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Dipinti a voce (François Le Lionnais, Marietti 1820, 2021)

di Marietti 1820

Dettagli vitali

Roberto Alessandrini

Nella storia cardinale delle Mille e una notte un re ingannato dalla moglie decide di non dare più a nessuno l’occasione di tradirlo. Ogni sera fa l’amore con una donna diversa e alle prime luci dell’alba la uccide. Alla fine, in tutto il regno ne rimane solo una, Sharazad.

Per salvarsi la vita, la figlia del visir inventa uno stratagemma: racconta ogni volta una storia avvincente, ma lascia il racconto perennemente incompiuto e sospeso. Il re in questo modo si distrae e, all’arrivo del giorno, la risparmia perché, accattivato dalla “serie”, vuol sentire il seguito la notte successiva ed è obbligato a tenere in vita la narratrice. Sharazad ha essenzialmente un problema di tempo; deve “inventarlo” e, con un accorgimento, espanderlo a dismisura per rimandare la morte.

Nelle Novelle orientali Marguerite Yourcenar narra la vicenda di Wang-Fô, famoso e ormai vecchio pittore itinerante che nella Cina del Medioevo ha lo stesso problema della figlia del visir: salvarsi la vita in circostanze inattese. Wang-Fô viene arrestato e condannato all’accecamento e al taglio delle mani; molti anni prima, nel palazzo imperiale, aveva dipinto opere talmente belle che il giovane principe le aveva confuse con la vita reale e poi, divenuto adulto e salito al trono, aveva scoperto i limiti e la bruttezza del mondo e si era sentito ingannato.

Prima di eseguire la condanna il sovrano ordina a Wang-Fô di terminare un dipinto incompiuto – un paesaggio marino – iniziato anni prima su una parete del palazzo. L’artista si mette all’opera e completa il mare, poi dipinge una barca, vi sale, entra nel dipinto, si inoltra nel paesaggio e si salva la vita, davanti alle guardie impotenti ed esterrefatte. Se Sharazad si mette in salvo inventando il tempo, Wang-Fô fa qualcosa di analogo materializzando lo spazio e creando una via di fuga.

Inconsapevole epigono di Sharazad e di Wang-Fô, François Le Lionnais resiste alla brutalità di un campo di concentramento nazista ricordando e raccontando quadri. La memoria e la voce gli consentono di far rivivere, nel luogo più improbabile, i capolavori che si sono depositati nella sua memoria come in un prezioso archivio.
Ingegnere chimico, matematico e letterato, appassionato di scacchi, uomo enciclopedico dai mille interessi e, dopo la guerra, fondatore dell’Oulipo con Raymond Queneau, Le Lionnais entra nella Resistenza nel 1942, animato da ideali comunisti. Arrestato nell’aprile 1944, interrogato e torturato dalla Gestapo, viene rinchiuso nel carcere di Fresnes, nella Valle della Marna, utilizzato durante l’occupazione nazista della Francia per imprigionare i partigiani.
Alcuni mesi dopo viene deportato nel campo di concentramento di Mittelbau-Dora, vicino a Nordhausen, in Turingia, destinato alla produzione delle Wunderwaffen, le “armi miracolose” alle quali la propaganda tedesca attribuiva la superiorità tecnologica della Germania e il compito di cambiare radicalmente il corso del secondo conflitto mondiale.
In quel luogo, in cui morirono circa un terzo dei 60 mila internati, Le Lionnais è costretto a lavorare alla catena di montaggio dei missili V2, che spesso modifica sabotandone il sistema di guida.

Agli occhi dei suoi compagni egli svolge però un’altra attività, non meno vitale. Parla di teoria dei numeri, di filosofia, di elettricità e di chimica, e soprattutto – durante gli interminabili appelli, che durano anche molte ore – descrive, con straordinaria minuzia, dettagli e colori di dipinti che conosce a memoria.

Riaffiorano così i particolari delle Tentazioni di sant’Antonio di Bosch, che Le Lionnais ha ammirato a Lisbona “per una ventina d’ore”, o il gesto delicato e periferico di una giovane donna nell’Imbarco per Citera di Watteau; i conigli di Van Eyck e il tumulto della Kermesse fiamminga di Rubens; l’apocalittica atmosfera di una Sodoma in fiamme dipinta da Luca di Leida e la felicità insolente e colorata delle Donne di Algeri di Delacroix.

A Dora, Le Lionnais valorizza una specie di esercizio di osservazione e di memoria che era solito fare con gli amici prima della guerra: scegliere un dipinto del Louvre, guardarlo assieme agli altri, poi girare le spalle e descriverne delle parti su richiesta. Nel campo di concentramento quel gioco assume un’imprevista serietà, diventa un modo per fuggire con la fantasia e viaggiare in un mondo dipinto per ricreare il tempo e lo spazio, per contemplare una bellezza dalla quale si vorrebbe essere illuminati, ricompresi, inclusi e, forse, salvati.

Difficile non pensare alla parabola sufi della filosofa María Zambrano. Per decorare in modo particolarmente bello la sala del suo palazzo, un sultano convoca due squadre di pittori, una da Bisanzio e una dalla Cina. A ogni squadra assegna una parete e nel mezzo fa collocare una tenda per impedire ogni comunicazione tra gli artisti dei due lati. Quando l’opera è terminata, il sultano ispeziona l’affresco dipinto dai cinesi. «Niente può essere più bello di questo», afferma, e con tale convincimento fa scorrere la tenda per vedere la parete dipinta dai greci. Ma su quella parete i pittori di Bisanzio non hanno dipinto nulla, l’hanno solo lustrata, pulita e ripulita fino a trasformarla in uno specchio di un biancore misterioso, capace di riflettere, e di rendere ancora più belle, le forme e i colori dei cinesi.

Convinti dell’importanza della luce e del suo viaggio da una parete all’altra, i pittori bizantini non inseguono la bellezza dipingendo o aggiungendo, ma togliendo, sottraendo, levigando e facendosi specchio in grado di riflettere. Un esercizio non dissimile dallo sforzo di raccontare un dipinto a chi non l’ha mai visto durante un’estenuante e interminabile seduta d’appello in un campo di concentramento.

Resoconto di un originale tentativo di sopravvivenza, il testo di François Le Lionnais – uno dei più brevi e sorprendenti sui campi nazisti – non è un esercizio descrittivo fine a sé stesso, ma la testimonianza sobria e strabiliante del potere dell’astrazione, un atto di estrema resistenza che segna la vittoria della bellezza sull’orrore, trasformandosi in un autentico inno alla vita.

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