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La Lisbona di Tabucchi

di Francesco Caligaris

Ci sono due categorie di viaggiatori, a Lisbona. Quelli che hanno letto Sostiene Pereira e quelli che (ancora) non l’hanno fatto. Peccato per questi ultimi. Ma i primi, i privilegiati, coloro che sono rimasti ammaliati della prosa di Antonio Tabucchi, saranno senza dubbio spinti da un desiderio difficile da tenere a freno: ordinare una limonata zuccherata e un’omelette alle erbe aromatiche al Café Orquidea.

LA PASTELERIA DA PROVARE. Purtroppo però il celebre luogo di ristoro del protagonista – Pereira appunto, un anziano giornalista che si occupa della pagina culturale del «Lisboa» e che vive rassegnato alla morte prima che una serie di incontri ed eventi gli scombussolino l’esistenza – non esiste. O meglio: oggi c’è la Pastelaria Orquidea che geograficamente corrisponderebbe anche alla posizione in cui Tabucchi ha ambientato le vicende del suo romanzo più famoso e premiato, ma la realtà portoghese è spesso e volentieri uno sfondo indefinito e allucinato nelle opere dello scrittore toscano morto il 25 marzo di quattro anni fa proprio a Lisbona. Si coglie, dunque, una città postmoderna, illogica, metafisica.

L’ALTER EGO DEL POETA PESSOA. Il legame tra Tabucchi e Lisbona ha profonde origini letterarie. Galeotti furono il 1966, una bancarella della Gare de Lyon di Parigi e il poemetto Tabaccheria di Álvaro de Campos, uno dei numerosi eteronimi di Fernando Pessoa.

«Mi colpì moltissimo: ero abituato a una poesia sostanzialmente lirica, trovavo lì invece una poesia che era insieme teatro, riflessione filosofica, racconto. Mi dissi che se c’era uno scrittore capace di esprimere tutte queste cose in un poema dovevo impararne la lingua», avrebbe poi svelato in un’intervista del 1994 a Daniela Pasti per «La Repubblica».

E non solo ne ha imparato la lingua, Tabucchi, ma insieme alla moglie Maria José de Lancastre ha tradotto e portato in Italia l’intera opera dell’esoterico Pessoa. Ha scritto romanzi sui portoghesi e in portoghese, come Requiem, pubblicato nel 1991, ed è diventato un suo vero e proprio alter ego – un ulteriore eteronimo? – tanto da assomigliargli anche fisicamente grazie ai baffetti e agli occhiali tondi.

SAUDADE, CATEGORIA DELLO SPIRITO. Ha poi scoperto e cantato Lisbona come nessun altro autore nostrano, definendo magistralmente il concetto di saudade come una «categoria dello spirito», un «qualcosa di straziante, ma [che] può anche intenerire, e non si rivolge esclusivamente al passato, ma anche al futuro, perché esprime un desiderio che vorreste si realizzasse». Non esiste un singolo corrispettivo nel vocabolario italiano se non scomodando il disìo dantesco del Purgatorio (VIII, 1).

Scorci di Nord Africa: un giro tra l’Alfama seguendo Requiem

Postmodernismo, dubbi, incertezze. Requiem ha tutto, a partire dal sottotitolo: «un’allucinazione».
È considerato un’originale guida turistica per Lisbona, ma in verità la città appare più illogica che mai. Di riferimenti concreti, comunque, ce ne sono eccome. Due in particolare: l’Alfama e la Casa do Alentejo.
Esistono – nessun pericolo d’inganno – e sono colti e rappresentati magistralmente da Tabucchi. Il primo è il quartiere di origine araba, con «viuzze che si inerpicano su case modeste, osterie, botteghe, vecchietti che oziano sulle panchine, artigiani».

IN VIAGGIO SUL TRAM 28. Chi si immagina Lisbona sognando i bazar di Tunisi o Casablanca non va poi molto distante dalla realtà di questo scorcio di Nord Africa in cui il caratteristico tram numero 28 sembra muoversi con fatica.

Il secondo è un «luogo di una bellezza assurda», con fontane, invetriate, colonne di marmo e affreschi che tolgono il fiato. Si respira quell’aria di nobiltà ormai perduta.

Non si può, però, seguire il protagonista del romanzo nell’ampia sala da biliardo interna: la porta è chiusa a chiave e bisogna solo immaginarselo vincere la partita (e una bottiglia di Porto del ’52) con una carambola quasi impossibile, pensando intanto alla misteriosa Isabel e agli amori svaniti.

IL PIÙ ANTICO BAR DI LISBONA. Lo schizofrenico girovagare di Requiem conduce anche al Café A Brasileira, il più antico bar di Lisbona.

«Il caffè espresso all’italiana è di ottima qualità, e prenderlo a un tavolo della terrazza, in compagnia di quel signore dal sorriso ineffabile, non capita tutti i giorni», ha scritto Tabucchi in Viaggi e altri viaggi (2010).
Il signore dal sorriso ineffabile è Fernando Pessoa, la cui statua siede a uno dei tavolini che si affacciano sulla piazza in attesa di improvvisati convitati. La Brasileira campeggia sulla copertina di molte edizioni di Sostiene Pereira e crea con il lettore un legame di affetto puramente visivo.

IL MOLO DI ALCANTARA. Dev’essere stato un posto caro anche a Tabucchi, perché proprio qui, agli inizi del Novecento, Pessoa fondò la rivista d’avanguardia Orpheu. Era un punto di ritrovo degli intellettuali del tempo, decisi a rompere con la tradizione per dare vita a una nuova forma di letteratura di cui il toscano si è eletto testimone a decenni di distanza. E che ha rappresentato divinamente in un romanzo in cui il protagonista cena sul molo di Alcântara – «non un posto bello» – con il presumibile fantasma di Pessoa.
Ma alla buonanotte il Convitato sparisce e l’io narrante, strappato dalla sua casa di campagna di Azeitão per vivere un sogno che si mescola con la realtà e che poi ritorna tale, sembra non comprendere il significato della sua esistenza.

Come del resto ci capisce poco il lettore, fagocitato e poi sputato fuori da un’opera che «è anche un vagabondaggio, un’erranza attraverso la città che non risponde a nessuna logica topografica».

Cosa rimane, dunque? Una Lisbona frammentata: «Alla fine di questo percorso illogico resta forse l’idea di una città, come da alcune tessere sparse di un mosaico si può avere l’idea dell’intero mosaico».

Tra Rua da Saudade e la strada costiera: sui passi di Pereira

La Lisbona di Sostiene Pereira sembra invece più definita.

La trama del romanzo è chiaramente comprensibile, lo sfondo politico – la dittatura di António de Oliveira Salazar – gioca un ruolo fondamentale nell’evolversi della situazione e Tabucchi è sorprendentemente preciso. Date, vie, spostamenti e addirittura dettagli culinari permettono al lettore di seguire Pereira in una città che diventa a poco a poco amica. Ma la critica Angela Guidotti ha commentato: «Si potrebbe obiettare che con Sostiene Pereira Tabucchi ha voluto voltare le spalle al fantastico a favore di una storia ancorata alla realtà dei fatto storici e alla presa di coscienza del protagonista; ma non mi pare del tutto vero».
Innanzitutto il numero civico 22 di Rua da Saudade, dove l’anziano giornalista vive, e il 66 di Rua Rodrigo da Fonseca, dove lavora nella torrida estate del 1938, non esistono nella realtà. Come lo studio di Sherlock Holmes al 221B Baker Street.

IL TRENINO FINO A ESTORIL. Le case saltano tra i due intorni senza un apparente motivo ed è così che Tabucchi costruisce l’avventura di Pereira, cliente affezionato – e ripetitivo – del Café Orquidea, che preferisce spostarsi con il tram per non dover risalire a piedi dalla Baixa e affaticare il suo cuore malandato.
I portici di Rua Augusta presidiati da «camionette e agenti con i moschetti» ora coprono negozi d’alta moda e bar di ogni tipo, il treno per Parede scorre lungo la costa di Estoril a lato di spiagge affollate di surfisti e bagnanti. La Lisbona del suo capolavoro è uno sfondo realistico in una storia comunque ricca di illogicità, ma è bello seguire silenziosamente Pereira mentre si perde «al Terreiro do Paço, su una panchina, guardando i traghetti che partono per l’altra sponda del Tago».

LA NOSTALGIA DEL FADO. Il protagonista, così facendo, è solito volare con la mente a felici ricordi di gioventù che però non cita perché «non hanno niente a che vedere con questa storia». La brezza atlantica, le palme che oscillano lentamente e la musica del fado che si coglie in lontananza rendono effettivamente Lisbona una perfetta città di riflessione e nostalgia.

Di un’illusione letteraria, di un sogno che non esiste se non tra le pagine di un libro, di aspettative crollate dopo mesi di progetti. Nostalgia del passato, sì, ma anche del futuro. E non è un ossimoro. È la saudade.

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