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Dostoevskij. Morte e risurrezione di un genio

di Pietro Citati
Fonte: Corriere della Sera, 15 settembre 2014

Una leggenda, immaginata soprattutto da Freud, circonda la figura di Mikhail Andreevic Dostoevskij, padre di Fjodor. Non era affatto, come fantasticò Freud, un uomo violento, stupratore, assassino: il modello di Fjodor Karamazov. Era un eccellente medico, che aveva operato durante la guerra del 1812: un uomo emotivo, che tendeva a identificare i propri desideri con quelli di Dio; un padre severo, che aveva imposto ai figli un rigidissimo codice di moralità. Fjodor non l’aveva ubbidito: o l’aveva disubbidito nel pensiero, con un acuto senso di colpa. Quando il padre fu assassinato misteriosamente nel giugno 1839, il figlio scrisse pochissime parole al fratello, come se la cosa gli fosse indifferente o, invece, lo riguardasse così da vicino da costringerlo al silenzio.

Contro il desiderio del figlio, che amava soltanto la letteratura, il padre aveva deciso di iscriverlo alla Scuola centrale del Genio di Pietroburgo, che veniva considerato il miglior istituto del genere in Russia e offriva grandi vantaggi economici. Fjodor fu ammesso il 16 gennaio 1838: studiò assiduamente per sei anni: venne arruolato nel corpo del Genio, prestò servizio nel Dipartimento dei disegnatori ingegneri, e promosso sottufficiale e poi sottotenente. Studiava fisica, chimica, geognosia, geometria analitica, geometria descrittiva, calcolo differenziale, meccanica teorica, meccanica applicata, architettura civile e militare, arte delle fortificazioni. Pensiamo a Carlo Emilio Gadda: a ciò che significò, per lui, un’educazione scientifica involontaria. Non fu il caso di Dostoevskij, che soffrì per sei anni in quelle mura; e non ne trasse la minima suggestione o influenza, come se fosse tempo sciupato.

Di quegli anni, ci restano alcuni ritratti e autoritratti. «Era forte e solido – scrisse K.A. Trutovskij –: il suo passo era brusco, il suo colorito grigiastro; aveva uno sguardo pensoso e, sul viso, un’espressione generalmente riflessiva. L’uniforme militare non gli stava bene. Stava sempre lontano dagli altri, solo e pensoso. Aveva l’aria seria, e non posso immaginarlo ridere od essere lieto in compagnia dei suoi condiscepoli». «Tuffato in un libro – aggiunse D.V. Grigorovic – sembrava che cercasse un luogo dove isolarsi. Presto lo scoprì, e questo diventò il suo soggiorno preferito. Era il vuoto nel muro di una grande classe le cui finestre davano sulla Fontanka. Durante le ricreazioni, si era sicuri di trovarlo lì, con il suo eterno libro in mano».

Quanto a Dostoevskij, come scrisse nel luglio 1840 al fratello, «non sapeva chi fosse. Non sapeva se l’attività della sua anima fosse pura, giusta, chiara e limpida; o invece fosse erronea, inutile e vana, l’aberrazione di un cuore solitario che non si comprendeva, un bambino insensato, puro e ardente, ansioso ricercatore di qualche nutrimento spirituale». Leggeva moltissimo: Hoffmann, Balzac, George Sand, Walter Scott, Schiller, Victor Hugo, Cervantes, De Quincey, Sue: si perdeva e diventava se stesso in quelle letture; e gli amici ammiravano «la sua erudizione stupefacente». Si sentiva completamente estraneo alla Scuola del Genio e a se stesso: si annoiava e si torturava. Il 19 ottobre 1844 diede le dimissioni. «Non ho vestiti né denaro: non ho nulla per pagare i miei creditori; non ho casa, e per di più sono malato. Ma era impossibile servire più a lungo».

Il disperato fuggiasco della Scuola del Genio non aveva nulla in comune con gli scrittori russi suoi contemporanei, come Turgenev e Tolstoj. I suoi fratelli abitavano lontano, in Francia: Balzac (o, per meglio dire, Lucien de Rubempré, il personaggio degli Splendori e miserie delle cortigiane), Nerval, Baudelaire, che quasi negli stessi anni scrissero i loro capolavori. Era melanconico e nevrastenico: soffriva di depressione; il cuore e il polso battevano in modo irregolare; e soprattutto credeva, immaginava, temeva di essere malato, sebbene non conoscesse ancora, in quegli anni, l’abisso dell’epilessia. Una ossessione non lo lasciava mai: cadere in un sonno letargico, ed essere sepolto vivo. «La mia salute – scriveva nel 1846 – è spaventosamente sconvolta; sono malato di nervi; e temo una follia calda o una follia nervosa». «Soffro – ripeteva – un’irritazione di tutto il sistema nervoso, e il male è giunto al cuore, trascinando un afflusso di sangue e una congestione». Un giorno, mentre attraversava una strada di Pietroburgo, vide un corteo funebre: ne fu così sconvolto, che svenne e fu costretto, con l’aiuto di qualche passante, a rinchiudersi in una drogheria vicina.

Nell’autunno del 1845, Dostoevskij cominciò a frequentare i salotti di Pietroburgo. Avdoja Jakovlevna Panaeva lasciò questo ritratto: «Al primo sguardo si vedeva che era un giovane terribilmente nervoso e sensibile. Era magrissimo, piccolo, biondo, con un colorito malaticcio; i suoi piccoli occhi grigi correvano, inquieti, da un oggetto all’altro, e le sue labbra pallide trasalivano nervosamente. All’inizio, aveva l’aria confusa e timida e non partecipava alla conversazione generale. Poi la sua timidezza scomparve, e manifestava perfino un umore provocante, e si impegnava nelle dispute con ciascuno e, visibilmente, si intestava a contraddire. La sua giovinezza e il suo nervosismo gli impedivano di dominarsi: mostrava troppo manifestamente il suo amor proprio di scrittore e l’alta opinione che aveva di sé». Forse Dostoevskij non era affatto vanitoso: era solo cosciente del proprio talento, in un ambiente che non lo comprendeva e non lo riconosceva.

Aveva una mente molteplice, come nessuno dei suoi contemporanei: mutava ogni momento, ogni volta che affrontava una nuova persona o un nuovo soggetto: era insieme sognante ed analitico; cercava l’eccesso e il rischio, perché ognuno dei suoi racconti doveva essere una avventura e una sfida. Come Nerval e Baudelaire, spendeva disperatamente denaro, cercando di distruggere se stesso: era sempre pieno di debiti; e appena ne pagava uno, ne apriva un altro, come se il debito fosse la condizione naturale e necessaria della vita. «Non ho un soldo, e non so come procurarmene», ripeteva. Così, per uccidere i debiti e la possibilità futura di debiti, proponeva al fratello e agli amici sempre più improbabili speculazioni editoriali e non editoriali. «Il guadagno – annunciava – sarà magnifico». Oppure: «Profitto economico enorme»; e non sappiamo se inventasse questi progetti o li copiasse da quelli, ancora più inverosimili, di Balzac e dei suoi personaggi.

Come Dickens e De Quincey, Balzac e Poe, Nerval e Baudelaire, Dostoevskij era legato al mercato letterario. Era «uno schiavo della penna»: uno dei primi che esistessero in Russia; da ogni parte, scrittori, editori, direttori di riviste gli chiedevano romanzi, racconti, saggi, feuilletons. Dostoevskij protestava. «Che piaga – scrisse alla fine del 1846 – questo impiego da lavoratore giornaliero. Perdo tutto, il talento, la giovinezza, e il lavoro ripugna, e mi ritrovo, alla fine, scribacchino e non scrittore». «Per nulla al mondo – insisteva – accetterò di rovinare il mio romanzo… Voglio liberarmi – ripeteva nel febbraio 1849 – da questa schiavitù letteraria». Ma, al tempo stesso, scriveva i mirabili feuilletons dello Schernitore, dove rideva di tutto, scherniva il teatro, le riviste, la società, la letteratura, gli avvenimenti della storia, le esposizioni, le notizie dei giornali, le notizie dello straniero, insomma tutto: imitando il suo modello mentale, Lucien de Rubempré, l’eroe delle Illusioni perdute di Balzac. Sapeva che il feuilleton gli imponeva un dono tremendo: la fretta. Ma questa fretta dava una specie di felicità alla sua ispirazione: immagini sorprendenti, raccourcis geniali, rapidissime folgorazioni.

Tra il 15 e il 17 maggio 1842 Gogol’ pubblicò il primo volume delle Anime morte: a partire da quel momento Dostoevskij dedicò la vita al meraviglioso poema-romanzo di Gogol’. Moltissimi giovani erano affamati di qualcosa: in attesa di qualcosa; e potevano soddisfare questo oscuro desiderio solo con le Anime morte. Così faceva Dostoevskij: lo leggeva il giorno: passava le ore della notte rileggendolo sempre di nuovo agli amici, come se il poema-romanzo non potesse finire mai. Lo imitò: lo trasformò; e, in pochi anni, le Anime morte diventarono Povera gente, Il sosia e farse geniali come L’albero di Natale e Lo sposalizio e La moglie altrui e Il marito sotto il letto. Nei primi giorni dell’aprile 1844, nel più grande segreto, Dostoevskij cominciò il romanzo Povera gente: lo corresse nell’aprile 1845, per pubblicarlo all’inizio del 1846 sulla «Raccolta pietroburghese». «Del mio romanzo – scrisse al fratello – sono seriamente soddisfatto. È una cosa severa ed armonica»: meno soddisfatti sono, probabilmente, i lettori di oggi.

«Allora avvenne – scrisse Dostoevskij trent’anni dopo – qualcosa di così giovanile, fresco, buono, una di quelle cose che rimangono per sempre nel cuore di chi vi partecipa». Portò il manoscritto di Povera gente all’amico D.V. Grigorovic, che viveva insieme a Nekrasov. I due amici cominciarono a leggerlo per prova: «Dopo dieci pagine vedremo». Dopo aver letto dieci pagine, decisero di leggerne altre dieci, e poi, senza interruzione, rimasero tutta la notte a leggere ad alta voce, scambiandosi il libro quando erano stanchi. Alla fine, tutti e due erano entusiasti, e piansero a calde lacrime (come usava). Erano le quattro del mattino: una notte bianca di Pietroburgo, chiara come il giorno. Grigorovic supplicò Nekrasov di correre insieme a lui a casa di Dostoevskij, subito, senza esitare, per dirgli il loro entusiasmo.

Intanto Dostoevskij, che non riusciva a dormire, aprì i vetri, e si sedette presso la finestra. Con sua grandissima sorpresa, ecco a un tratto suonare il campanello: Grigorovic e Nekrasov salirono le scale, e lo abbracciarono entusiasti e piangenti, salutandolo come «il successore di Puškin». «Essi rimasero da me – scrisse Dostoevskij – circa mezz’ora, e in questa mezz’ora Dio sa quanto ci dicemmo comprendendoci l’un l’altro a mezze parole, con esclamazioni, con furia: parlammo della poesia, della verità, della situazione del momento e, si intende, di Gogol’, ma soprattutto di Belinskij. Gli porterò oggi il vostro romanzo, disse Nekrasov, e vedrete che uomo, che uomo! Farete conoscenza, e vedrete che anima! Bene, adesso dormite, dormite, noi andiamo via! Come se potessi dormire dopo la vostra visita! commentò Dostoevskij. Quale entusiasmo, quale successo! Sono accorsi con le lacrime agli occhi, alle quattro del mattino, per svegliarmi, perché il libro era superiore al sonno. Ah, che bellezza!».

Quando Vissarion G. Belinskij – un critico mediocre, in quegli anni famosissimo – lesse Povera gente, ripeté varie volte a Dostoevskij: «Ma capite voi, capite voi quello che avete scritto?»: gettando, come era sua abitudine, piccoli strilli. «Io – racconta Dostoevskij – uscii da casa come ubriaco. Mi fermai all’angolo della strada, guardai il cielo, il giorno chiaro, la gente che passava, e con tutto il mio essere sentii che nella mia vita era arrivato un momento solenne, un mutamento per sempre, qualcosa che non avrei supposto nemmeno nei miei sogni più appassionati. Ma sarò proprio davvero così grande?, pensavo, con un senso di vergogna».

Per anni, Belinskij esercitò una grande influenza su Dostoevskij: lo educava al socialismo: gli parlava male di Cristo o bestemmiava di Cristo; ogni volta che sentiva quelle parole, il viso di Dostoevskij assumeva un’aria dolorosa, come se stesse per piangere. Nel 1848, ci fu una rottura tra Dostoevskij e il gruppo di Belinskij. Ma, quando Belinskij morì nel maggio 1848, Dostoevskij disse: «Qualcosa di terribile è accaduto – Belinskij è morto».

Quindici giorni dopo Povera gente, il 1° febbraio 1846, Dostoevskij pubblicò Il sosia: il capolavoro della sua giovinezza. Nel Diario di uno scrittore, disse che l’idea del doppio era «grave e luminosa»: egli l’avrebbe inseguita per tutta la vita, dalle Memorie dal sottosuolo fino ai Fratelli Karamazov. Tutto quello che sentiva e pensava era doppio: cercava uno specchio: si faceva gioco di se stesso; si moltiplicava, generando un movimento, dove il vero e il falso, il reale e il fantastico, la sostanza e l’illusione si identificavano follemente. Cominciò a giocare, in modo sempre più vertiginoso: o, che è lo stesso, a ridere, portando all’estremo ognuna delle sue risate, fino a che la logica si perdesse nell’insensatezza e l’insensatezza diventasse logica. Tutti i generi e le forme letterarie si aprirono davanti a lui, e lui le percorreva con un passo trionfale d’artista. Proprio questo era, un artista: nessuno tra i suoi contemporanei era artista come lui; sebbene egli si accusasse, contro ogni ragione, di essere più poeta che artista e di non riuscire ad esprimere nemmeno la ventesima parte di quello che avrebbe voluto.

Le rivoluzioni del 1848 e del 1849 in Europa occidentale sconvolsero Dostoevskij. «In Occidente – diceva – sta accadendo qualcosa di disastroso, qualcosa di tremendo: un dramma senza precedenti; questo terribile dramma mi interessa profondamente». Nel marzo 1847 aveva cominciato a partecipare ai venerdì del Circolo Petraševskj: un circolo fourierista, che possedeva una biblioteca piena di libri proibiti: Babeuf, Louis Blanc, Fourier, Victor Considérant, Proudhon, Claude de Saint-Simon. Chi veniva da Petraševskij il venerdì sera, trovava libri, samovar, conversazione. Nessuno cospirava contro lo Stato, sebbene il ministro dell’Interno vi avesse infiltrato una spia italiana. Dostoevskij conosceva poco e male Petraševskij: ma, in alcuni dei suoi venerdì, parlò di letteratura, personalità ed egoismo e di Krylov. Non amava, anzi detestava, l’ateismo diffuso nel Circolo. Ma, una sera, lesse ad alta voce la Lettera di Belinskij contro i Passaggi scelti dalla corrispondenza di Gogol’: il critico vi affermava che «se guardate più da vicino, vedrete che, nella sua essenza, il popolo russo è profondamente ateo». La lettura suscitò un grande entusiasmo: tutto il gruppo fu sconvolto ed elettrizzato.

Dostoevskij ebbe un amico più insidioso: Nikolay Spešnev, un ricco proprietario di terre, che ricordava Stavrogin, il protagonista dei Demoni. «Stavrogin era elegante senza ricercatezza, mirabilmente modesto e nello stesso tempo sicuro di sé. I suoi capelli erano un po’ troppo neri, i suoi occhi chiari un po’ troppo quieti e sereni, il colore del suo viso un po’ troppo delicato e bianco, il rossore un po’ troppo vivo e puro, i denti come perle, le labbra di corallo». Era mite, pensoso, impenetrabile: ispirava confidenza, specialmente alle donne, che impazzivano per lui. Dichiarò apertamente di essere comunista; e fondò una società segreta, che voleva diffondere la rivoluzione. Per qualche tempo Dostoevskij ne subì l’influenza: ne era affascinato sebbene lo detestasse; e si fece prestare cinquecento rubli, che Spešnev non avrebbe mai permesso di restituirgli. «Bisogna che comprendiate – Dostoevskij disse al suo amico Janovskij –: ormai io ho il mio Mefistofele; sono con lui e gli appartengo».

Il 23 aprile 1849, alle cinque di mattina, Dostoevskij fu risvegliato dal rumore di una sciabola militare che urtava un mobile, e da una voce che trovò «dolce e simpatica». «Alzatevi», disse lo sconosciuto; e cominciò a frugare tra i libri, le carte, i vestiti. Insieme a Dostoevskij furono arrestate trenta persone: lo zar Nicola I aveva deciso di sopprimere la minima manifestazione di pensiero indipendente, eliminando l’insegnamento di filosofia e metafisica all’università e trasferendo quello di logica alla facoltà di teologia. Il giorno dopo, 24 aprile, Dostoevskij venne portato nella cella 9 della Fortezza Pietro e Paolo: il comandante era il generale I.A. Nabokov, pro-pro-zio dell’autore di Lolita, il quale fu gentilissimo e scrupoloso con lui.

La vita nella Fortezza ebbe fasi alterne. Dostoevskij dormiva cinque ore al giorno, svegliandosi quattro volte per notte, e talora non riusciva ad addormentarsi. Aveva incubi. Ma poi cominciò a passeggiare tra gli alberi del giardino: «Era una pura felicità». Ripassò affettuosamente i suoi ricordi: lesse con entusiasmo La conquista del Messico e La conquista del Perù di William Prescott, Gibbon, Jane Eyre di Charlotte Brontë, che gli parve «straordinariamente buono», un libro di Vite dei Santi; e scrisse con affetto un breve racconto, Piccolo eroe. «Lavoro, scrivo, cosa c’è di meglio? Mi accorgo che ho ammassato delle riserve di vita così grandi, che non potrei mai esaurirle. Sono cinque mesi, ormai, che vivo sulle mie risorse, cioè con la mia sola testa, senza null’altro. Pensare costantemente, non fare che pensare, senza nessuna impressione esterna per rigenerare e sostenere il pensiero è duro!…».

Gli interrogatori si protrassero, senza sosta, sino alla fine del maggio 1849: Dostoevskij venne interrogato a voce e per scritto; il generale Rostovtzev gli disse: «Non posso credere che l’uomo che scrisse Povera gente abbia simpatia per queste persone malvagie». Dostoevskij si difese: redasse una Spiegazione, che doveva completare la sua deposizione: ammise di aver letto ad alta voce la Lettera di Belinskij contro Gogol’, di aver richiesto la libertà di stampa e di aver aderito al fourierismo, «sebbene fosse inapplicabile in Russia». Ma ribadì con insistenza la sua lealtà allo Zar e al sistema monarchico, l’unico che potesse riformare la Russia. Il 17 settembre 1849, la commissione di inchiesta completò il suo lavoro e l’11 novembre una corte militare-civile decise di condannare alla pena capitale quindici accusati, tra cui Dostoevskij.

Il 22 dicembre 1849, alle sette di mattina, i condannati furono condotti alla piazza Semenovskij. La piazza era coperta di neve appena caduta; ed era gremita di truppe e di una numerosa folla in silenzio, che rabbrividiva a ventun gradi sottozero. I volti dei condannati erano pallidissimi: qualcuno aveva i capelli rasati; e Spešnev, il più bello e affascinante, aveva un viso oblungo, malaticcio, giallastro, con le guance cave, senza più nulla della sua grazia. La voce di un generale ordinò silenzio: poi un ufficiale del servizio civile, con i documenti in mano, disse i nomi dei prigionieri, e pronunciò il verdetto di morte, a voce lenta, rivolto ad ognuno di loro. I condannati, indossando le loro bianche bluse di contadini e un berretto da notte – l’uniforme funebre – si avvicinarono al patibolo. Il sacerdote disse: «Fratelli! Prima di morire, pentitevi. Il Salvatore dimentica i peccati se uno si pente. Vi invito a confessarvi». Nessuno rispose all’invito: solo uno dei condannati uscì dalla fila, e baciò la Bibbia.

Come Dostoevskij racconta nell’Idiota, quelli furono i suoi ultimi cinque minuti di vita: quei cinque minuti gli sembrarono un tempo interminabile, un’immensa ricchezza; gli parve che in essi avrebbe vissuto tante vite, così che per il momento non doveva pensare all’ultimo istante. Non lontano, c’era una chiesa, e il suo tetto dorato brillava sotto il cielo fulgido del mattino. Dostoevskij non poteva staccare gli occhi da quei raggi: gli sembrava che fossero la sua nuova natura, e che di lì a tre minuti si sarebbe fuso con essi. «Se potessi non perire! Pensava. Se si potesse far tornare indietro la vita, quale infinità». Poi ricordò L’ultimo giorno di un condannato di Victor Hugo e disse a Spešnev: «Nous serons avec le Christ» (saremo con Cristo); con un sorriso triste, Spešnev rispose: «Un peu de poussiére» (un po’ di polvere). I tamburi rullarono. Dostoevskij, che conosceva il linguaggio militare, comprese che le loro vite erano state risparmiate. Un aiutante di campo arrivò al galoppo, annunciando il perdono dello Zar: le nuove sentenze vennero lette ad ognuno dei condannati; e le bluse da contadino e i berretti vennero gettati via.

Quando venne riportato in cella, Dostoevskij scrisse al fratello, comunicandogli che la pena capitale era stata trasformata in quattro anni in Siberia. «La vita – gli disse – è dovunque la vita, la vita è in me, e non nel mondo esterno… La vita è un dono, la vita è una felicità; ogni minuto può essere un secolo di felicità». Era esaltato, eccitato, trionfante: voleva essere purificato; e chiedeva di non essere dimenticato, dal fratello, dai figli di lui e dagli amici. Il 25 dicembre, mise per la prima volta i ferri: pesavano quattro chili, e gli rendevano difficile camminare. Nella notte attraversò le strade di Pietroburgo: era diretto ad Omsk; passò davanti alla casa del fratello, e alle sue luci natalizie accese.

Fonte: Corriere della Sera, 15 settembre 2014
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