Rebecca libri

L’editoria del futuro non avrà radici? “Leggere possedere vendere bruciare” di Franchini

di Ambrogio Arienti

La copertina di Leggere possedere vendere bruciare (Marsilio), ultimo libro di Antonio Franchini, è occupata da un’opera di Rebecca Campbell che rappresenta una situazione paradisiaca – e molto stereotipata, com’è giusto che sia – per un lettore avido e instancabile: una persona siede su un divano in una tipica posizione poco comoda ma interiorizzata, un librone tra le mani, un cane a scaldare i piedi e un gatto a sonnecchiare sulla spalliera; dietro di sé una libreria enorme che si sviluppa in verticale, di quelle che si possono consultare solo con una scala. Sembra quasi dire, questa copertina: se sei un vero lettore, e magari il nome di Antonio Franchini ti dice anche qualcosa, qui trovi una raccolta di racconti – perché così vengono etichettati in basso, a fianco del nome della casa editrice – sulla vita e le peripezie di chi legge per diletto e per professione.

Franchini d’altronde è figura di rilievo dell’editoria italiana, autore fine e versatile, lettore instancabile. È stato editor per molti anni alla Mondadori, ora lavora presso il gruppo Giunti-Bompiani. Se ha qualcosa da dire in merito alla lettura e al mondo editoriale, almeno stando alle premesse, è opportuno ascoltarlo. Senza contare che un suo nuovo libro, a prescindere, dovrebbe attirare una certa attenzione: per farsi convincere basta pensare, e cito per gusto personale e per rappresentare la versatilità di cui parlavo, ai racconti ‘postemingueiani’ de Il vecchio lottatore (NN, 2020), al romanzo L’abusivo (Marsilio, 2001) o alla trattazione saggistica colta di Quando vi ucciderete, maestro? (Feltrinelli, 1996).

I ‘racconti’ – racconto e saggio qui vanno di pari passo, e l’etichetta scelta, pur legittima, è da prendere con le pinze – sono cinque, molto diversi tra loro, e si riferiscono alle età del lettore-Franchini. Proverò a riassumerli, per dare un’idea del libro.

Nel primo, I libri di mio padre, il narratore cataloga la biblioteca del padre scomparso, grandissimo accumulatore, aprendo le scatole polverose da cui escono le care «domestiche interiora» che ora gli appartengono. Il passaggio da padre a figlio non è quantificabile soltanto in termini di carta: i libri si appesantiscono di ricordi, annotazioni, bigliettini, si appiccicano a chi li ha custoditi gelosamente e amati. I libri, è un’ovvietà che si porta dietro una verità indiscutibile, non sono soltanto pile di carta con rilegature più o meno preziose. Qui il registro è volutamente quello del ricordo nostalgico e commosso.

Il secondo e il terzo racconto compongono un dittico sull’esperienza editoriale di FranchiniLettore di dattiloscritti, pubblicato su Nuovi argomenti nel 2001 e qui riproposto, testimonia il punto di vista dell’autore a trent’anni, mentre Le età d’oro dell’editoria italiana, scritto in occasione di quest’uscita, restituisce la visione del Franchini di oggi, che guarda dietro sé e cerca di trarre delle conclusioni su quanto ha visto in tutto questo tempo e sul futuro del settore.

Il quarto racconto, Memorie di un venditore di libri, racconta le gesta di Procolo Falanga, mitica figura fatta di carne e di parole, di verità e invenzione: venditore d’altri tempi, uomo dotato di pronuncia e scaltrezza partenopee, è quasi un personaggio carnevalesco – colto e popolare, furbo e compassionevole, eroico e ridicolo. Franchini si diverte a muovere le sue marionette: tra siparietti, omaggi discreti e silenziosi e scene di vita vissuta, restituisce l’immagine di un mestiere che sta scomparendo ma ha segnato un’era, e mostra come i libri, tutto sommato, siano fatti anche di carne. Ma poi qui, genuinamente, si ride: come quando Procolo corre nell’unica libreria di Capri a ordinare di mettere in vetrina la collana della Medusa, perché Arnoldo Mondadori, il sommo direttore appena giunto con la sua barca, vuole ammirarla – pure qui, lontano dalle orecchie del principale, anni dopo, Procolo si permette una battuta caustica: «ma quando mai s’è venduta ‘a gloriosa Medusa?».

Il racconto Bruciare rende conto dell’ultimo verbo che compone il titolo: un’operazione estrema che richiama in prima battuta le epoche più buie della storia dell’uomo, dall’incendio della biblioteca di Alessandria ai roghi nazisti. Ma a voler bruciare le proprie opere non sono stati solamente degli oppressori: basti pensare a Virgilio, Gogol’, Kafka, insomma all’angoscia, anzi all’ossessione di lasciare alla Storia una traccia sbavata, incompleta o sgradita. Qui Franchini racconta, con la voce appena affettata di scrittore che, in qualche modo, sente di provare egli stesso una certa fascinazione per l’autodafé, la forza seducente del fuoco, che distrugge, illumina e purifica, che trasforma la materia.

Così si chiude il viaggio attraverso le età, i pensieri, l’esperienza del lettore Franchini. Per fermare l’idea che ho del libro vorrei tornare su tre aspetti, che credo possano svelare delle buone chiavi di lettura. Una considerazione sulla scrittura dell’autore, per cominciare: già Michele Farina, recensendo questo stesso libro sul Tascabile, sottolinea il carattere aneddotico della scrittura di Franchini. Mi pare che questa sia una caratteristica importante, da cui non si può prescindere, che peraltro ritorna in molti suoi libri: in Leggere possedere vendere bruciare nel particolare gli aneddoti sono ben calibrati, raramente superflui e sempre sagaci e divertenti, o comunque capaci di gettare nuova luce sull’argomento trattato. Penso al ricordo commosso del padre, alla resa dei temutissimi comitati editoriali presieduti da Gian Arturo Ferrari, all’audacia folle e sincera di Aldo Busi, che si siede su una poltrona nella sala riunioni di Mondadori affermando «adesso voglio proprio mettermi qua a sentire quali libri di merda promuovete!». Ne viene un affresco di colore, vivido, e sempre chiaro.

Una volta, esasperato, messo con le spalle al muro da un filosofo che, implacabile, da anni, si ostinava a propormi le sue indigeste opere di narrativa, gli dissi che no, non avrei letto un altro dei suoi noiosissimi romanzi, perché quello erano i suoi romanzi: noiosi.
Questo pensatore mi squadrò con un’espressione di sofferenza, e non per quello che gli avevo detto, ma per ciò che stava per dirmi e che enunciò dolorosamente: “Ma perché? Non è noiosa la maggior parte dei classici?”

Altro aspetto che mi interessa sottolineare, qui, è la ricchezza di spunti del dittico sull’editoria, come detto sospeso tra l’età della giovinezza e quella della maturità: qui Franchini descrive la formazione e la vita di un lavoratore editoriale, mettendo nero su bianco l’unicità dell’esperienza che matura un lettore di casa editrice. Citando Sereni, per esempio, ricorda come questo sia un impiego che obbliga l’aspirante professionista editoriale alla «quotidiana dispersione in lavori assunti non di propria iniziativa, e di rado graditi, per le solite e ovvie ragioni pratiche». Il lettore “tuttofare” si nutre di progetti estemporanei, e ciò che davvero può offrire a livello di prospettiva, più che una conoscenza assoluta della materia, è una «brevissima distanza dal testo, una distanza breve come non è consentito a nessuno», ricordando che «la percezione della letteratura è fortemente condizionata dalla nostra distanza dal testo e dalla soggezione che del testo possiamo avere». Il lettore, e ancor più l’editor, devono compiere lo sforzo di vedere un libro dove ancora c’è un progetto, un manoscritto più o meno sgrossato. Così Lettore di dattiloscritti può essere visto come un osservatorio privilegiato, a suo modo, e un diario di ventura.

Ma quando torna sui suoi passi in età “adulta”, Franchini lancia delle suggestioni importanti sul sistema editoriale intero, ripercorrendo i suoi ultimi anni di carriera e guardando al futuro – in un mondo dove, in apertura di millennio, molti addetti ai lavori si sono concentrati sullo stato di imbarbarimento del settore, inteso come sempre più prono alle meccaniche di promozione e marketing, poi “funestato” dall’ascesa dei social; soltanto dopo aver scollinato il decennio e aver incontrato la recessione, sostiene il narratore, è stato riconosciuto che in quel decennio, se pure con modalità completamente diverse, è stata vissuta una seconda età d’oro (che seguirebbe la prima, mitica – e mitizzata? – stagione degli autori-editor, dei vari Vittorini Calvino Pavese), «da un punto di vista più brutalmente materiale e commerciale». Oggi, e qui sta forse il punto più interessante, dal momento che il discorso è ancora in divenire, e neanche Franchini ha una risposta pronta, «il mondo è cambiato e i successi arrivano senza sedimentare, senza scavare, senza mettere radici». Tutto accade a una velocità quasi intollerabile, e tutto scompare in pochissimo tempo. Le novità spariscono in poche settimane dagli scaffali, i libri che pur riescono a ottenere successo sbiadiscono più lentamente, ma comunque senza lasciare traccia. Come possa l’editore, dunque parimenti lo scrittore, evitare che il successo arrivi senza garantire la canonizzazione, ma piuttosto l’oblio: questa è la domanda a cui dovrà rispondere chi intende proseguire in questo multidisciplinare, sciancato lavoro. Il problema, io credo, è destinato a ingigantirsi. Individuare le cause, o per vedere la questione da un’altra prospettiva trovare il modo migliore per adattarsi a questa nuova situazione, non è semplice.

In termini di copie i successi di oggi, anche quei pochi che rientrano in un ambito più letterario, non vendono meno di una volta, ma toccano in un tempo molto più breve quel numero di copie che prima per essere raggiunte richiedevano anni. I successi di oggi sono tempeste tropicali che allagano il terreno, lo sbancano e non lo fertilizzano. Sono incendi allargati dal vento. Dopo la morte di uno scrittore allora cominciava il processo di canonizzazione, oggi comincia l’oblio.

Rifletto infine, chiudendo questa passeggiata tra le pagine di Leggere possedere vendere bruciare, sulla frammentazione che un libro di racconti spesso impone e sulla postura dell’autore-narratore. Ci sono raccolte più o meno compatte, ma il genere tendenzialmente offre la possibilità di sfoggiare registri diversi e raccontare eventi e personaggi distanti tra loro. Qui, a dispetto della varietà di tecniche narrative adottate, è rintracciabile una continuità molto forte: la figura dell’autore è quasi sempre presente, se pur in una garbata posizione che niente ha del protagonismo o dello sfoggio personale (questa, potremmo dire, è una tipica postura franchiniana). Ne viene un’idea d’insieme, quasi di coesione narrativa: ogni racconto, a suo modo e con strumenti e tecniche espressive differenti, fornisce un tassello per la costruzione di un mosaico – a risaltare, al netto dei momenti più saggistici e impersonali, è il ritratto di un uomo che ai libri ha dedicato gran parte della vita. D’altronde anche quando Franchini cede il passo ad altri personaggi, e penso alle pagine in cui il protagonista è Procolo Falanga – venditore in cerca di un cappotto stratosferico quanto quello di Arnoldo Mondadori e simbolo della componente materica ed economica dell’oggetto libro – tornano situazioni, tematiche o citazioni care a lui, all’autore che silenzioso muove le corde. Sempre in controluce, però, senza mai prendere il centro del palco, dove si è costretti a urlare e a cercare gli occhi del pubblico.

Il fastidio che provo nel rileggermi vale sia per tutto ciò che cambierei, per l’ovvia ragione che lo cambierei, sia per quel che lascerei com’è perché quanto in me resta intatto nel tempo, più che a un’idea di fedeltà e coerenza, mi rimanda a qualcosa d’irrimediabile, alla condanna senza scampo a rimanere come si è. (da Quando vi ucciderete, maestro?)

 

Leggere possedere vendere bruciare | Antonio Franchini | Marsilio | 2022 | pagine 128 | euro 15

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