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L’italiano dei doppiaggi e l’italiano dei romanzi

di Violetta Bellocchio
Fonte: Nuovi Argomenti, n. 73: gennaio-marzo 2016

Doppiese

La battuta «ma che stai dicendo?» è un ottimo esempio di doppiese.

Con doppiese si intende una particolare variante della lingua italiana, per come la si ascolta e la si parla negli adattamenti di film, docufiction e serie TV. Il doppiese nasce dall’incontro tra due diversi fiumi di orrore: da un lato, una dizione di vecchio stampo teatrale, che si vorrebbe priva di accenti riconducibili a una città precisa, ma porta con sé una lieve cadenza romana (“e” chiuse battono “e” aperte 7 a 1); dall’altro, un metodo di traduzione per cui ogni parola del testo originale viene resa in italiano nel modo più letterale possibile.

Le ragioni del doppiese, al cinema e in TV, dipendono dalla tempistica di produzione degli adattamenti. In breve: i dialoghi sono tradotti da una persona che non ha visto il film o il telefilm, ma ha a disposizione soltanto la «lista dialoghi», cioè un file con le battute e i nomi dei parlanti, senza alcun contesto; questa prima passata viene – a volte – sistemata dal responsabile dell’adattamento, che tende ad accorciare i dialoghi tradotti per far coincidere la quantità del parlato e i movimenti delle labbra sullo schermo. Il prodotto finale, ascoltato in italiano, può risultare privo di senso. Pensate alla valanga di «maledizione», «diavolo» e «dannazione» che esce di bocca ai personaggi americani, e che sostituisce altrettanti damn!, un’imprecazione usata in contesti non religiosi e con significati non blasfemi. O meglio: pensate all’uso dell’aggettivo “fottuto”. Perché “fottuto” è ovunque. Da «open the fucking door» si va dritti a «apri questa fottuta porta». È già tanto se si arriva a «apri questa cazzo di porta».

(Il livello più basso, in termini di qualità materiale dell’adattamento, è il doppiese hardcore, quando il budget per il doppiaggio viene ridotto al minimo e si registra tutto in un paio di pomeriggi: risultato, niente rumori di fondo, poche voci e tutte frontali; non importa in quale punto dello schermo stiano i parlanti reali, suoneranno sempre come se stessero seduti davanti a voi.)

Ora, il doppiese è una non-lingua. Non contiene nessuna frase mai pronunciata da un madrelingua italiano: quando entra consapevolmente in una conversazione dal vivo, è una strizzata d’occhio tra persone cresciute negli stessi anni, nello stesso posto, che parlano o hanno parlato lo stesso dialetto, lo stesso slang. Abbiamo guardato film-tv mal tradotti, possiamo dire «salve, straniero» a qualcuno che ha le chiavi di casa nostra. E in qualche modo possiamo sopportare – se non perdonare – l’esistenza del doppiese in TV: questa non-lingua nasce da una serie di necessità materiali, da una catena di montaggio talmente serrata per cui – nei fatti – è impossibile ne esca un parlato che identifichiamo come “nostro”, come “italiano”. Anche a grandi linee.

La cosa che lascia secchi è il ritrovare il doppiese nei libri.

Perché certi dialoghi vengono messi su pagina, qui e ora? Perché un certo linguaggio viene identificato come “buono”, là dove un autore, se lo desidera, ha tutto il tempo di rimasticare le battute, controllare come suonano in bocca ai suoi personaggi, nel suo contesto, nella musica della sua pagina?

Tra le possibili ragioni

  1. L’insistenza, da parte di alcuni corsi di scrittura, a preparare gli studenti per quanto riguarda la struttura e le motivazioni dei personaggi, senza prestare altrettanta cura al linguaggio; da questi corsi usciranno scrittori più o meno giovani capacissimi di ragionare su mid-points e fatal flaws, ma in completa crisi quando si trovano di fronte a un dialogo in una cucina.
  2. La tirata al risparmio generale, diffusa nelle case editrici italiane, per cui un editor può pensare «i dialoghi di questo romanzo fanno schifo», ma nessun editor può o vuole assumersi la responsabilità di aiutare l’autore a riscrivere i dialoghi, a ragionare sulle battute e sul loro ritmo.
  3. La tendenza, da parte di alcuni scrittori italiani, a liquidare la natura stessa del dialogo con un «sì, beh, la gente parla un po’ così».

Sì, beh, no, la gente non parla un po’ così

Torniamo un attimo a «ma che stai dicendo?». È un calco di «what are you saying?». È un calco letterale, sintattico, strutturale, che serve nel momento in cui devono coincidere per forza quattro movimenti delle labbra e quattro parole, brevi. Ma-che-stai-dicendo. Questa frase esiste solo come frase tradotta; la frase italiana corrispondente sarebbe «ma cosa dici?», oppure, girandola, «non ho capito». Se devo leggere una frase tradotta, preferisco un «what the fuck» gettato alla cieca in un periodo italiano.

L’ultimo esempio non è casuale. Da curatrice, ho lasciato che un’autrice considerasse “chiuso” un racconto dove spiccava la frase «[…] E noi a quel punto eravamo tipo, FUCK NO». L’ho fatto perché di quel racconto conoscevo i personaggi, l’epoca, l’ambientazione; non c’erano dubbi sulla corrispondenza tra un certo parlato e un punto di vista preciso, chiaro. Sporcare il testo in quel modo era la strada più naturale. (Avrei tenuto buono anche un hell no. Forse.) Questo mentre si continuano a lanciare allarmi sui troppi termini anglo-americani presenti nel flusso dell’italiano parlato o scritto, imputando a loro l’impoverimento generale della nostra lingua. Sono certa che in questo numero di «Nuovi Argomenti» qualcuno racconterà la perdita dei dialetti, o delle parlate regionali. Non ci si preoccupa altrettanto del doppiese, perché, a un ascolto distratto, il doppiese non sembra “un impoverimento dell’italiano”. Può suonare come un italiano qualunque, impersonale, non assimilato. Ma è il sintomo dello stare parlando e scrivendo in una bolla di plastica, senza nemmeno prendere atto che la bolla esiste.

Non-lingua, non-gesti, non-frasi

Se usciamo dallo specifico del dialogo, ma restiamo nella prosa, l’equivalente del doppiese sono le non-frasi e i non-gesti; le non-frasi sono calchi rozzi da un’altra lingua («la pentola sobbolliva sul fuoco», esclamò lei, inorridita), mentre i non-gesti sono le azioni che infiliamo in una scena soltanto per spezzare il dialogo, punteggiarlo con indicatori di spazio e movimento. Sostituiscono il [pausa] nelle indicazioni di un dialogo sceneggiato. Oppure sono azioni-segnaposto, dove ci pare brutto lasciare due righe vuote tra un blocco di dialogo e l’altro, o magari sappiamo che quanto abbiamo scritto non funziona, ma non vogliamo soffermarci sullo stesso punto, allora buttiamo nel testo due o tre azioni a caso. (Magari dimenticandoci della loro natura provvisoria: abbiamo quasi tutti lasciato un orrore simile in un romanzo.) Tobias Wolff individuava alcuni non-gesti nemici degli scrittori in una serie di azioni quali “accendersi sigarette”, “preparare cocktail”. Pensando alla prosa italiana contemporanea, possiamo aggiornare la lista con “attraversare stanze”, “sdraiarsi a terra”, “aprire porte (e/o indugiare sulla soglia)”. Anche questo è colpa del doppiese? No. Ma c’è dietro la stessa assenza di amore per il proprio lavoro.

Mi spiego meglio. Nel momento in cui creo un rapporto tra me e la pagina, l’unica cosa che dovrebbe contare è quella che alcuni chiamano “la musica” della pagina; la sua coerenza interna, il ritmo con cui i personaggi respirano, si muovono, parlano, il rapporto tra i personaggi e il lettore. (Qui per evitare di scrivere groove ho occupato il triplo dello spazio. Ho fatto bene.) Interrompere questa musica con un “lei esclamò inorridita” è come spezzare un gessetto sulla lavagna. A meno che l’effetto desiderato non fosse proprio quello – a meno che la musica della pagina non fosse “artificio / rigidità / disarmonia” – io lo sto scrivendo sbagliato.

La cosa del gioco sull’artificio

L’unica ragione accettabile per inserire il doppiese in un romanzo è usare la non-lingua come segno dell’isolamento di un personaggio o di un narratore. Molto bene: chi è quel personaggio? Un italiano madrelingua che usa una lingua artificiale per tenere lontano gli altri? Uno straniero che ha imparato l’italiano guardando le repliche di Giudice Amy? Non ci sono altri modi di raccontare lo stesso isolamento? Se esiste anche solo un altro modo di raccontare l’isolamento, quello è il modo. Il doppiese si deve buttare via.

Pensate a quando, per far passare il messaggio “cinque personaggi ipocriti chiusi nella falsità borghese”, si decide di attribuire a tutti e cinque i personaggi la stessa gamma di gesti/espressioni: sguardi fissi, movimenti rigidi, lunghe pause, sorrisi tirati. Immaginate questa performance narrativa come una rappresentazione nello spazio visibile, che coinvolge, ad esempio, tutti gli attori in scena durante uno spettacolo. Quanto spesso, mano sul cuore e poteste morire, vi siete trovati davanti a uno spettacolo del genere e avete potuto dire con sicurezza «questo è un gioco sull’artificio e sta funzionando»? O anche solo «questa è una scelta precisa»? Quanto spesso, invece, è stata la scelta più rapida da parte di un direttore di attori che non padroneggiava il mestiere, o un trucco che funzionava in una commedia americana del 1988 ed è stato cooptato senza rendersi conto del divario allucinante tra ambizioni e soluzioni? Per connotare “interno giorno, ambiente borghese” è sufficiente che qualcuno si metta a suonare il pianoforte? No, vero? Quando in un film si mettono a suonare il pianoforte e nessuno dei personaggi fa il pianista o l’insegnante di piano, io cambio canale, perché il vero trash italiano per me è quello.

(Nota a margine: il dibattito online sulla produzione letteraria italiana relativa al genere fantasy usa spesso l’espressione “fantatrash”. Guarda un po’, si parla di “fantatrash” per i dialoghi e per il linguaggio. I forti consumatori del genere possono accettare la relativa prevedibilità dei libri, ma non una prosa considerata scadente, derivativa.)

La lingua è un fatto materiale

Prendete una frase che avete letto in un’altra lingua. Provate a tradurla in italiano parola per parola. Prendete, ad esempio, «it’s too late to die young now». Parola per parola, diventa «è troppo tardi per morire giovane ora». Rileggetela. Cominciate a lavorarla, a riscriverla. Raggiungerete un punto medio accettabile e organico tra la lettera, quello a cui aspiravate, e la lingua italiana che ascoltate, vedete, vi sentite uscire dalle dita.

A questo non diamo abbastanza importanza: l’atto di scrivere è un atto di traduzione in sé, perché è un atto di mediazione. Un passaggio tra ambizioni interiori e soluzioni materiali. Il punto di partenza può non avere nulla in comune con il risultato finale. A volte, se partenza e risultato sono irriconoscibili, è perché abbiamo perso la strada; a volte invece è perché abbiamo fatto un buon lavoro. Abbiamo sentito la storia, la lingua migliore con cui raccontarla. La materia ha vinto su di noi.

Fonte: Nuovi Argomenti, n. 73: gennaio-marzo 2016
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