportato questo passaggio di un’intervista a Berlusconi.
14 S. LUPO, Potere criminale. Intervista sulla storia della mafia, a cura di G. Savatteri, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 172. Cfr. più sotto l’approfondimento di G. D’ANNA, Riina e il super-ego criminale del padrino irredimibile, pp. 23-25.
15 P. GRASSO!– A. LA VOLPE, Per non morire di mafia, Sperling & Kupfer, Milano 2007, pp. 258-259.
16 Un titolo per tutti: G. DI LELLO, Giudici, Sellerio Editore, Palermo 1994, dove – premesso che, «se si va alla sostanza della giustizia, ci si accorge come la sua dea sia bendata ma sappia annusare le differenze, specie quelle di classe» – si prova a «ricostruire i percorsi giudiziari della mafia dal dopoguerra ai nostri giorni, con un riferimento costante ai fatti storici che la magistratura ha quasi sempre ignorato o distorto per una sorta di pudore strategico teso a nascondere ai più l’illusorietà di quella benda di fronte ad un sistema di potere di cui è stata parte integrante» (ib., p. 9).
17 Tutti i caduti, dall’Unità d’Italia a oggi, meritano gli stessi onori e la stessa riconoscenza e fa benissimo l’associazione di associazioni antimafia “Libera” di ricordarne, ogni 21 marzo, l’elenco lunghissimo completo. Ciò non toglie che, per particolari circostanze, il martirio di alcuni abbia inciso più profondamente nella sensibilità collettiva né deve stupire che ogni tradizione culturale-politica coltivi in maniera privilegiata (non settaria, esclusiva) la memoria di un proprio esponente. Ad esempio è comprensibile l’affezione delle organizzazioni di Sinistra per personaggi come Peppino Impastato (1948-1978) (su cui cfr. S. VITALE, Intorno a Peppino. Tempo, idee, testimonianze su Peppino Impastato, Di Girolamo, Trapani 2020 e A. CAVADI, Peppino Impastato martire civile. Contro la mafia e contro i mafiosi, Di Girolamo, Trapani 2018) o Pio La Torre (1927-1982) (su cui cfr. G. BURGIO, Pio La Torre. Palermo, la Sicilia, il PCI, la mafia, Centro di studi e di iniziative culturali Pio La Torre, Palermo 2008); o la predilezione del mondo cattolico per personaggi come Rosario Livatino (1952-1990) (su cui cfr. A. CAVADI, Rosario Livatino un laico a tutto tondo, Di Girolamo, Trapani 2021) o don Pino Puglisi (su cui cfr. F. PALAZZO!– A. CAVADI!– R. CASCIO, Beato fra i mafiosi. Don Puglisi: storia, metodo, teologia, Di Girolamo, Trapani 2013).

 

 

 

Quel maledetto 1992 | Augusto Cavadi | Di Girolamo | 2022 | pagine 144 | euro 15,00

Il Pensare i/n Libri raccoglie testi di natura letteraria a scopi culturali e senza fine di lucro. La proprietà intellettuale è riconducibile all'autore specificato in testa alla pagina, immediatamente sotto il titolo, e in calce all'articolo insieme alla fonte di provenienza e alla data originaria di pubblicazione.
Le immagini che corredano gli articoli del Pensare i/n Libri sono immagini già pubblicate su internet. Qualora si riscontrasse l'utilizzo di immagini protette da copyright o aventi diritti di proprietà vi invitiamo a comunicarlo a info@rebeccalibri.it, provvederemo immediatamente alla rimozione.
Prossimi eventi
Newsletter
Iscriviti alla nostra newsletter
Accesso utente