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Boccaccio e Manzoni, compagni nostri per dar voce al vero contagio

di Annalisa Teggi

Il contagio della compassione e del perdono.

Due dei più importanti testi della letteratura italiana hanno una pestilenza al centro della storia che narrano. Ecco perché li definiamo classici: non perché sono noiosi, ma perché la loro voce è sempre a fuoco, attuale e puntuale sulle cose più importanti che accadono all’uomo. Tanto è cambiato dal tempo del Decamerone e dei Promessi Sposi, ma non poi così tanto. I grandi movimenti dell’anima, così come quelli più biechi, entusiasmano e dilaniano l’uomo con lo smartphone, tanto quanto quello che scriveva con la penna d’oca.

Potremmo davvero sostituire la cronaca odierna sul panico da coronavirus con certe descrizioni di Boccaccio e Manzoni. «Un’idea composta più di giudizi che di fatti» scrive Manzoni per definire chi si occupò di raccontare la peste che colpì il Nord Italia nel 1630; e noi oggi non siamo forse assediati da opinioni, riflessioni, esternazioni che condizionano i nostri comportamenti, piuttosto che da un’onesta narrazione di fatti su questo virus venuto dalla Cina?

«Non curando d’alcuna cosa se non di sé» scrive Boccaccio per descrivere la reazione del popolo di fronte alla peste che colpì Firenze nel 1348; ed è quello che abbiamo a portata di sguardo anche qui: il panico che ci mette i paraocchi e ci precipita nella corsa all’accaparramento nei supermercati o a pagare a peso d’oro una confezione di Amuchina.  L’epidemia scatena l’istinto diabolico dell’uomo, quello che agisce per separazione ed esclusione. È una prova per l’anima oltre che per il corpo: l’egocentrismo impazzito altera lo sguardo sul reale, ci convince che la sopravvivenza dipenda dal sospetto, dalla dittatura della paura, dall’isolamento in una gabbia di esclusiva premura personale. È un momento di tentazione (oltre che di malattia), e perciò può diventare un’occasione di redenzione.

Su quest’ultimo coraggioso slancio ci sono compagni i grandi scrittori come Boccaccio e Manzoni. È questa la narrazione su cui investirono le loro forze, lasciando solo come sfondo il contesto generale e impazzito dell’istintività umana assalita dalla paura.

Non so in quanti di noi ricordino l’incipit del Decamerone:

Umana cosa è aver compassione degli afflitti.

La malattia è occasione per ricordarci che l’abusatissimo termine «compassione» non è astratto: solo soffrendo insieme ci si rende conto che non siamo monadi isolate. La sofferenza patita insieme riesce, più di ogni altro discorso bellissimo e commovente, a farci sentire – quasi fisicamente – che l’altro è simile a noi, l’altro è noi. Ma la compassione non è un moto spontaneo, ci appartiene ma va tirata fuori con un atto volitivo di coscienza. Il dramma del contagio, infatti, ci fa rifuggire da ogni contatto fisico e ne produce anche uno spirituale: chiunque, accanto, è percepito come nemico.

[…] era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata né petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano (dal Decamerone, Proemio).

Si può persino arrivare a rinnegare gli affetti più cari, questo lo spettro davvero mortale di un’epidemia. Allora, allo scrittore – a differenza del politico, del legislatore e del medico – spetta il compito di curare la compassione, di dare alla gente l’antidoto per guardare la malattia come quel temporale che squassa eppure fa pulizia sulla vista, sulla consapevolezza nuda di chi siamo.

La pioggia che nel finale dei Promessi Sposi lava via il contagio è simbolica di questa pulizia che il popolo impara dentro il dramma della pestilenza: siamo fragili, mortali, e lo abbiamo imparato assieme, guardandoci piangere i nostri morti e vedendoci simili nello stare dentro un dolore che strema il corpo. Don Rodrigo poteva impedire un matrimonio, ma la peste poteva portare via per sempre Lucia a Renzo. Il lieto fine dei Promessi Sposi è proprio il grido ripetuto tre volte di Renzo che dice all’amico: «La c’è, la c’è, la c’è». Che vuol dire: Lucia c’è, è viva e si è salvata dalla peste. Ma vuol anche dire: mi rendo conto, grazie al timore vivissimo della morte, che il miracolo che lei esista è sempre stato di fronte a me. L’amore di Renzo sboccia sul serio nel lazzaretto.

La compassione, dunque, non è astratta ma è quasi un’opera muraria che l’umano è chiamato a ricostruire in tempo di crisi. I dieci giovani di Boccaccio si ritrovano nella chiesa deserta di Santa Maria Novella a pregare e decidono di allontanarsi dalla città invasa dalla peste; non è una fuga codarda, è uno sguardo di miseria da cui si sentono uniti. Si ritrovano assieme in un palazzo a raccontarsi delle storie. Perché? Perché lo spettro nero della mortalità rende urgente il problema di capire se stessi da capo.

Cos’è l’uomo? Perché ama? Perché sbaglia? Perché si fida del caso?  Perché spera? Perché tradisce i suoi simili? I racconti che si dipanano nel corso delle dieci giornate parlano del mistero contraddittorio ma non insensato che è l’uomo. Il senso di raccontarsi delle storie non è quello di un mero passatempo, ma di arginare il delirio bestiale della malattia con un irrobustimento della coscienza.

E quanto s’irrobustisce la coscienza di Renzo con la peste! Il perdono a Don Rodrigo avviene dentro il lazzaretto, e non sarebbe stato possibile in nessun altro luogo. Il signorotto capace di soprusi e l’animo iroso del giovane di paese sarebbero rimasti nemici giurati a vita, se a legarli non fosse arrivato il pensiero incarnato della fragilità: e allora nel luogo dove si muore, e dove Don Rodrigo morirà, due nemici – grazie alle parole di Padre Cristoforo, che aprono la coscienza di Renzo – si guardano da uomini per la prima volta; simili perché ciascuno teme di perdere ciò che ha di più caro (per Don Rodrigo è la propria vita, per Renzo è Lucia).

La misura del perdono, ci fa desumere Manzoni, è quella forza contagiosa che ci è chiesto di diffondere, proprio quando altri contagi vorrebbero isolarci gli uni dagli altri.

E così come in questi giorni ci arrivano voci di semplici parroci di paese che dai luoghi della quarantena si rimboccano le maniche affinché il bene che è la comunità non si perda, ecco che ne ritroviamo una molto simile nelle vecchie pagine di quel libro che siamo stati costretti a studiare a scuola. Mentre vaga disperato alla ricerca di Lucia dentro il lazzaretto, Renzo si ferma ad ascoltare la predica di Padre Felice che si rivolge alle anime dei morti, ai malati e a quelli predisposti alla cura dei malati. La proposta sincera che quel semplice frate fa resta valida qui e ora. Si può benedire Dio in mezzo alla malattia, perché non è Lui che punisce con le pestilenze, ma perché è l’essere fatti a Sua Immagine che ci salva dagli incubi e dalle trappole del nostro egoismo:

Benedetto il Signore! Benedetto nella giustizia, benedetto nella misericordia! benedetto nella morte, benedetto nella salute! benedetto in questa scelta che ha voluto far di noi! Oh! perché l’ha voluto, figliuoli, se non per serbarsi un piccol popolo corretto dall’afflizione, e infervorato dalla gratitudine? se non a fine che, sentendo ora più vivamente, che la vita è un suo dono, ne facciamo quella stima che merita una cosa data da Lui, l’impieghiamo nell’opere che si possono offrire a Lui? se non a fine che la memoria de’ nostri patimenti ci renda compassionevoli e soccorrevoli ai nostri prossimi?

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