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Le parole per dirlo (Enza Corrente Sutera, la meridiana, 2020)

di Enza Corrente Sutera, la meridiana, 2020

Introduzione

Non è semplice parlare della morte e del morire, inteso questo ultimo come il calvario di sofferenza che accompagna sia chi sa di dover lasciare in tempi brevi la vita sia coloro che gli stanno accanto. E ancora più difficile è riferirsi a giovani, ragazzi o bambini. Una sorta di rimozione ci spinge a pensare ad altro, a far finta di, a negare più o meno inconsciamente il fatto che questo legame possa esserci. E invece c’è. Come tutti ben sappiamo. Dalla malattia alla morte, dalle catastrofi naturali al trauma delle separazioni affettive, non c’è età immune dal dolore e dalla sofferenza. E quando molto spesso e inaspettatamente ci esplode tra le mani, come è successo durante la pandemia, restiamo spiazzati, incapaci di prenderci cura proprio di quei giovani e giovanissimi che dobbiamo guidare, formare, sostenere, aiutare. È quello che facciamo, per esempio coi bambini e perfino coi ragazzi, quando neghiamo loro il coinvolgimento e la consapevolezza nella sofferenza familiare per una malattia: temendo di renderli più vulnerabili per il pregiudizio sull’infanzia da ovattare proteggendola da tutto, in realtà li isoliamo, tagliandoli fuori dalla comunicazione; e così, mentre noi adulti in famiglia ci comunichiamo il dolore sostenendoci reciprocamente nel tempo del lutto, “abbandoniamo” il bambino a leccarsi da solo le ferite, non lo sosteniamo nella criticità, non lo guidiamo ad esprimere il suo disagio e il suo malessere, non rispondiamo alle sue domande di ricerca di senso, non fronteggiamo con realismo le sue fantasie miracolistiche o catastrofiche (se prego tanto la mamma guarisce, se faccio il bravo il papà torna).
L’eccessiva protezione del bambino dal confronto col dolore in realtà lo abbandona a se stesso, lo lascia solo con la sua fragilità e i suoi sensi di colpa; non lo rafforza né lo rende capace di fronteggiare la sofferenza.
Ma mentre siamo sconvolti da dolori travolgenti, non possiamo non farci carico della sofferenza dei più piccoli perché allontanarli dal nostro dolore per “proteggerli” significa solo raddoppiarne il loro. Alla sofferenza che provano per chi hanno perso, per esempio il nonno, si aggiunge quella di sentire palpabile la nostra lontananza: e questo li costringerà a zittire il loro dolore o, peggio, a farsi carico anche del nostro; si sentiranno esclusi dal nostro mondo affettivo, dunque più soli e più esposti a fantasie catastrofiche che possono portarli a colpevolizzazioni (il nonno mi ha lasciato perché sono stato cattivo). Il bambino ha bisogno di verità, di esprimere la sua sofferenza sul dolore che si sta vivendo in famiglia, di essere rassicurato sul mantenimento delle relazioni affettive che rimangono: purtroppo gli adulti, travolti dal loro dolore, si astengono dal disagio di confrontarsi con quello del bambino inviando messaggi di indisponibilità a parlargli della morte della persona cara, lasciandolo di conseguenza solo davanti a drammi che non sa capire e gestire e su cui tace e non chiede aiuto.
Ma per poter comunicare esperienze complesse, i bambini hanno bisogno di usare parole che vengono usate là dove vivono la quotidianità: non servono adulti tecnici esperti di linguaggio specialistico, ma genitori attenti ad accompagnare i figli anche nei momenti più difficili e sofferti e che sappiano confrontarsi serenamente anche quando le parole si accompagnano alle lacrime. Le parole per parlarne sono dunque difficili da trovare, impastate come sono di dolore, sofferenza, sgomento e perfino timore di ferire ulteriormente. Perché la morte e il morire riguardano un tema angoscioso da affrontare nella vita e da scantonare nel parlare. Un tema col quale se ci sei dentro sprofondi nel dolore e se ci sei fuori esorcizzi con battutacce e scongiuri. Un tema che non sai come vivere e che non sai come fronteggiare se a viverlo è un altro. Un tema che è il moderno tabù di queste nostre ultime generazioni. Un tema sul quale non solo gli adulti, ma certamente anche giovani e giovanissimi sono spiazzati.
Perché oltre ogni stupido scongiuro scaramantico, oltre l’astrattezza della morte e la sofferta concretezza del morire, c’è chi lascia la vita ma c’è accanto chi rimane nella vita. Troppo spesso sgomento, devastato, travolto da inquietudini e ricerca di perché laceranti. Quasi sempre solo. E se questo ci investe e riguarda tutti come adulti, può diventare sconvolgente per chi è molto giovane.
I nostri ragazzi, quando il dolore estremo legato alla morte si è incuneato nella loro vita, si sono scoperti inermi, vuoti e privi di parole e modi, ma anche di linguaggi e simboli per esprimere questo sofferto e sconosciuto stato emotivo. Penetrando in modo dirompente nella loro vita con la fine di una persona cara, la morte ha aperto squarci di inquietudine, schiacciando e appiattendo nell’immobilità del dolore, oppure facendo esplodere in colleriche o isteriche aggressività. O, ancora, obbligandoli a interrogarsi quando ci si ritrova in classe attorno a un banco improvvisamente e drammaticamente vuoto.
L’irrompere della morte segna profondamente attraverso la sofferenza chi rimane e allora il bisogno più forte è quello di far drenaggio, di urlare quanto si prova, di interrogarsi su ciò che sta accadendo. Ma tutto questo bisogna essere capaci di farlo e noi oggi non sappiamo più raccontarci il dolore, non sappiamo più fermarci nei riti del cordoglio, che pur rendono umanamente vicini e rafforzano e consolano nella solitudine del vuoto che si prova: e il vuoto della morte è radicale, definitivo, separando per sempre perché strappa dalla vita.
Chi rimane è costretto a fare i conti con questo vuoto, a confrontarsi con la propria solitudine, a riprendere la propria vita senza la presenza della persona cara. Percorso oggi più che mai difficile soprattutto per i giovanissimi a cui sono sconosciute le ritualità simboliche, relegate ormai solo alla celebrazione funebre, sempre più fragili nella speranza di un dopo in cui trovare un senso, e figli di un abbaglio mediatico in cui la morte è spettacolo, sconfitta del debole, sfida da superare.
Ma il tempo del lutto, che passa dalla fase traumatica iniziale a quella successiva in cui ci si sente come vuoti dentro e normali fuori, con adattamento difficile alla quotidianità, deve essere seguito da una fase risolutiva, in cui si è capaci di ricordare chi non c’è più con affetto e rimpianto, avendo superato la fase acuta del dolore. Ma davanti alla morte dell’amico o del genitore i ragazzi non riescono a dar forma al loro dolore, non sanno sfogarsi perché temono di autodistruggersi, non riescono ad agganciarsi ai ricordi e a quanto di bello chi non c’è più ha lasciato, perché prende il sopravvento il senso di doloroso sgomento e paura per ciò che è accaduto. La sofferenza però sarà meno devastante solo se si troverà un modo per “raccontarla” e condividerla, perché è nella relazione umana che continua che si possono trovare risposte di contenimento e senso. Altrimenti la ferita emotiva può essere talmente grave da produrre contraccolpi pesanti, amari, a volte ingestibili. È dunque qui che i giovani hanno bisogno di un adulto che, pur lacerato anch’esso dal dolore, sappia far quel drenaggio e quel contenimento che permetta di fronteggiare questo aspetto tragico dell’esistenza. E invece può succedere, proprio come racconta una delle storie del libro, che siano gli adulti disperati e incapaci di accettare la perdita di un loro figlio, ad aggrapparsi alla sua giovanissima amica trattenendola su un disperato precipizio, per resistere ad ogni possibile separazione e cercar sostegno nell’angosciosa solitudine, ma ciechi sulle conseguenze assurde del loro agire. È questo, infatti, ciò che può accadere: imboccare la deriva individualistica che fa ungere ossessivamente la ferita del proprio lutto sprofondando in una penosa situazione d’angoscia.
Tutti sappiamo che l’impatto con la morte (dell’amico, del genitore, del fratellino…) ferisce in modo violento, ma la reazione può essere la più eterogenea: incapaci e soli nella ricerca di un senso da dare al vuoto sofferto che travolge, i ragazzi si impietriscono in un perdurante silenzio, oppure vanno verso lo smarrimento collerico con atteggiamenti di angosciante sfrontatezza (spacconeria, risate fuori luogo, atteggiamenti libertini, intolleranza sfrontata alle regole scolastiche…) mentre altri si negano emotivamente il coinvolgimento e perdurano nel loro solito modo di essere come se…
Come è facile capire, la fragilità e lo smarrimento prendono il sopravvento là dove il dolore è compresso, trattenuto, impossibilitato a venir fuori. E oggi, in questo inebriante mondo di suoni e parole, proprio le parole per dire quello che abbiamo più bisogno di dire o sentirci dire sono come censurate in fieri. E anche noi adulti ci troviamo poveri di linguaggi, di simboli, perfino di riti che, comunque, compensano e contengono; davanti ad un evento così naturale eppure così assurdo, ci troviamo balbettanti. O angosciati. Incapaci comunque di trovare parole.
Da adulti dobbiamo anche chiederci perché proprio la nostra generazione ha tolto ogni forma di rito simbolico, pur tramandato in vari modi e nelle varie culture e religioni, nel corso dei millenni. Riti che danno una spinta a fronteggiare le improvvise situazioni emotivamente sconvolgenti, che danno o propongono simbolici paletti per non andare alla deriva, che indicano la speranza di un altrove e che, attraverso simboli-parole-gesti-colori indirizzano e guidano il dolore trattenendo al di qua dalla disperazione. Certo, se per noi adulti il ricordo dei riti del lutto può avere ancora un significato, incluso in essi il funerale, per la maggior parte dei ragazzi non è più così e proprio quelli che sono fuori dall’esperienza gruppale strutturata (scout, oratori, movimenti giovanili…) ne sono i più privi. Sono i ragazzi poco spinti e guidati a pensare, quelli più esposti al consumismo frettoloso dell’emozione: bravissimi a descrivere minuziosamente il perché di un rigore in una partita o il motore della Ferrari o, ancora, il fascino di una influencer, incapaci però di dare uno sguardo a se stessi o alla propria interiorità. E questi ragazzi così spigliati nel fare e nel correre si paralizzano e diventano balbettanti davanti a una perdita improvvisa di un coetaneo; come ben sanno gli insegnanti che a volte si trovano in classe a fronteggiare queste situazioni, con reazioni di violento impatto depressivo, ragazzi incapaci di piangere, bloccati e fermi in un dolore inesprimibili perché questo nostro mondo non accetta i cedimenti, ragazzi impossibilitati a raccogliersi attorno al proprio dolore e alla morte. Di quest’ultima, spettacolarizzata e perfino ridotta a teschio da esibire nell’anello o nella T-shirt, è meglio non parlare, sui suoi effetti è meglio non pensare; e si scantonano così le riflessioni e le fatiche per cogliere il senso da dare agli eventi, con la conseguente necessità di affrontare il limite e, con esso, la ineluttabilità del morire come parte integrante del vivere.
Oppure, di fronte ai grandi perché della vita, affascinano ricerche di senso di tipo intimistico, armonico, sentimentale… alla
New Age, per capirci, che si arrestano però davanti al mistero dirompente e devastante della morte.
E allora succede che questi nostri ragazzi, così poco attrezzati a fronteggiare il dolore che nasce dal limite, si smarriscono perché non ci sono coordinate chiare entro cui orientarsi, mentre dilata spesso inascoltato il bisogno eterno di rispondere a quel “da dove vengo e dove vado” che esplode proprio là quando meno te lo aspetti, nel dolore più cocente.
All’imbarazzato e sofferto silenzio degli uni, gli adulti, che non sanno che dire e che fare, corrisponde l’impacciata sofferenza degli altri, i ragazzi, chiusi nel loro solitario dolore e incapaci di raccontarlo, come descrive quasi poeticamente la ragazzina nel tema che dà l’incipit alle storie del libro.
Ma può accadere anche il contrario, come racconta l’esperienza di alcune positive “rielaborazioni del lutto” che alcuni insegnanti riescono a fare in classi turbate per l’improvvisa morte di un compagno o di un genitore: piuttosto che arrendersi davanti alla tristezza dei ragazzi che han voglia solo di chiudersi nel loro dolore (come è più facile dire: “vi capisco, siete molto abbattuti, siete tutti tristi, parliamo d’altro e andiamo avanti”!) accompagnano questi alunni sconvolti a non fuggire dalla riflessione sul dolore e la morte, superando paura e sgomento e indirizzando alla condivisione per riprendere la speranza e la voglia di vivere. Questo è possibile non fuggendo, ma sforzandosi di dar forma al dolore.
Quello stesso dolore che, certamente a fronte di approfondimenti e maturità, può diventare addirittura forza trainante per dar senso alla vita.

 

Le parole per dirlo | Enza Corrente Sutera | la meridiana | 2020

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