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Quello di cui nessuno parla: intervista a Daniele Mencarelli

di Francesca Romana Cicolella

Durante le presentazioni di Fame d’aria, suo ultimo romanzo, Daniele Mencarelli chiede se in sala ci sono genitori di ragazzi e ragazze disabili. Cerca con loro un dialogo, quindi racconta con naturalezza le sue esperienze, soprattutto le più crude. La sua letteratura nasce proprio da quelle, dall’intensità di momenti di vita complicati che per lui si fanno racconto, vero o romanzato.

Nella sua letteratura c’è la consapevolezza del dolore, c’è la conoscenza della malattia e dei suoi risvolti, c’è la voglia di raccontare le cose per come sono veramente.

“Fame d’aria” è un romanzo che mette al centro la reazione a una vita difficile, proprio quella parte della vita che nessuno racconta mai. Dopo “Tutto chiede salvezza”, romanzo di successo ulteriormente consacrato da una serie Netflix perfetta in ogni dettaglio, Mencarelli ha rimesso su pagina la malattia. Questa volta dall’esperienza diretta viene fuori una storia di fantasia ma “Fame d’aria”, come le precedenti opere, rimane ancorata alla realtà e alla verità sempre.

In quest’intervista il libro è diventato il pretesto per parlare con l’autore di cosa c’è dietro la narrazione della malattia, di come si trova il linguaggio giusto per parlarne e di ciò di cui oggi ha bisogno la letteratura per salvarci ancora.

Il tuo ultimo romanzo, “Fame d’aria”, racconta di un padre e un figlio. Jacopo è affetto da autismo ad alto funzionamento e Pietro, suo padre, viaggia con lui lottando tra l’amore e la disperazione di una vita complicata da gestire.
Tu hai scelto di parlare di disabilità per esperienza diretta, ma decidere di mettere nero su bianco certi argomenti comporta uno sforzo non indifferente. Se, infatti, come tu stesso ha sottolineato in molti incontri, farlo consente di dare spazio a ciò che ci si porta dentro, d’altro canto l’autore che sceglie di parlare di malattia e disabilità si espone a più di un rischio e a una difficoltà nella scrittura.
Quando e come si sceglie di parlare di disabilità o malattia mentale?

Non so se lo si scelga. Penso che in molti casi prevalga la teoria del libro necessario, quello a cui neanche pensi ma che viene fuori grazie ad esperienze e incontri.

Ungaretti non voleva scrivere poesie sulla guerra, poi le poesie sulla guerra lo hanno scelto. Tanti libri non li scegli, ti scelgono.

“Fame d’aria” è un romanzo di invenzione, ma alla base c’è la conoscenza della neuropsichiatria infantile che ho conosciuto da genitore. Quello è un mondo che mi ha chiesto di essere testimoniato e raccontato.

Il dibattito culturale oggi è schiacciato su due temi, che io condivido e che mi vedono compartecipe: quello della sessualità e il cambiamento climatico. Esistono anche altri temi e non bisogna dimenticarlo.

Parlano i numeri: in Italia ci sono quasi 700.000 famiglie che vivono il tema dell’autismo in casa e a me sembra un’urgenza civile, sociale e culturale raccontarlo.

La letteratura, quindi, assume una funzione di denuncia. Pensi che la narrativa serva di più in certi ambiti, come la disabilità o la malattia mentale, rispetto alla cronaca o alla saggistica improntate sulla sensibilizzazione?

Quello che manca secondo me in maniera drammatica a questa epoca non sono i linguaggi che raccontano la cronaca, il presente, ma sono quei linguaggi che in maniera più meditativa e elaborata ritornano sui temi attraverso il grande strumento del racconto.

Il narratore prende un tema e attraverso una trasformazione, una lingua che non è quella del giornalismo e dei media ma una lingua che sfida il tempo in maniera diversa, che cerca attraverso l’immaginifico e l’invenzione, ne fa un’offerta. Credo che il grande lavoro da fare sia tornare dentro lingue che sfidano il tempo nella testimonianza di certi temi perché non possiamo affidarli solo a quelle lingue che non sfidano il tempo.

Manca proprio quella lingua più meditata e posata che fa di un evento culturale un evento orizzontale, di tutti, ne fa qualcosa che rimane dentro un racconto, dentro un personaggio. Questo non accade con la lingua del saggista o del giornalista, ma solo con quella dell’artista.

Secondo me la sfida oggi da riprendere è proprio riscoprire la letteratura come testimonianza del presente.

In Fame d’aria sottolinei più volte la peculiarità dell’autismo e ne narri ogni lato, soprattutto quelli più oscuri. Soffermandoci sul linguaggio, a un certo punto scrivi che “l’autismo non è una battaglia ma una maledizione”.

Viene naturale, anche alla luce dei numerosi dibattiti degli ultimi anni sul giusto linguaggio da utilizzare anche quando si parla di malattie, riflettere sull’importanza del modo di trattare linguisticamente una malattia. Quanto pensi sia importante parlare di malattia nel modo giusto? La letteratura può, tra le altre cose, avere il compito di farci riflettere sul modo in cui chiamiamo le cose?

In realtà quello che fa uno scrittore è utilizzare la lingua per parlare di un altro mondo. Dire con parole diverse, che appaiono diverse ma che poi risuonano ancora più profondamente, certi mondi. Il discorso è anche uscire da certi tecnicismi.

Ti racconto questo aneddoto per dirti come l’approccio dello scrittore sia diverso e uguale al tempo stesso. Quando ho scritto Fame d’aria sapevo perfettamente che è sbagliato considerare l’autismo una malattia. Ci sono battaglie in questo senso portate avanti da chi vive la disabilità e insiste sulla necessità di non definire l’autismo una malattia ma un disturbo pervasivo. E in effetti si tratta di mondi completamente diversi.

È sacrosanto saperlo e introdurre l’informazione nel nostro linguaggio comune.

Però poi è anche vero che il narratore, uno che utilizza la lingua in un modo diverso, spesso deve mettere in discussione proprio quegli assunti scientifici, proprio per raccontarla in un altro modo. Perché il rischio è quello di un appiattimento della lingua solo dentro un solo bacino che è quello scientifico.

Io sono perfettamente d’accordo quando si dice che l’autismo è un disturbo e non una malattia, ma quello che fa lo scrittore è anche trovare una terza via di rappresentazione linguistica, di racconto, che rappresenti il tutto ancora di più.

Noi viviamo in un’epoca maledettamente povera da un punto di vista linguistico, un’epoca che prende le parole solo da due grandi bacini: quello della scienza e quello dell’economia. Lo scrittore ha anche il compito di introdurre lessemi prendendoli da mondi altri rispetto a questi due mondi che oggi hanno soppiantato nella nostra lingua centinaia di parole.

Quando vado nelle scuole chiedo sempre ai ragazzi quante volte, di fronte alla paura per un esame o una verifica, utilizzino parole come “fobia” o “paranoia”; come chiedo alle professoresse quante volte utilizzino termini come “resa”, “profitto” e “merito”. Questi ultimi, ad esempio, sono tutti termini finanziari.

Noi quindi ragioniamo rispetto all’umano solo in termini di patologia soprattutto psichiatrica e neuropsichiatrica e di prodotti finanziari. Ma esistono anche altri bacini umani che rimandano, ad esempio, alle tre grandi discipline umanistiche: letteratura, filosofia e religione. Abbiamo perso i termini che rimandavano a queste discipline e il ‘900 è stato il secolo che ha soppiantato queste tre lingue.

Ricordo, a proposito, sempre la storia di Clemente Rebora, un giovane poeta che venne mandato sul fronte. Affrontò la guerra e poi prese i voti. Di lui si racconta un intenso confronto con un ufficiale medico il quale, alla fine della chiacchierata, gli diagnosticò la “mania dell’Eterno”. Insomma, anche l’eterno a inizio ‘900 diventa mania.

C’è questa frattura enorme tra spirito dell’uomo che ricerca anche la trascendenza, che cerca quello che non possiede, e quello che da quel momento in poi l’uomo ha iniziato a volere da se stesso e null’altro. Reintrodurre tante parole è la grande sfida di chi scrive. Reintrodurre e inventarne, compito dello scrittore è anche inventare parole nuove.

In Fame d’aria ciò che è veramente crudo e complicato da affrontare non è tanto la disabilità di Jacopo, quanto la bestialità di Pietro. Siamo di fronte ad un padre pervaso dalla rabbia e il lettore si ritroverà a disprezzarlo per molti comportamenti nei confronti del figlio ma farà fatica ad odiarlo perchè è umano, vero. Non accade spesso che in un romanzo venga raccontato senza mezzi termini il risvolto negativo della rabbia, eppure compito della letteratura è anche e soprattutto raccontare l’umanità per com’è. Perché secondo te, però, accade poco?

Perché affrontare la disabilità con gli strumenti della retorica, quella più accattona e facile, è un modo straordinario per tacitare e per non fare mai un esame di coscienza. Vale soprattutto per ciò che attiene a quel rapporto inesauribile che lega umano, letteratura e politica. La letteratura è un gesto politico. Mi è costato tanto scrivere questo libro perché è partito da un presupposto: smontare pezzo a pezzo quegli strumenti di retorica inaccettabile che fanno della famiglia con disabilità una famiglia di eroi che, in quanto tali, non hanno bisogno di aiuto. Perché la famiglia di eroi continua a essere alimentata dall’eroismo e sono tutte idiozie che fanno comodo.

E’ vero che a livello sociale e relazionale, quando incontro una famiglia che vive una grave disabilità penso che abbiano tanta forza. Ma posso pensarlo io, non è valido come pensiero quando diventa l’alibi dell’istituzione che dietro questo giudizio nasconde le proprie mancanze. Di fronte a quell’eroismo si dovrebbe essere mossi a correre in aiuto e questo fa della letteratura oggi, secondo me, la grande chiave politica che manca.

Anche se, se prendiamo in considerazione i saggi critici usciti negli ultimi 3-4 anni ci rendiamo conto che vanno in direzione contraria.

Ormai si spinge proprio a riconoscere la letteratura come forma alta di intrattenimento e sembra non abbia più nessun ruolo civile, sociale e politico. E questa non è una cosa che riguarda me, non è quello che ho cercato nella letteratura da lettore, che mi ha salvato da adolescente. Al contrario quella lingua che mi ha messo in contatto in maniera profonda, umana e reale con chi avevo attorno, con chi è nato e morto prima. E l’ha fatto con una lingua che parlava sempre al presente. La letteratura vera parla sempre al presente, è sempre un corpo a corpo con il presente.

Questo manca: spogliare tutte quelle false umanità che umanità non sono per rimettere al centro l’umano. Mi viene in mente un poemetto scritto da una poetessa che mi permetto di definire maestra: Giovanna Sicari, morta molto giovane nel 2003. Lei scrisse questo poemetto che si intitola “Nudo e misero trionfi l’umano”. La letteratura cerca sempre questo: il trionfo nudo e misero dell’umano però è un gesto che spoglia, che scarnifica perché uno scrittore con le parole non ci si veste, fa il contrario.

E io spero di essere stato voce di tutte le famiglie che ho incontrato da quando è uscito il libro, perché penso il mio sia un gesto di spoliazione non retorico. Anche perché queste famiglie, te l’assicuro, il nomignolo al limite tra l’affettuoso e il rabbioso per momento di stanchezza ce l’hanno. La stanchezza è degli esseri umani. Neanche gli eroi hanno energie infinite, i supereroi li dobbiamo lasciare al mondo dei fumetti, se parliamo di umano parliamo di mondi, di persone con energie che tendono a finire.

Non esiste neanche un amore che si autoalimenta all’infinito. Se poi non c’è un’energia che viene dall’esterno, un sostegno umano morale e economico, quell’energia rischia di finire, non c’è altra via.

Parliamo di rabbia. Molto spesso è la prima, o comunque una delle più comuni, reazione al dolore. In Fame d’aria sei capace di darle una forma.

Io penso questa sia un’epoca piena di indignazione e tanto povera di rabbia vera. Abbiamo l’indignazione che va a minuti.

Io non ho i social per scelta perché ho avuto tante dipendenze e non mi so gestire, non li ho e vivo tranquillamente senza. Sono un progressista tragico, ma un progressista, i social servono a tante cose buone ma fa sempre la differenza l’uso che ne fa il singolo.

Oggi manca rabbia. Io oggi sono un padre di famiglia molto più arrabbiato del 20/30enne che ero perché ho girato tantissimo per l’Italia, sono passato dall’avere un contatto filtrato dai media con i posti ad una conoscenza diretta. Quindi ora quel che voglio raccontare sta solo a me. Io da sei anni a questa parte, dopo aver visto scuole, carceri ecc, sono più arrabbiato rispetto a prima perché ora l’ho vista l’Italia e penso che ci vorrebbe proprio rabbia. Ma non quella la rabbia Grillo, una rabbia che diventa un’istanza politica seria.

Che trova forma nella letteratura.

Esatto, non può finire così. Sono stato al Festival del libro di Parigi e fare il confronto tra i due paesi è stato inevitabile. Mi sono accorto che noi siamo un paese che è stato devastato da ogni punto di vista e forse è arrivato il momento di arrivare ad una rabbia matura, che porti da qualche parte. Questo è un paese che chiede aiuto.

Io la difendo la mia rabbia, non lascio stare e continuerò a scrivere.

Anche il prossimo libro toccherà un tema sociale anche se diverso dai precedenti, sempre legato a ciò che ho vissuto negli ultimi trent’anni, quelli che mi hanno portato da essere ragazzo a uomo. Io ne voglio parlare.

Io voglio continuare a fare questo lavoro per come credo sia giusto farlo in questo momento storico in Italia.

Perché poi lo scrittore si lega sempre a un’epoca e dobbiamo riannodare in maniera seria, fare di quella rabbia un sentimento stabile. Oggi viviamo in un paese che non funziona. Questa rabbia deve diventare qualcosa di profondamente funzionale, chi scrive ne deve fare scrittura.

Sono scappato da vent’anni di Rai perché io non lavoro per essere trattenuto, io mi sono svegliato trattenuto. Non giudico nessuno e parto dal presupposto che chi ho intorno non devo trattenerlo come non ho permesso a nessuno di trattenere me. Io ho una vita sola e vorrei provare a lasciare un mondo anche migliore. I miei genitori mi hanno lasciato un mondo migliore rispetto al loro, noi non lasceremo un mondo migliore dei nostri figli.

Io provo a stare qui e a cambiare le cose.

Tu nasci come poeta, si sa poco come accade spesso a chi poi, scrivendo romanzi, pubblica con i grandi marchi. Considerato quanto si possa secondo te fare con la letteratura, cosa pensi di essere in grado di fare con la narrativa e cosa con la poesia?

Per me la poesia è la cosa più importante perché è la lingua che parte dallo sguardo.

L’uomo che scrive è l’uomo che ingaggia con la realtà un legame di sangue. Nel senso che ti interessa veramente l’altro e hai questa tensione nel volerlo testimoniare e scriverlo e riscriverlo e descriverlo e rappresentarlo. Parti da quel desiderio di nominare le cose che hai di fronte. Lo sguardo del poeta è uno sguardo che parte da una visione dell’uomo e della realtà.

La scrittura è il gesto ultimo dello scrittore, nasce nello sguardo, da come stai a guardia di quello che vivi, quanto ti lasci sconvolgere, quanto ti innamora o ti fa arrabbiare quello che vivi e questo secondo me è lo sguardo della poesia.

Poi la narrativa è un modo diverso di scrivere, di illustrare e ampliare e arricchire certi passaggi in termini formali ma lo sguardo è quello del poeta.

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Francesca Romana Cicolella è giornalista e laureata in Filologia Moderna. Appassionata di letteratura e giornalismo da sempre, ha collaborato con testate giornalistiche e coordinato le redazioni delle testate studentesche universitarie.
Ha frequentato la Scuola di Scrittura per Riviste Culturali del Tascabile (Treccani) e suoi articoli sono su AlleyOop24, Atlante Treccani, Nido Magazine e su diversi siti di approfondimento culturale.
Si è occupata di comunicazione istituzionale e politica, è socia fondatrice di una società di formazione e lavora all’Università di Foggia.

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