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Chi sono i «sensitivity readers» e qual è il loro ruolo nell’editoria?

di Elisa Buletti

Una nuova figura professionale si sta affacciando, da qualche tempo, al mondo dell’editoria: i «sensitivity readers», ovvero gli editor che vagliano i manoscritti con la missione di identificare passaggi che contengano stereotipi, pregiudizi o rappresentazioni che possano risultare offensivi o dispregiativi nei confronti di alcune comunità minoritarie, etniche, sessuali e culturali.

Una pratica già rodata nel settore editoriale anglosassone che recentemente sta prendendo piede anche in Francia. Uno dei casi più famosi che ha fatto esplodere il fenomeno riguarda American Dirt di Jeanine Cummins, uscito nel 2020 per Macmillan Usa (Il sale della terra, Feltrinelli). Il romanzo è stato scelto da Oprah Winfrey per il suo noto Book Club ed è così finito in vetta alle classifiche dei best seller. Poi, drasticamente, ha subito un crollo d’immagine: il libro, che racconta la fuga negli Usa di una madre messicana insieme al figlio, secondo alcuni semplificherebbe la questione dell’immigrazione latina dando un’immagine stereotipata del Messico e dei cartelli messicani. Nel corso del tempo, la polemica – scoppiata sui social – ha assunto una proporzione tale da costringere l’autrice e l’editore ad annullare il tour di promozione del romanzo. E non è l’unico caso del genere.

Il ruolo di questi «editor della diversità» è proprio quello di intervenire sul modo in cui una cultura o una comunità viene rappresentata, spesso appartenendone loro stessi o avendola studiata a fondo, acquisendo così una particolare sensibilità verso le dinamiche che la vedono protagonista.

Si tratta di una nuova professione che si sta sviluppando a grande velocità e non sono mancate le polemiche: i «sensitivity readers» sono stati accusati di censurare gli autori, limitandone la creatività e ingabbiando i testi in schemi predefiniti. Tuttavia, secondo Le Monde, il loro ruolo è «necessario affinché l’industria, in maggioranza bianca e privilegiata, prenda coscienza dei propri pregiudizi razzisti, sessisti e omofobi». L’obiettivo, infatti, non è quello di riscrivere l’intero testo o imporre la propria visione all’autore, ma, anzi, è quello di arricchire le fasi di ricerca e sviluppo – essenziali nella stesura di un manoscritto –, fornendo una reale esperienza vissuta. Eva Wong Nava, che fa questo mestiere da qualche anno, ha sottolineato che «È un lavoro editoriale. Non vogliamo censurare nessuno, ma solo dare dei suggerimenti leggendo i testi attraverso la lente della nostra esperienza di vita, professionale o di ricerca, per fornire un feedback sull’autenticità».

Helen Wicks del gruppo editoriale Bonnier ha dichiarato a The Bookseller: «Riconosciamo che si tratti di un delicato equilibrio e che la voce dell’autore dovrebbe essere rispettata. Tuttavia, riteniamo che i sensitivity readers possano svolgere un ruolo importante nell’editoria inclusiva e lungimirante». Lo scopo? Portare le migliori storie possibili a un pubblico più vasto possibile. «Si tratta di un altro tipo di lettura esperta che solleva domande che a ogni redattore, per quanto rigoroso, potrebbero sfuggire, dando l’opportunità all’autore di rivedere il proprio testo attraverso una particolare lente. Ma non è detto che gli autori implementino tutti i suggerimenti proposti: è un dialogo intelligente e costruttivo» ha aggiunto Rebecca McNally, direttrice editoriale di Bloomsbury Children’s Books.

Una figura che acquisisce ancora più importanza nel contesto dell’editoria per bambini e ragazzi, dove i «sensitivity readers» trovano le proprie origini. Ci sono, infatti, svariate ragioni per regolamentare i libri che vengono affidati alle mani dei bambini: la lettura, per loro, è formativa – può essere anche imposta dalla scuola ed essere letta alta voce, all’interno di classi sempre più ricche di svariate culture – ed è quindi fondamentale evitare stereotipi e rappresentazioni offensive che condizionino i più piccoli. «Non crediamo che si possano rendere i libri per bambini troppo inclusivi se il risultato è far sentire ogni bambino rappresentato tra le pagine dei libri, rafforzando la sua empatia attraverso la lettura», ha affermato Shannon Cullen, direttrice editoriale del gruppo Quarto Kids.

C’è davvero bisogno di questa nuova figura professionale nel panorama editoriale? Secondo quanto ha dichiarato Juno Dawson al The Guardian, decisamente sì. «C’è un problema più grande che si nasconde sotto la superficie di tutto questo. Non avremmo bisogno di editor esterni se i team delle case editrici fossero più diversificati. Mi è piaciuto lavorare con ognuna di loro, ma tutte le editor che ho avuto, dal 2011 fino ad ora, erano donne bianche cisgender provenienti (immagino) da ambienti agiati. I loro capi, quasi esclusivamente, uomini bianchi cisgender. Perché non dovrei voler un’altra prospettiva sui personaggi che invento?».

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