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Perché Cavazzoni è il Fellini delle lettere italiane (ma quasi nessuno se n’è accorto)

di Alberto Ravasio

1. Chiamate telefoniche tra Fellini e Cavazzoni

«Pronto, sono Fellini. C’è Ermanno?»

In Federico: Fellini, la vita e i film, il critico e amico Tullio Kezich rivela che, nei suoi ultimi anni, il maestro soffriva di una fastidiosissima insonnia, ma invece di ricorrere alla chimica, troppo arida per essere felliniana, si curava con massicce dosi di letteratura.

Notte dopo notte, da sedicente lettore distratto, provocatoriamente ginnasiale, che girava il Casanova senza averlo nemmeno letto (perché, ammetteva, ogni volta che provava ad aprire le Memorie, cominciava a tossire), si era trasformato in un lettore onnivoro e informatissimo di letteratura contemporanea.

Spesso, dopo una seduta di dodici ore consecutive di lettura, non riusciva a contenere il proprio entusiasmo e chiamava, un po’ teppisticamente, l’autore del libro alle sette del mattino, profondendosi in lodi, disamine, voli pindarici, con quel suo lessico magico, neologistico, fantafilosofico.

E come in un racconto di Kafka, svegliandosi una mattina da sogni non sappiamo se agitati o no, Ermanno Cavazzoni, scrittore di quarant’anni, nativo di Reggio Emilia e professore universitario a Bologna, ricevette la chiamata, non dell’imperatore ma del maestro, Federico Fellini, che diceva di aver tanto amato il suo bel libro d’esordio, Il poema dei lunatici, apparso nel novembre del 1987, per Bollati Boringhieri.

I due diventarono amici: Fellini diceva che Cavazzoni era come un suo compagno di classe perduto e finalmente ritrovato. E quando il carrozzone di Mangiafuoco che era il suo cinema ripartì, per l’ultima volta, un po’ rugginoso ma scoppiettante, grazie al combustibile economico dei Cecchi Gori, Fellini non scelse, come si vociferava, di girare La Commedia o I miti greci (la cui sceneggiatura è uscita da Sem nel 2015) o Mastorna (che si può rileggere grazie a Quodlibet, in un edizione del 2008) o Viaggio a Tulun, ma proprio Il poema dei lunatici del vitellone ritrovato Ermanno Cavazzoni.

Il film sarebbe uscito nel 1990 con il titolo La voce della luna, ci avrebbero recitato Benigni e Villaggio, volti arcinoti ma fellinianamente modificati: il primo reso pinocchiesco e leopardiano, il secondo, per una volta, più tragico che comico, due maschere complementari del regista, una fanciullesca e l’altra senile.

Sarebbe stato l’ultimo lavoro di Fellini.

 

2. Rileggendo Il poema dei lunatici

Sono passati più di trent’anni da quella chiamata telefonica e cento dalla nascita del cineasta di Otto e mezzo, e per l’occasione Il poema dei lunatici torna in libreria con La nave di Teseo, a conferma del vizio virtuoso della casa editrice d’impreziosire il proprio catalogo, rieditando a ritroso le opere prime, uscite altrove, dei suoi scrittori più prolifici (era già successo con Parente, Abbate, e ovviamente con Eco e Houellebecq). Torna in libreria l’esordio di Cavazzoni a poche settimane dalla riedizione di un altro volume, Il libro dei sogni di Federico Fellini, per Rizzoli, raccolta di disegni onironautici, che il regista aveva annotato, non con la penna ma con matita e pastelli, su consiglio del suo analista, il leggendario Professor Ernst Bernhard.

Ma cosa aveva visto Fellini in quelle notti insonni nel Poema cavazzoniano e perché quelle pagine avevano sedotto il suo immaginario a tal punto da prendere il posto dei suoi stessi sogni?

Il libro si apre con un avvertimento semiserio:

I casi che mi sono capitati, debbo ancora capirli, e non ho smesso di rifletterci sopra […]. Quindi ecco che li sottopongo all’attenzione di qualcheduno che se ne intenda.

Un Certo Savini dice di essere l’ispettore ai pozzi, oppure è solo un lunatico, che nei pozzi ci cade dentro, perché da sotto lo hanno chiamato, oppure è le due cose assieme, ispettore e lunatico.

poema dei lunaticiDi Savini sentiamo solo la voce, una voce che racconta all’insaputa di sé, almanaccando filosofie strampalate, aneddoti folgoranti, rivisitazioni comiche della storia.

Savini procede in moto picaresco, rapsodico, è un eroe sonnambulo e un po’ suonato. Lo sfondo è una Pianura Padana immersa in una nebbia folta, che avvolge il cranio dei suoi abitanti come un lucchetto, stordendoli, togliendo loro il senno, una Pianura Padana o notturna o nebbiosa, ma sempre umidissima: «se pianti un bastone per terra, neanche troppo a fondo, hai già fatto una fontana», in casa ti vengono su le pannocchie dal pavimento.

In questa Pianura Padana, non si capisce bene se preadamitica o postapocalittica, lo spazio e il tempo sono ingarbugliati. Quando chiedi un’indicazione, ti rispondono che il posto dove devi andare è molto vicino, vicinissimo, ma è complicato: i confini geografici sono come elastici, si allungano e si accorciano surrealisticamente. Anche il tempo è ubriaco, impossibile da misurare: vai a letto un pomeriggio, e dormi per un anno.

Il reale e l’onirico sono mescolati, anche nella stessa frase, puoi dormire mentre cammini, viaggiare stando fermo nel tuo letto, può capitare che uno, senza farsi sentire, «sia già mezzo dentro un sogno, e vada e venga come in un’altalena».

Persino la comunicazione è impossibile, chiedi il sale e ti danno lo zucchero, nessuno ha documenti, identità precise, ognuno assicura di essere Tizio o Caio, ma nel periodo successivo subito è smentito, contraddetto dal vecchiume autoctono, inattivo e dunque spione.

I personaggi non si definiscono in base a quello che fanno, ma in base a quello che raccontano, sono narratori indomiti, generosissimi, e nonostante la narrazione proceda sempre in prima persona, dal punto di vista eccentrico di Savini, ecco che, ogni tanto, il testimone narrativo viene ceduto a un nuovo personaggio: Nestore, il becchino Pigafetta, il prefetto Gonnella «in congedo ma facente funzione».

Queste singolari figure soffrono come di un’incontinenza espressiva, nessuno le ha interpellate, ma loro raccontano storie, forse vere, forse false, forse verissime, sempre contagiose. Raccontano di Taddei Filippo, una sorta di uomo talpa, residente in tane autoprodotte o nel granoturco. Raccontano di un certo Rosselli, asino volante ma non troppo, visto che riesce ad alzarsi solo fino all’altezza dei pioppi. E raccontano di una luna tenuta su da una gru, di un inferno sotterraneo fatto non di fuoco ma di tubi rugginosi, raccontano di un uomo dal pene mostruosamente grande, più grande di lui, una balena glandica, e raccontano di donne come vaporiere, sempre eccitate e fumanti e scalcianti, e così via, all’infinito.

I racconti spesso si estendono oltre i confini incerti della Pianura e affrontano tutta la storia dell’uomo, riscrivendola comicamente. Alessandro Magno parte alla conquista dell’Oriente con un esercito cavalcante orsi, struzzi, pitoni, un esercito inebetito dal meticciato etnico e linguistico, più simile a un circo che a un impero armato. Gli Aztechi poi non sono estinti, ma se ne stanno nascosti nei boschi, e al posto di costruire città si limitano a immaginarle, per mimetizzarsi meglio, mentre i Visigoti, ignorati dalle popolazioni locali, sono scomparsi causa progressivo anonimato.

Tutto è immerso in una sorta di esilarante, anche se un po’ disperato, gorgismo conoscitivo: «Nulla è, e anche se fosse pensabile, non sarebbe dicibile, perciò non ci resta che raccontare, non ci resta che scrivere». Non ci sono verità assolute, ma solo verità chiacchierate, verità del «Si dice», senza epistemologia, senza nemmeno verosimiglianza o coerenza interna, verità rivelate non dal pulpito ma da un pozzo: verità lunatiche.

Il gorgismo cavazzoniano si sposa magistralmente con la sua lingua, barocca ma agile, affabulatoria ma mai ruffianamente comunicativa, una lingua, come quella di Celati, Zavattini e Malerba, contaminata dalla parlata emiliana, non tanto nel lessico, che è sempre italianissimo, ma nei tempi comici, nell’andamento sintattico, nell’uso della punteggiatura.

Riletto oggi, Il poema dei lunatici resta un esordio molto convincente, scritto con uno stile così riconoscibile e consolidato che, dopo un solo libro, già meriterebbe il massimo riconoscimento conferibile a un autore: un aggettivo tutto per sé, al pari del suo amico Fellini.

Il poema dei lunatici è un romanzo già completamente cavazzoniano, anche se, per nostra fortuna, il bello doveva ancora venire.

 

3. Cavazzoni è il Fellini delle lettere italiane ma nessuno, o quasi, se ne è accorto

Dopo Il poema, Cavazzoni ha pubblicato molti altri libri, di cui ricordiamo alcuni titoli (anche solo per mostrare le sue doti da titolista): Vite brevi di idiotiCirenaicaGli scrittori inutiliStoria naturale dei giganti e infine La galassia dei dementi, finalista al Campiello nel 2018.

Nel frattempo ha continuato a insegnare a Bologna e poi a Zurigo, ha curato molte pubblicazioni di altri, soprattutto di Celati e dello stesso Fellini, per Quodlibet, e da molti anni scrive, quasi settimanalmente, sulla «Domenica» del «Sole24Ore», pezzi irregolari ma sempre sorprendenti (ne consigliamo uno in particolare sul sorriso dal titolo Perché si sorride in foto), recentemente raccolti, sempre per La nave di Teseo, nel volume Storie vere e verissime, uscito qualche mese fa.

La carriera di Cavazzoni inizia dove quella di Fellini finisce, il primo libro di Cavazzoni coincide con l’ultimo film di Fellini, ma Cavazzoni, nel frattempo, è diventato Fellini, il Fellini delle lettere italiane?

La risposta a mio avviso è sì, il suo universo poetico è vasto e peculiare e necessario quanto quello dell’amico, ma (come in una pagina del suo Poema) nessuno, o quasi, se ne è accorto.

Se chiedessimo a chi se ne intende, a critici, professori, editor, di indicare i primi cinque massimi scrittori italiani viventi, siamo abbastanza certi che troveremmo Siti, Moresco, Busi, Mari, Albinati, Veronesi, magari Piperno, Vasta, Pecoraro forse, qualche incauto potrebbe infilarci Scurati o Piccolo, ma Cavazzoni no, nonostante Cavazzoni eguagli e spesso superi, per quantità e qualità, molti degli autori sopracitati.

Di eccezioni virtuose ce ne sono, naturalmente (ad esempio Giglioli, Cortellessa, Marchesini), ma resta innegabile che, giunto al traguardo anagrafico (e bibliografico) del venerato maestro, Cavazzoni non dispone, come altri suoi colleghi, di un esercito critico tutto per sé o, ancora meglio, di un manipolo di nipotini, adoranti e un po’ mimetici, come quelli dell’ingegnere in blu Gadda.

Per spiegare questo parziale isolamento critico, potremmo provare a cavarcela con una boutade. Cavazzoni non è un personaggio scrittore: se la sua opera è straordinaria, lui, di contro, è fieramente ordinario. Non è uno scrittore maledetto o benedetto, non è uno scrittore con la scorta o con le malattie veneree, non è uno scrittore donna femminista o uno scrittore impegnato a impegnarsi politicamente, non è nemmeno, si spera, lo scrittore invisibile Elena Ferrante.

Va però detto che di scrittori/professori universitari, dallo stile di vita straordinariamente ordinario, ce ne sono molti, e molti di questi godono di un’attenzione maggiore rispetto a quella che può vantare Cavazzoni: Piperno, Siti e Mari sono, o sono stati, chiusi in aula a tenere esami, ma hanno, ad oggi, un posto nel canone. Perché Cavazzoni no, o almeno non del tutto?

La seconda ipotesi, che in parte si ricollega alla prima, ma la estende, dall’extra-letterario al letterario, è che Cavazzoni non sia un classico vivente come un Siti, un Busi o un Moresco perché, nelle sue opere, lui non c’è mai: Cavazzoni è forse l’unico, tra gli scrittori più talentuosi degli ultimi trent’anni, ad aver rinunciato completamente alla tentazione dell’autofiction.

Non solo Cavazzoni non è un personaggio fuori dalla sua opera, ma non lo è nemmeno dentro. Nei suoi libri non ci sono degli Zuckerman, non ci sono degli Arturo Belano, personaggi alter ego che sono lui ma non del tutto, che fanno cose che lui non ha fatto ma che farebbe se non fosse impegnato a scriverne.

Siti si chiama per nome già dall’incipit, Mari racconta la sua sanguinosa infanzia, Busi il suo seminario sulla gioventù, Albinati gli anni pariolini alla scuola cattolica, persino Moresco, che sarebbe improprio inserire nell’autofiction, nei suoi libri è sempre presente, trasfigurato dall’increazione ma c’è, Cavazzoni no, mai.

Di Cavazzoni, nei suoi libri, troviamo solo ed esclusivamente la voce narrativa, il suo punto di vista sul mondo, nient’altro. Cavazzoni non è da nessuna parte, perché è ovunque, ma mai solidificato in un personaggio, sempre orale, verbale, sempre bardo.

Cavazzoni sarebbe un Fellini delle lettere che però ha girato solo opere corali, come Amarcord o La nave va, senza mai mettere in scena la propria vita, la propria autobiografia inventata, senza mai scegliersi un Mastroianni che dicesse a tutti i fatti e misfatti suoi, come nella Dolce vita o in Otto e mezzo, e questo lo avrebbe reso meno iconico, meno riconoscibile, meno divo.

Ma è sufficiente questo a renderlo così indigesto al canone o c’è dell’altro? E la sua rinuncia all’autofiction è timidezza da scrittore emiliano, non certo provinciale ma di provincia, oppure ha qualcosa a che vedere con la sua idea di letteratura, con la tradizione da cui proviene?

E qui arriviamo alla terza e ultima ipotesi:

Cavazzoni non è nel canone come un Siti, un Moresco o un Mari, perché è uno scrittore boccaccesco, uno scrittore che al pianto predilige il riso, uno scrittore più comico che tragico, sempre antiretorico, sempre ironico, che ricorre al grottesco, al demenziale, al non senso.

È come se la letteratura, non solo italiana, fosse divisa in due, tra Dante e Boccaccio, tra coloro che si prendono sul serio, ponendosi al centro dell’opera, con coraggio e ardore e un pizzico di megalomania, e quanti invece, consapevoli che il mondo è tutto uno scherzo, e che se provi ad afferrarlo ti sfugge, si mettono in disparte e raccontano, per il semplice piacere di farlo, senza sistemi, senza teologie, senza velleitarismi sapienziali.

Gli scrittori danteschi sono coinvolti, vogliono aver ragione, denunciano, fanno invettive, vogliono cambiare il mondo con la letteratura o piegare il mondo alla loro letteratura, sono eroici, martiri volontari, profeti dalla voce grossa, abramitica, mentre quelli boccacceschi, al contrario, sono svagati, ironici, relativisti, polifonici.

In questo senso, gli scrittori nel canone (Siti, Moresco, Mari) sono scrittori danteschi, mentre Cavazzoni è, forse, il solo boccaccesco della letteratura italiana, anche se lui preferirebbe dirsi allievo di Ariosto, ma di un Ariosto contaminato con Monicelli, un Ariosto brancaleonesco.

Il riso di Cavazzoni non è becero battutismo, ma è un riso filosofico, somiglia al riso di un moralista francese, di un Voltaire, ma forse Cavazzoni ha ancora meno risposte di Voltaire, non crede nei lumi, nel razionalismo, è più, come detto sopra, un Gorgia o uno Zenone, che sembra dire a ogni riga: «Nulla è, e anche se fosse, non sarebbe pensabile, e nemmeno dicibile, e dunque non ci resta che scriverne».

Il riso di Cavazzoni riprende, anzi affianca il discorso che Kundera propone nei Testamenti traditi: il romanzo sarebbe la momentanea sospensione dell’etica, della seriosità, nel romanzo si può ridere di tutto, mettere alla berlina tutto. Il contrario del romanzo è il testo sacro. Ecco perché, conclude Kundera, il fondamentalismo islamico ha messo a morte Rushdie.

Cavazzoni, nei suoi libri, non si è preso sul serio, mai nemmeno una volta, e i critici hanno fatto lo stesso, hanno dato retta a profeti più appariscenti, venditori di risposte, senza capire che il riso è una cosa non seria ma serissima, e che i primi a dover essere presi sul serio, sempre, sono proprio coloro i quali non si prendono sul serio mai.

E qui mi si conceda un auspicio. Dato che tutti quanti (tranne la casalinga di Voghera) si domandano dove vada il nuovo romanzo italiano, se sia mondiale e interdisciplinare, come sdottoreggia Santoni, o ibridato con la macchina, come tuona Genna, la mia modesta proposta è questa: più Cavazzoni per tutti, più scanzonata polifonia, più voci e meno autofinzionalità, più invenzione e meno senso, più resa allo stupore e meno retorica, e poi più Boccaccio, più Ariosto, più Rabelais, e soprattutto meno profezie alla «Verrà il giorno» e più «Non so, non capisco, ma scrivo».

 

4. «Se non fossi stato Cavazzoni sarei stato Fellini: il regista è un architetto di cattedrali, lo scrittore un monaco amanuense»

Ma siamo poi così sicuri che Cavazzoni voglia davvero essere il Fellini delle lettere italiane? Dopotutto è un mestiere difficile, caotico, rocambolesco, che alla lunga sfianca, soprattutto a una certa età.

Il novembre scorso, alla presentazione del suo penultimo libro, Storie vere e verissime, a Verona, Cavazzoni ricordava il suo primo incontro con Fellini, quella bolaniana chiamata telefonica, la loro amicizia, il loro essere compagni di scuola perduti e ritrovati, e ammetteva anche, con una punta d’imbarazzo, di essere stato, per un po’, invidioso di Fellini, invidioso di tutte quelle bellissime donne, dei culoni benauguranti, delle Saraghine e delle Gradische, invidioso di un quotidiano così caleidoscopico e rutilante, e infine invidioso di Cinecittà, di quel suo regno, fatto d’inconscio e cartapesta, che, ad ogni sguardo, gli assicurava di essere un creatore di mondi, di essere come dio.

«Il regista», riscrivo parafrasando (perché non avevo con me il registratore), «è come un architetto di cattedrali, o un avventuriero che parte su una caravella alla conquista di nuovi mondi, e quel nuovo mondo da conquistare non è altro che il film. Lo scrittore invece, sempre restando nel Medioevo, è un amanuense, un monaco che se ne sta in solitudine a ricamare frasi, a pregare, a soliloquiare, e le presentazioni sono la sua predica.»

manutenzione-dei-sogni-omaggio-a-fellini1È la solita vecchia storia: chi è regista vuole essere scrittore (Woody Allen, Bergman, Sorrentino), chi è scrittore vuole dirigere un film (Malaparte, Flaiano, Pasolini che poi ci è riuscito, di recente anche Moresco).

Ma alla fine, e con fine qui intendo fine dell’articolo ma anche bilancio di una vita, c’è davvero tutta questa gran differenza tra un bardo sulla pagina e un bardo sul grande schermo?

A Fellini Biagi chiedeva come voleva essere ricordato e Fellini rispondeva: «Come uno che ha raccontato delle storie, forse vere o forse no».

E Cavazzoni, su Celati e dunque su se stesso, scrive:

Cosa speravamo dalla vita? dicevo a Celati. Beh, la ricchezza non ci avevamo mai sperato, ed è meglio così, che non sia mai arrivata, perché la ricchezza è un lavoro, far la guardia ai soldi se no te li succhiano da tutte le parti. La soddisfazione vera è lasciare qualche seme, come diceva Platone, che possa continuare a germogliare; beh i suoi semi sono i suoi libri, ce li siamo letti tutti, continuano a vivere.

E allora, criticismo e accademismo e polemiche e canone a parte, Fellini e Cavazzoni nella vita hanno fatto la stessa cosa: hanno lasciato dei semi, uno coi film e l’altro coi libri, spetta a noi prendercene cura affinché continuino, nei secoli, a germogliare.

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